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Fonti

Antologia di fonti sulla corte di Bisanzio

a cura di Giorgio Ravegnani

© 2000-2005 – Giorgio Ravegnani per “Reti Medievali”


PARTE II: LE FONTI

5. Giustiniano imperatore

Giustiniano I, come nipote prediletto di Giustino I, ebbe un'educazione accurata e fu da lui destinato a succedergli al trono. Giustiniano cercò di rinnovare e, contemporaneamente, di rafforzare l'impero con una serie di riforme che datano per lo più ai primi anni del suo regno, prima fra tutte il riordinamento del diritto romano. Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all'ex impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre e portando così l'impero di Bisanzio a un'estensione in seguito mai più raggiunta. Nel programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l'unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo romano, ma anche da forti convinzioni ideologiche: si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva di aver ricevuto il potere. Il suo regno, al di là dei grandi successi, fu offuscato da una serie di fattori negativi, come pestilenze, rivolte o invasioni, che resero assai controversa la sua figura, oggetto nello stesso tempo di elogi smisurati (A) e di critiche durissime da parte dei contemporanei (B).


(A) Dopo che Giustino, a lui succeduto, ebbe quietamente vissuto, senza ideare nulla di particolarmente nuovo, il successore, Giustiniano, un suo nipote, mirando a procurare allo stato ogni utile, e resuscitando l'intera gravità delle antiche forme, cominciò col creare il cosiddetto prefetto della Scizia [1].

Essendo colto, aveva scoperto dai libri quanto prospera in ricchezze e forte militarmente la regione fosse un tempo, non meno di ora: il primo a conquistarla, sconfiggendo Decebalo, capo dei Geti, fu il grande Traiano; egli, a dire di Critone [2], presente alla guerra, ricondusse a Roma cinque milioni di libbre d'oro e il doppio d'argento, senza contare, nella stima, coppe e suppellettili, greggi e armi, e oltre cinquecentomila valorosissimi combattenti con le loro armi.

Giustiniano, non essendo affatto inferiore a Traiano, decise di conservare integra per Roma la regione settentrionale, già altra volta mostratasi riottosa. E non c'è proprio da meravigliarsi se tutto procedette secondo i suoi voti, poiché egli non solo emulò Traiano in campo bellico, ma superò Augusto nella stessa pietà verso Dio e nell'equilibrio di condotta, Tito in probità e Marco Aurelio in intelligenza. […]

Da tali flutti e bufere di mali essendo scosso l'impero, per contraltare all'indolenza precedente la sorte impose l'armonia, mettendo a capo dello stato Giustiniano, il più vigile tra tutti gli imperatori. Egli riteneva la propria esistenza in qualche modo sminuita, se tutti non vegliavano e lottavano come lui, in difesa della costituzione, per ottenere non solo quanto una volta apparteneva a Roma e si era perduto per inerzia dei suoi predecessori, ma, in aggiunta, anche quanto apparteneva ai nemici.

Dunque, tanto i Persiani che lo sregolato Cosroe [3] egli all'inizio li ricoprì d'oro [4]: ma poi, quando Cosroe riprese a combattere, di ferro. D'altro canto, irrompendo con una guerra lampo sui Vandali, popolo di ceppo germanico, che stavano dissanguando la Libia, in soli due mesi li ridusse alla propria mercé: li fece prigionieri in guerra, assoggettò alla città imperiale lo stesso Gelimero insieme con i notabili di quel popolo, dai barbari chiamati Asdingi, e con la moglie e i figli, nonché ingenti ricchezze, come se stesse consegnando in schiavitù a Roma i servi più inetti. L'impresa però non gli parve eccelsa e allora assalì i Goti, che laceravano la sacra Roma con tutto quanto le sottostava e agivano oltraggiosamente contro i nobili romani di antico lignaggio; li portò via con tutti i loro beni e li sottomise con il loro capo tirannico Vitige: a Roma preservò quel ch'era di Roma.

Giovanni Lido, Sulle magistrature del popolo romano, 28-29.
(trad. it. in Bisanzio nella sua letteratura, a cura di U. Albini e E. V. Maltese, Milano 1984).

[1] Il quaestor exercitus, una carica istituita da Giustiniano per meglio controllare il confine danubiano.

[2] Medico e storico dell'imperatore Traiano.

[3] Il re persiano Khusraw I (531-579).

[4] Allusione al contributo in denaro che Giustiniano si impegnò a pagare dopo la conclusione della «pace perpetua» con i Persiani nel 532.


(B) Ch'egli non fosse un uomo, ma una sorta di demone, come s'è detto, in forma umana, lo può provare chi valuti la dimensione del danno da lui inflitto all'umanità; è dalla dismisura dei fatti che si chiarisce la potenza del loro responsabile. Nessuno, mi pare, se non Dio, potrebbe riferire con esattezza l'ammontare delle vittime sue: si conterebbe prima quanti granelli ha la sabbia, che non le vittime di questo imperatore. A una considerazione sommaria della terra ch'egli lasciò deserta d'abitanti, direi che siano morti milioni e milioni di persone. La sconfinata Libia [1] si era svuotata a tal punto, che anche affrontando un lungo cammino era arduo imbattersi in anima viva – un fatto memorabile. Eppure erano ottantamila i Vandali che non molto prima avevano costì prese le armi; e chi potrebbe avanzare un numero per le loro donne, i bambini, i servi? Ed è rimasto sulla terra qualcuno che sappia valutare quanti erano in Libia un tempo residenti in città, quanti coltivavano la terra, quanti attendevano ai commerci marittimi? Eppure io potei vederli, con questi miei occhi. E di gran lunga superiore era il numero dei Mauritani [2] laggiù residenti, spariti tutti, con le loro donne e la figliolanza. E proprio quella terra occultò in sé molti soldati romani e quanti da Bisanzio li avevano seguiti. Insomma, a stimar cinque milioni i morti in Libia, non si sarebbe ancora al livello dei fatti. E il motivo è che dopo la repentina sconfitta dei Vandali, Giustiniano trascurò di rafforzare il controllo sul territorio, né si premurò che la salvaguardia dei beni fosse assicurata dalla buona disposizione dei sudditi; al contrario, non ebbe indugi a richiamare indietro Belisario, accusandolo di comportamenti dispotici a lui affatto alieni: così avrebbe potuto governare la Libia a suo piacimento, depredarla, fagocitandola in un solo boccone.

Subito inviò ispettori territoriali e impose nuove, pesantissime, tasse; requisì la parte migliore dei terreni; vietò agli ariani di celebrare i loro riti. Ritardava i pagamenti ai militari, rendendosi loro insopportabile per questa e altre ragioni, che diedero luogo a torbidi, forieri di gran danni [3]. Incapace di lasciare le cose come stavano, era nato per rovesciare tutto nel caos. L'Italia, che è almeno tre volte la Libia, divenne ovunque un deserto – ancor peggio dell'altra. Può pertanto valutarsi con una certa esattezza il numero delle persone morte laggiù. La ragione degli avvenimenti d'Italia già è stata da me precedentemente chiarita: anche là si ripeterono tutti gli errori commessi in Libia. Avere inviato i cosiddetti ‘logoteti’ fu ragione di subitanea rovina e caos generale. Prima della guerra, il regno dei Goti andava dalla Gallia ai confini della Dacia, dove si trova la città di Sirmio [4]; quando l'esercito romano giunse in Italia, erano i Germani [5] a detenere la maggior parte e della Gallia e del territorio dei Veneti; quanto a Sirmio e ai suoi dintorni, è nelle mani dei Gepidi; ma tutto, a dirla in breve, è un assoluto deserto. Alcuni erano stati uccisi dalla guerra, altri dalla malattia e dalla fame, consueto corredo della guerra. Dacché Giustiniano ascese al trono, l'Illiria con la Tracia tutta – che va dal Mar Ionio ai sobborghi di Bisanzio, così comprendendo l'Ellade e il Chersoneso – subì pressoché annualmente le scorrerie di Unni, Sclaveni e Anti: alla popolazione furono inflitti scempi fatali. Ritengo che ad ogni loro invasione fossero più di duecentomila i Romani che finivano per morire, o in schiavitù. Il risultato fu che tutta quella regione divenne una vera desolazione scitica.

Tali gli esiti della guerra in Libia e in Europa. In tutto questo periodo, i Saraceni compirono continue scorrerie contro i Romani in Oriente, dall'Egitto ai confini della Persia; scorrerie tanto devastanti che tutta quell'area ne restò pressoché spopolata. Né ritengo sia possibile, a chiunque indaghi, appurare il numero di quanti così persero la vita. I Persiani, con Cosroe, attaccarono per tre volte le altre zone dell'impero; distrussero le città e dei prigionieri catturati nelle città conquistate e nelle restanti aree, parte ne uccisero, parte ne portarono via con sé. In qualunque terra facessero irruzione, la lasciavano spopolata. Dacché invasero la Colchide fino ad oggi, è stato sterminio continuo di Colchi, Lazi, Romani. […]

Tali all'epoca, per dirli in breve, gli avvenimenti bellici in tutto il territorio romano. A contare, poi, le conseguenze delle sedizioni in Bisanzio e in ogni altra città, riterrei che abbiano causato non minore strage di uomini che la guerra. Nella totale assenza di giustizia, e della conseguente punizione dei colpevoli – dato anzi che l'imperatore prediligeva una delle due fazioni – entrambe le parti erano inquiete, l'una perché in condizioni d'inferiorità, l'altra invece per sfrontatezza; e sempre perseguivano gesti disperati e inconsulti. Ora si attaccavano in massa, ora combattevano a piccoli gruppi, e capitava che tendessero agguati individuali. Per trentadue anni, senza posa, s'inflissero reciproche atrocità, tanto che spesso vennero messi a morte dalla magistratura preposta al popolo. La punizione per le illegalità commesse di solito ricadeva sui Verdi; ma la violenza omicida si diffuse sull'impero romano anche a causa delle persecuzioni dei Samaritani e dei cosiddetti ‘eretici’. Basti ora questa menzione sommaria: se n'è bastevolmente trattato poco sopra.

Tutto questo toccò all'umana stirpe sotto quel demonio incarnato, in veste d'imperatore; il responsabile ne fu lui. Infatti, mentre egli reggeva lo Stato romano, molte altre calamità sopravvennero; alcuni sostengono che siano accadute per presenza e macchinazione di quel demonio maligno; per altri, invece, quel che s'è qui compiuto risale all'odio divino per le azioni sue, onde Iddio, volte le spalle all'impero romano, avrebbe affidato queste terre ai demoni della violenza. Così il fiume Scirto inondò Edessa e fu causa d'infinite disgrazie per i suoi abitanti, come andrò a scrivere più oltre, così il Nilo, dopo l'abituale piena, non defluì nei tempi previsti, e fu la rovina per gran parte degli abitanti, come ho in precedenza mostrato; così il Cidno circondò Tarso e la sommerse quasi tutta per parecchi giorni, né si ritirò prima d'averle inflitto irreparabili danni; così Antiochia, la prima città d'Oriente, fu distrutta dai terremoti, come pure Seleucia che le sta vicina, nonché Anazarbo, illustrissima tra le città cilicie; chi saprebbe contare quante persone vi perirono? E si aggiungano Ibora, Amasea (già centro più importante del Ponto), Poliboto in Frigia, la città che i Pisidi chiamano Filomede, Licnido degli Epiroti, Corinto: città popolosissime sin dai tempi antichi, ma alle quali, tutte, toccò a quel tempo crollare per i terremoti e perire insieme alla quasi totalità degli abitanti.. Giunse poi la peste, che s'è già menzionata, e che si portò via la metà dei sopravvissuti. Tanto fu lo sterminio d'uomini quando Giustiniano prima resse il governo romano, poi detenne il potere imperiale.

Procopio, Storie Segrete, XVIII.
(trad. it. in Procopio, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996).

[1] L'Africa romana.

[2] I Mauri della provincia africana.

[3] Allusione alla sedizione militare e alla rivolta dei Mauri che si ebbero in Africa dopo la riconquista.

[4] Mitroviça sul fiume Sava.

[5] I Franchi.

[6] Le fazioni dell'ippodromo.

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UpUltimo aggiornamento: 25/04/2005