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Fonti

Antologia di fonti sulla corte di Bisanzio

a cura di Giorgio Ravegnani

© 2000-2005 – Giorgio Ravegnani per “Reti Medievali”


PARTE II: LE FONTI

7. L'imperatrice Teodora

La figura di Teodora, moglie di Giustiniano, è una delle più controverse della storia di Bisanzio. L'imperatore riconosce a più riprese la sua proficua collaborazione nella gestione dello stato e, sulla stessa linea, gli scrittori a lei favorevoli lodano i provvedimenti adottati a favore, soprattutto, delle classi più deboli. I detrattori, e fra questi in primo luogo Procopio di Cesarea nella Storia Segreta, le rimproverano al contrario una giovinezza dissoluta e una condotta del tutto negativa sul trono di Bisanzio (A). A questa nota opera di Procopio si deve, tra l'altro, la deformazione della figura di Teodora nei termini in cui è giunta fino a noi nella mentalità collettiva; la critica più recente tende però a rivalutarla, giudicandola sostanzialmente una vittima dello storico, mosso nei suoi confronti da risentimenti personali e di casta, date le origini popolari dell'imperatrice. In occasione della rivolta di Nika, Teodora infuse coraggio negli uomini, incitandoli a resistere fino alla fine nel palazzo assediato (B).


(A) Tale, per quanto ci è riuscito di tratteggiarlo, il carattere di Giustiniano. Sposò una donna: penserò io a chiarire quale ella fosse per origine e per educazione, e come, dopo il matrimonio con costui, abbia distrutto sino alle radici lo Stato romano. C'era in Bisanzio un tale Acacio, guardiano delle belve nel Circo: apparteneva alla fazione dei Verdi, il cosiddetto ‘allevatore d'orsi’ [1]. Costui morì di malattia ai tempi d'Anastasio imperatore, lasciando tre figlie: Comitò, Teodora, Anastasia. La primogenita non aveva neppure sette anni. La moglie, caduta in miseria, si unì a un altro uomo, che doveva occuparsi con lei, in futuro, della famiglia e del lavoro. Accadde però che il coreografo dei Prasini, Asterio, cedendo a denaro altrui, li rimosse da quella carica, e non si peritò a installare al loro posto colui che l'aveva compensato. In effetti, i coreografi potevano dirimere tali questioni a piacimento. Quando la donna vide il circo gremito dal popolo, poste le corone sul capo e tra le mani delle figlie, le fece sedere a mo' di supplici. Ma i Verdi non avevano intenzione di accogliere la supplica, gli Azzurri invece le reintegrarono nella carica: anche il loro guardiano, difatti, era mancato da poco. Quando le figlie divennero giovinette, subito la madre le avviò alla scena, poiché erano davvero belle: però non tutte simultaneamente, bensì a seconda che ciascuna le paresse matura al compito. La primogenita, Comitò [2], già brillava tra le cortigiane della sua età; Teodora la seguiva vestita di una corta tunica con le maniche, come uno schiavetto. Tra gli altri servigi che le rendeva, portava sempre a spalla lo scanno sul quale l'altra soleva star seduta nei suoi incontri. All'epoca Teodora non era affatto matura per andare a letto con uomini, né ad unirsi a loro come una donna; si dava invece a sconci accoppiamenti da maschio, con certi disgraziati, schiavi per di più, che seguendo i padroni a teatro, in quell'abominio trovavano sollievo al loro incomodo – e anche nel lupanare dedicava parecchio tempo a quest'impiego contro natura del suo corpo. Non appena giunse all'adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’ [3]. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s'era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l'intero suo corpo. Poi si associò ai mimi per tutti gli spettacoli teatrali e partecipò a ogni loro attività, assistendoli in ogni loro scherzo e burla [4]. Era quanto mai spiritosa e salace; così, ben presto seppe mettersi in evidenza. Era persona affatto ignara di quel che fosse il pudore; mai nessuno la vide tirarsi indietro, anzi, non esitava ad acconsentire alle pratiche più svergognate, e quand'anche fosse presa a pugni e a schiaffi, riusciva a scherzarci sopra, e se la rideva della grossa; si spogliava e mostrava nudo a chicchessia il davanti e il didietro, che devono invece restare nascosti, invisibili agli uomini.

Con i suoi amanti, era maliziosa e finta tonta; snervandoli con sempre nuove tecniche di accoppiamento, riusci va a legarsi per sempre l'affetto di quei dissoluti. Non pensava certo d'essere abbordata da chicchessia, al contrario, ci pensava lei a provocare chiunque capitasse, con i suoi sorrisetti, con i suoi buffi ancheggiamenti: e soprattutto tentava i ragazzini. Mai vi fu persona più succuba a qualsivoglia forma del piacere; spesso giungeva a presentarsi a pranzo con dieci giovanotti, o anche di più, tutti nel pieno delle forze e dediti al mestiere del sesso; trascorreva l'intera notte a letto con tutti i commensali, e quando erano giunti tutti allo stremo, quella passava ai loro servitori, che potevano essere una trentina; s'accoppiava con ciascuno di loro, ma neppure così riusciva a soddisfare la sua lussuria.

Procopio, Storia Segreta, IX
(trad. it. in Procopio, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996).

[1] Le belve venivano allevate per gli spettacoli dell'ippodromo.

[2] In seguito avrebbe sposato Sitta, uno dei più importanti generali dell'impero.

[3] Così erano definite le protistute più squallide.

[4] Il mimo era il principale spettacolo pubblico del tempo.


(B) I consiglieri dell'imperatore discutevano su quale linea di condotta fosse meglio adottare, se rimanere oppure fuggire con le navi, avanzando molte ipotesi a favore dell'una o dell'altra soluzione. L'imperatrice Teodora così parlò: «Ritengo che nella situazione presente sia irrilevante tener conto della sconvenienza che una donna mostri coraggio fra gli uomini e proponga soluzioni ardimentose a chi ha paura, sia che si pensi così sia in altro modo. Per coloro i quali sono giunti a un pericolo estremo, infatti, null'altro pare essere più utile se non risolvere nel modo migliore la situazione in cui si trovano. Personalmente ritengo che la fuga nella situazione presente sia inutile, ammesso e non concesso che talvolta non sia tale, anche se porta alla salvezza. Nessuna persona venuta al mondo può infatti evitare di morire e a chi regna non deve essere consentito di fuggire. Che io non sia mai priva di questa porpora e che non veda mai il giorno in cui coloro nei quali mi imbatterò non mi chiameranno imperatrice! Se tu, o imperatore, vuoi salvarti, non ci sono difficoltà. Abbiamo infatti molte ricchezze, il mare è là e le navi sono pronte. Ma stai attento che non ti capiti, una volta in salvo, di preferire la morte alla salvezza. A me infatti piace un antico detto, secondo il quale la veste regale è un bel sudario».

Procopio, La guerra persiana, I, 24.
(in Procopii Caes., Opera omnia, I, a cura di J. Haury – G. Wirth, Lipsia 1962).

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UpUltimo aggiornamento: 25/04/2005