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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti altomedievali

a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto

© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


II
La fine del mondo antico / 2
Gli invasori e il nuovo assetto dell’Occidente

2. Il sacco di Roma: una memoria da mitigare
(A) Gerolamo, Lettere, 6, 127.
(B) Orosio, Le Storie contro i pagani, FV, VII, 39-40.

(A) Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita.

Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata: anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura.

O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca.

Come ridire la strage, i lutti di quella notte?

Chi può la rovina adeguare col pianto?

Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo:

Un gran numero di cadaveri erano sparsi per le strade e anche nelle case. Era l’immagine moltiplicata della morte.

Gerolamo, Lettere, 6, 127.

Testo originale


(B) È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante, ma dopo aver dato ordine alle truppe, in primo luogo, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e, in secondo luogo, di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue. E a provare che quella irruzione dell’Urbe era opera piuttosto dell’indignazione divina che non della forza nemica, accadde che il beato Innocenzo, vescovo della città di Roma, proprio come il giusto Loth sottratto a Sodoma, si trovasse allora per occulta provvidenza di Dio a Ravenna e non vedesse l’eccidio del popolo peccatore. Mentre i barbari scorrazzavano per la città, uno dei Goti, tra i maggiorenti e cristiano, trovò in una casa di religiose una vergine consacrata a Dio, già avanti negli anni; le chiese rispettosamente oro e argento; ella rispose, con fermezza di fede, di averne molto e che lo avrebbe subito mostrato; così fece e, notando che alla vista di tali ricchezze il barbaro restava attonito per la grandezza, il peso, la bellezza e anche la qualità a lui ignota dei vasi, la vergine di Cristo disse a quel barbaro: “Questo è il sacro vasellame dell’apostolo Pietro: se osi, prendilo; della cosa sarai tu responsabile. Io, poiché non posso difenderlo, non oso tenerlo”. Ma il barbaro, mosso a reverenza dal timor di Dio e dalla fede della vergine, mandò a riferire queste cose ad Alarico: e questi comandò di riportare subito tutti i vasi com’erano nella basilica dell’apostolo, e di condurvi anche, sotto scorta, la vergine e tutti i cristiani che a loro si fossero uniti. Quella casa, raccontano, era lontana dai luoghi sacri e nella parte opposta della città. Così, spettacolo straordinario, distribuiti uno per ciascuno e sollevati sul capo, i vasi d’oro e d’argento furono portati sotto lo sguardo di tutti; la pia processione è difesa ai due lati da spade sguainate; si canta in coro un inno a Dio, barbari e Romani ad una voce; echeggia lontano, nell’eccidio dell’Urbe, la tromba della salvezza, e tutti, anche coloro che si celavano in luoghi nascosti, invita e sospinge; accorrono da ogni parte incontro ai vasi di Pietro i vasi di Cristo e anche molti pagani si mescolano ai cristiani nella professione esterna, anche se non nella fede, e in tal modo tuttavia riescono temporaneamente, per loro maggior confusione, a salvarsi; e quanto più numerosi i Romani s’aggiungono al corteo in cerca di scampo, con impegno tanto più vivo i barbari si schierano intorno a difenderli. […] Il terzo giorno dal loro ingresso dell’Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo numero di case, ma neppur tante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua fondazione. Ché, se considero l’incendio offerto come spettacolo dall’imperatore Nerone, senza dubbio non si può istituire alcun confronto tra l’incendio suscitato dal capriccio del principe e quello provocato dall’ira del vincitore. Né in tal paragone dovrò ricordare i Galli, che per quasi un anno calpestarono da padroni le ceneri dell’Urbe abbattuta e incendiata. E perché nessuno potesse dubitare che tanto scempio era stato consentito ai nemici al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema, nello stesso tempo furono abbattuti dai fulmini i luoghi più illustri dell’Urbe che i nemici non erano riusciti ad incendiare.

Nell’anno 1164 dalla fondazione di Roma, la città fu dunque invasa da Alarico: ma, per quanto il ricordo di quell’evento sia ancora recente, se qualcuno vede la grande moltitudine dei cittadini romani e li ascolta parlare, penserà che – come essi stessi dichiarano – non sia accaduto nulla, a meno che non siano ad istruirlo le poche rovine di quell’incendio tuttora esistenti.

Orosio, Le Storie contro i pagani, FV, VII, 39-40.

Testo originale

© 2000
Reti Medievali
Ultimo aggiornamento: 01/09/05