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Fonti

Istruzione e educazione nel Medioevo

a cura di Carla Frova

© 1973-2005 – Carla Frova


Sezione I – Disposizioni dell'autorità laica

Introduzione

In questa sezione sono raccolte alcune testimonianze, per la maggior parte documenti legislativi, relativi a interventi dell'autorità statale in materia scolastica o più in generale alla situazione della scuola «pubblica» nel periodo compreso tra il costituirsi dei regni romano-barbarici nell’Europa occidentale e l'età comunale.

Un periodo, dobbiamo sottolinearlo proprio ad evitare un troppo disinvolto e altrettanto ingannevole ribaltamento della concezione storiografica di «secoli bui», piuttosto povero di notizie sull’argomento che ci interessa, salvo, come è noto, per quanto riguarda la riforma di Carlomagno. Di fronte ad un tale stato della documentazione, e fatti i debiti conti con le perdite dovute al tempo ed agli avvenimenti, non si può non pensare, in linea generale, a un certo declino delle istituzioni scolastiche statali in questo periodo. Vedremo ora in quale misura questa impressione sia giustificata e per quanta parte sia da correggere.

Il periodo tardo imperiale è caratterizzato da un intervento sempre più ampio dello stato sulle istituzioni scolastiche, e parallelamente dal ridursi dell’ambito di azione, o da una perdita di autonomia dell’insegnamento libero, che pure conserva un suo peso notevole nell’istruzione di grado elementare da un lato, e dall'altro nella formazione di un certo numero di giovani aristocratici. Ma proprio il declino della vecchia aristocrazia urbana e il sostituirsi ad essa, nella direzione dell'impero, delle nuove aristocrazie burocratico-militari, è l’origine della crisi dei vecchi modi di istruzione e dell’affermarsi di una scuola in varia misura controllata dall’autorità centrale o dai municipi.

Questa tendenza continua, nei territori di tradizione culturale romana dopo l’instaurarsi dei regni barbarici. Non si tratta qui di porre il problema della sopravvivenza della cultura antica del V secolo. Certo l’insegnamento retorico-letterario tradizionale non muore, soprattutto là dove la vita delle città è più fiorente: nell’Italia settentrionale e a Roma, nella Gallia meridionale, in Spagna e in Africa non mancano i maestri che aspirano, con maggiore o minor successo, a rinverdire i fasti del passato: ma essi sono portatori di una cultura che ha il suo sbocco nei ristretti circoli letterari; per conoscere gli uomini che si formano alla loro scuola potremmo ad esempio seguire la carriera di qualcuno dei letterati che furono in relazione con Eunodio a Milano, o con i circoli letterati di Fausto o di Simmaco a Roma.

Ci interessa qui vedere se nella vita della scuola del tempo abbia una parte di qualche rilievo l’intervento dei poteri pubblici: che essa possa estendere la sua azione al di là delle élites degli studiosi di professione dipende evidentemente dall’atteggiamento dell’autorità e soprattutto dalla funzione che essa attribuisce alla scuola nella formazione di coloro che sono destinati a svolgere funzioni direttive nella vita politica. Per questo periodo possediamo a tale proposito soltanto testimonianze sparse.

Le più antiche legislazioni dei barbari, documenti preziosi dell’incontro di questi popoli con la tradizione giuridica romana, non recano disposizioni relative alla scuola. È significativo ad esempio che il «Breviario di Alarico», compilazione del codice Teodosiano redatto sotto il re visigoto Alarico II, non consideri neppure gli articoli 3-11 del libro dodicesimo del «Codex», quelli appunto relativi all’insegnamento.

Al contrario, per la politica degli Ostrogoti in Italia, e soprattutto di Teoderico, troviamo notizie interessanti, in apparenza contraddittorie, ma che in parte possono chiarirsi alla luce del discorso generale sulla posizione dei diversi gruppi all’interno del regno. Giustiniano ci attesta che Teoderico aveva riservato particolari privilegi ai maestri di diritto, di grammatica e ai medici; egli cercava così di formare in Italia una classe di persone esperte nelle lettere e nelle leggi, mentre vietava ai Goti, se dobbiamo prestar fede a Procopio, di mandare i figli alle scuole romane, e li incitava ad educarli nelle virtù guerriere. Ancora nel 553 Atalarico si preoccuperà del trattamento dei professori di diritto di Roma.

Intorno alla metà del secolo la crisi della scuola antica, coinvolta nel crollo delle grandi famiglie romane, e il contemporaneo ampliarsi dell’intervento statale in materia di istruzione, ripropongono una tendenza che già avevamo visto delinearsi nel tardo impero. In una situazione di evidente difficoltà ed insufficienza dell’insegnamento libero, Giustiniano ordina la chiusura di tutte le scuole di diritto, escluse quelle di Beirut, Costantinopoli e Roma; ristabilisce più tardi in Italia, con la «Prammatica Sanzione», i privilegi ai professori già previsti da Teoderico. Lo stato bizantino manifesta così la volontà di assumere decisamente il controllo dell’istruzione superiore, cui affida l’importantissimo compito di preparare studiosi e funzionari esperti per le sue complesse necessità amministrative.

Ma sono queste, relative all’Italia bizantina, le ultime testimonianze di scuole pubbliche funzionanti per iniziativa e sotto il controllo statale, e riguardano, come si vede, l’insegnamento superiore. Già dalla fine del secolo V o dall’inizio del VI avevano chiuso i battenti le ultime scuole municipali: per i figli degli aristocratici l’insegnamento elementare si svolge nell’ambito della famiglia, mentre, proprio dalla prima metà del secolo VI, si istituzionalizza e allarga decisamente il suo campo d’azione la scuola ecclesiastica.

Forse proprio a questa data, se si vuol azzardare un tentativo di periodizzazione dovremmo collocare la crisi più profonda dell’educazione antica non solo dal punto di vista delle istituzioni, ma per quanto riguarda i contenuti e i fini stessi dell’istruzione.

Alle corti dei sovrani merovingi e visigoti, e più tardi presso i Longobardi, superata la prima drammatica fase di assestamento, la tradizione culturale romana continua, naturalmente a far sentire la sua presenza, talora in maniera abbastanza sensibile, là dove ha radici più profonde e dove maggiore è l’interesse nei suoi confronti dei nuovi venuti. Ma ormai il problema non è più quello di ricercare le tracce della sopravvivenza della cultura antica, bensì di analizzare i caratteri della cultura nuova, che nasce dall’incontro di quella con le culture barbariche, e con il cristianesimo.

Ora, se limitiamo la nostra indagine alla cultura della scuola, quest’analisi è possibile, in questo periodo, soltanto per la scuola ecclesiastica. I monasteri, le pievi, i vescovadi sono ormai le uniche sedi di scuole propriamente dette, che, fino a Carlomagno, non susciteranno, salvo eccezioni sporadiche, particolare interesse da parte dell’autorità laica. Alle corti i giovani destinati alle funzioni dirigenti ricevono, accanto all’educazione militare, anche una certa educazione letteraria; ancora presso le corti e nei centri amministrativi deve essere assicurata una forma di trasmissione delle conoscenze giuridiche necessario a preparare i funzionari: la loro attività è attestata presso i Franchi, i Visigoti, i Longobardi dalla presenza di documenti legislativi e di atti amministrativi scritti. Ma sembra impossibile parlare per questi casi di vere e proprie scuole, come per lungo tempo è stato fatto a proposito dello studio del diritto nell’Italia Longobarda.

Bisogna pensare piuttosto che giudici e funzionari, compiuta l’istruzione elementare presso le scuole ecclesiastiche, completassero la formazione professionale attraverso la pratica, lo studio personale dei testi, e l’insegnamento da parte dei più anziani.

Possiamo perciò dire che in tutto l’Occidente europeo, dalla seconda metà del secolo VI fin verso la fine delI’VIII, il problema della scuola non è affrontato dall’autorità laica.

Per tutto questo periodo dobbiamo spostare la nostra attenzione sulla scuola ecclesiastica, analizzare il suo faticoso organizzarsi nei decenni più antichi caratterizzati dall’instabilità politica e dalla difficoltà degli scambi culturali; studiarne la fioritura nel secolo VIII, in un clima di relativa tranquillità, presso i monasteri e le cattedrali di Francia, di Germania e d’Italia. Non si può negare che certe forme di cultura laica sopravvivano benché non facili a cogliersi, in questo tempo, ma certo sarà la scuola ecclesiastica a fornire ai sovrani, e soprattutto a Carlomagno, strutture organizzative, contenuti e metodi per la restaurazione delle istituzioni educative che prende il via intorno alla fine del secolo VIII.

Già prima di Carlomagno, in Inghilterra, in Francia, in Germania i sovrani, affrontando il problema dell’unificazione e della riforma religiosa avevano dovuto preoccuparsi della formazione culturale dei chierici e dei monaci: un aspetto forse secondario rispetto a quelli organizzativi e disciplinari, ma indubbiamente ad essi collegato. L’ignoranza della massa degli ecclesiastici, incapaci non solo di leggere i testi dottrinali e liturgici ma spesso di recitare correttamente le più semplici preghiere, rendeva impossibile qualsiasi progetto tendente ad uniformare il culto e la dottrina.

Nel 772, con l’appoggio di Tassilone, duca di Baviera, il concilio di Neuching emana alcune disposizioni relative alla scuola ecclesiastica. Come in Francia Pipino il Breve dimostra un particolare interesse alla formazione culturale degli ecclesiastici; in questo periodo viene redatta la regola di Crodegango, destinata al clero secolare, che, benché non parli di vere e proprie scuole (saranno previste solo da integrazioni successive) dà uno spazio particolarmente rilevante alla lettura.

Questi antecedenti, quantunque di portata ristretta, devono essere tenuti presenti nell’affrontare lo studio della riforma scolastica di Carlomagno. Non affrontiamo naturalmente il problema della cosiddetta «rinascita» e dell’influenza che esercitarono sulla cultura carolingia la cultura irlandese, anglosassone, italiana. Sono temi tuttora molto controversi: qui ci interessa soprattutto la legislazione scolastica.

Il programma di restaurazione scolastica di Carlomagno è contenuto in alcuni capitolari e in lettere encicliche, dirette a tutti i dignitari del regno; questi documenti possono essere confrontati con atti di concili di questo periodo, che naturalmente riportano l’eco delle intenzioni del sovrano. Eco che si ritrova nelle fonti narrative vicine agli ambienti ufficiali quando illustrano, benché con particolari non sempre attendibili, momenti della politica scolastica di Carlo.

Da tutte queste testimonianze emerge la preoccupazione del sovrano e in generale dei dirigenti del regno: la cultura religiosa, anche elementarissima, è in abbandono; i libri liturgici sono pieni di errori di trascrizione che pregiudicano la corretta trasmissione dei dogmi; non si trovano più persone che possano svolgere con un minimo di efficienza le funzioni dei ministri del culto e quindi tutti i compiti con queste connessi.

Simili preoccupazioni si spiegano considerando più in generale il programma di alleanza di Carlomagno con la Chiesa e i fini che questa alleanza si propone. Così anche la restaurazione scolastica poggia, nelle disposizioni del sovrano, sulle strutture organizzative ecclesiastiche: le sedi vescovili, i monasteri, le parrocchie rurali devono diventare centri di istruzione. Il fine, gli strumenti, il contenuto dell’insegnamento, che si propone di trasmettere una cultura religiosa elementare, non variano molto rispetto al periodo precedente. Ma mentre allora esso veniva impartito in pochi centri isolati, ora il programma deve essere generalizzato, con un grandioso sforzo organizzativo. È degno di nota il fatto che Carlomagno ripeta le raccomandazioni ai preti delle parrocchie rurali, sparsi nei villaggi e nei borghi.

La realizzazione del programma durante e dopo Carlomagno dovette incontrare non poche difficoltà, difficoltà che sono di natura specifica (mancanza di persone adatte ad insegnare, di strumenti materiali, ecc.) e di natura più generale, collegate alla crisi dell’Impero carolingio e alle alterne vicende dei rapporti fra il potere laico e quello ecclesiastico.

La scuola ecclesiastica va ormai organizzandosi: elabora i propri programmi, si procura gli strumenti necessari. Ma sembra volersi sottrarre sempre più di frequente agli obblighi che i sovrani vogliono imporle. Ludovico il Pio sarà costretto a ricordare ai vescovi gli impegni che avevano appena preso con lui su questo punto. Incomincia a delinearsi una certa divergenza di interessi. Da parte ecclesiastica essa si manifesta nella tendenza della scuola a chiudersi in se stessa (è dell’817 il divieto di accogliere nelle scuole monastiche coloro che non siano oblati); da parte dell’autorità laica da luogo ad iniziative autonome, tra le quali importantissime sono le disposizioni emanate da Lotario a Corteolona nell’825. Il capitolare istituisce, nei territori italiani soggetti a Lotario, alcuni «distretti scolastici», indicando le sedi in cui debbono convenire gli studenti delle zone diverse. Pavia, capitale del regno, risulta la sede più importante; ad essa fanno capo le principali città della Lombardia e del Piemonte orientale attuali, e inoltre Genova. Soltanto ad Ivrea l’incarico di provvedere alla scuola è demandato al vescovo: per le altre sedi l’iniziativa deve essere assunta dal sovrano. Ecco dunque delinearsi un fatto molto importante: il costituirsi di due tipi di scuola, quella di istituzione regia o imperiale e quella organizzata dalla chiesa.

Sono ancora pochissimi (il problema dell’istruzione dei laici in questo periodo è comunque molto discusso) i laici che frequentano la scuola; i programmi danno sempre larghissimo spazio, accanto ai rudimenti delle discipline liberali, alle scienze religiose, e, soprattutto, i maestri sono sempre ecclesiastici. Ma una certa differenziazione tra la carriera scolastica dell’ecclesiastico e del laico, o quanto meno del monaco e del chierico, incomincia a stabilirsi; è questo il periodo in cui negli stessi monasteri si creano scuole interne per gli oblati e scuole esterne per gli altri studenti.

Dopo il periodo carolingio, nella crisi politico-sociale che sconvolge l’Europa, la legislazione scolastica tace per un lungo periodo. Ottone III è sensibile al prestigio della cultura, ma neppure in questo periodo l’organizzazione delle scuole subisce mutamenti di rilievo.

Sarà il papato, sul finire del secolo XI, a riprendere l'iniziativa. I papi riformatori cercano di ridare prestigio alle scuole stabilite presso le chiese e i vescovadi, di combattere la simonia scolastica, di estendere sempre più l’istruzione ai laici. Nella lotta contro l’Impero potranno portare nuovi strumenti polemici e soprattutto far leva su un laicato colto, cioè su quelle forze nuove della borghesia che proprio contemporaneamente e grazie allo scontro fra le due potenze universali prendono forza e coscienza di sé.

A questo punto l’Impero avverte la necessità di prevedere nel programma di restaurazione dei propri diritti una accorta politica scolastica. Le scuole possono diventare veri centri di potere, e la cultura da esse elaborata ai livelli superiori può fornire armi alla battaglia ideologica che l’Impero deve intraprendere contro i suoi avversari.

Non a caso da Roncaglia, dove rivendica i propri diritti nei confronti delle città comunali con il «Constitutum de regalibus» (1158), Federico Barbarossa emana il suo privilegio scolastico in favore degli studenti che per necessità di studio si spostano da una città a un’altra.

Presto gli organi rappresentativi del comune sentiranno la necessità di provvedere all’istituzione di scuole nelle città; maestri e scolari incominceranno a organizzarsi nelle Università: nella scuola comunale e nell’Università potremo seguire le ulteriori vicende dell’istruzione pubblica medievale.

Nota bibliografica sulle disposizioni dell’autorità laica

Gli studi sono ovviamente concentrati sui periodi di maggiore vitalità dell'istruzione pubblica: i primi secoli del Medioevo, in cui si studia la sopravvivenza della scuola classica, e l’età carolingia.

Sul primo punto:
M. I. MARROU, Saint Augustin et la fin de la culture antique, E. de Boccard, Paris 19492
M. I. MARROU, Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris 19656, trad. it. Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 19662.

Sulla scuola nell’età carolingia si vedano vari contributi nel volume miscellaneo I problemi della civiltà carolingia, Atti della 3a settimana di studi altomedievali, Spoleto 1954.

Particolarmente sensibili al problema dell’istruzione pubblica:
W. GIESEBSECHT, De litterarum studiis apud Italos primis medii aevi seculis, Berlino1845, ed. it. L’istruzione in Italia nei secoli del Medio Evo, Sansoni, Firenze 1895. G. SALVIOLI, L’istruzione pubblica in Italia nei secoli VIII-X, Sansoni, Firenze 1898. G. MENGOZZI, Ricerche sull’attività della scuola in Pavia nell’alto Medioevo, Pavia 1924. G. MANACORDA, Storia della scuola in Italia, 2 voll., Sandron, Milano 1913. P. RIGHÈ, La survivance des écoles publiques en gaule au Ve siècle, «Le Moyen Age», LXIII (1957), pagg. 421-436.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05