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Fonti

Istruzione e educazione nel Medioevo

a cura di Carla Frova

© 1973-2005 – Carla Frova


Sezione IV - Pedagogia e vita scolastica

Introduzione

I metodi e gli ideali che caratterizzano l'educazione che si impartisce nella scuola, già estremamente vari benché vi si possano individuare alcuni motivi ricorrenti, non sono a loro volta che uno dei molti modi di educazione coesistenti nel Medioevo. Si tratta, più che di una diversità di sistemi pedagogici, di una varietà di soluzioni pratiche, che nascono ovviamente da un dato di fatto: la grande varietà di livelli sociali, di condizioni economiche, di tradizioni culturali.

Ogni ambiente ha il suo sistema educativo, tanto più peculiare e meno aperto agli scambi con l'esterno, quanto più il ragazzo vi compie la sua crescita senza bisogno di speciali strutture, ma nella famiglia, nell'ambiente sociale. Ci sarà così un sistema di educazione proprio dei giovani germani, che si addestrano all'uso delle armi e agli esercizi fisici mentre i loro coetanei usciti dalle aristocrazie latine ancora studiano nella scuola di tradizione classica; e un altro proprio dei giovani monaci; e un altro per i figli dei sovrani, che sarà conservato in quelle raccolte di massime morali che sono gli «specchi dei principi»; e un altro per l'alunno della scuola cittadina, e per il garzone della bottega artigiana.

Altri tipi di educazione, quelli di grandi masse di illetterati, hanno lasciato ben poca traccia, e solo possiamo immaginare che siano stati in qualche modo influenzati, determinandone a loro volta alcune caratteristiche, da quei potenti strumenti di formazione della mentalità medievale che sono l'arte figurativa, la predicazione, le tradizioni non scritte.

II pensiero pedagogico medievale, d'altra parte, considera la disparità di condizione oggettiva delle persone da educare come il primo e più importante dato di fatto cui l'educatore deve adattarsi. La distinzione tra laico ed ecclesiastico, ragazzo destinato alla vita nel secolo oppure alla vita nella chiesa o nel monastero, precede e supera tutte le altre, analizzate spesso con una casistica minuziosa. Dice Gregorio Magno nella Regula Pastoralis destinata ai vescovi, un testo fondamentale per gli educatori medievali:
«Bisogna istruire in un modo gli uomini ed in un altro le donne, in un modo i giovani ed in un altro i vecchi; in un modo i poveri ed in un altro i ricchi; in un modo quelli che sono allegri ed in un altro quelli che sono tristi; in un modo i sottoposti ed in un altro i superiori; in un modo i servi ed in un altro gli ignoranti… » [1], e il lungo elenco prosegue. Un atteggiamento che rivela, oltre ad un senso profondo delle distinzioni sociali, una duttilità di fronte ai dati di fatto che è tipica, come vedremo, di molti educatori medievali.

Ma limitiamoci a qualche accenno agli ideali e ai metodi pedagogici che interessano più da vicino la scuola.

Gli educatori medievali guardano con interesse e con curiosità al ragazzo. Molti autori amano parlare di se stessi fanciulli, analizzando i propri comportamenti e pensieri, le proprie reazioni di fronte al mondo esterno. I biografi non tralasciano di descrivere la fanciullezza del loro protagonista (è d'altronde un luogo comune di questo genere letterario fin dall'antichità).

Ma tutto questo raramente conduce a una riflessione sulla psicologia del fanciullo come individuo autonomo, dotato di una propria caratteristica personalità. Egli è visto sempre in relazione ad un modello, che è costituito dall'uomo adulto; si ammira il bambino che sembra già un grande, il cui comportamento si distingue da quello abituale dei suoi coetanei. In questo la pedagogia medievale non è molto lontana da quella classica.

La miglior virtù che il ragazzo possa portare all'educatore è dunque una disponibilità completa, perché egli possa riprodurre in lui con fedeltà il modello di uomo ideale, un modello già determinato a seconda della condizione cui il discepolo sarà chiamato da adulto. Ritorna moltissime volte negli scritti dei maestri medievali il paragone con la cera, che deve essere molle al punto giusto per poter essere plasmata con buoni risultati.

Ma la tradizione cristiana introduce nel modo di considerare la personalità del ragazzo motivi nuovi, e sostanzialmente da luogo a due visioni contrapposte, che influiscono anche variamente sulla prassi educativa. Da un lato è il fanciullo segnato dal peccato originale, incline al male per natura, incostante nei propositi, facile preda dei vizi: quello che sant'Agostino ha descritto così bene in famose pagine delle Confessioni. Dall'altro è il bambino che Gesù ha indicato a modello quando ha detto: «Se non vi farete come uno di questi piccoli, non entrerete nel Regno dei Cieli»: incapace del male, simbolo dell'innocenza e della purezza.

Con questi presupposti teorici il maestro medievale può porsi di fronte al suo discepolo disponibile alla severità o alla dolcezza. Tipica di questa duttilità e di questa apertura ad esigenze diverse è il programma di educazione monastica contenuto nella regola di san Benedetto.

Nel monastero, l'abbiamo visto più volte, entrano anche fanciulli («nutrire» è il termine usato dai biografi come equivalente di «educare» i futuri monaci), appartenenti a tutte le classi della società feudale. Essi devono essere seguiti da un monaco esperto che, come l'abate, sappia alternare con avvedutezza la durezza e l'affetto, poiché ai fanciulli e ai vecchi si deve usare un rispetto particolare in ragione dell'età.

Le punizioni corporali, d'altra parte, furono in uso in tutti i tipi di scuole, e ogni maestro, non esclusi i pedagoghi privati, che anzi sembrano spesso i più inclini ad abusarne, le considerarono un mezzo indispensabile di correzione e di incitamento. Ma la polemica contro i maestri troppo severi ritorna spesso negli scritti degli autori medievali, e non soltanto di quelli che ne sono stati vittime da ragazzi. Molti educatori proclamano di rifiutare la brutalità nei mezzi di correzione proprio perché inefficace ai fini educativi.

È importante qui sottolineare una caratteristica della scuola medievale: nella gerarchia dei valori essa attribuisce la preminenza a quelli che sono oggetto dell'educazione morale e religiosa, che anche quantitativamente occupano un posto sempre rilevante nei programmi. Questa impostazione si manifesta a diversi livelli.

Nella satira di costume, ad esempio, essa traspare dalla critica rivolta allo studioso ricco soltanto di un sapere tecnico, tutto tronfio della sua cultura arida e vuota. La si legge, negli scritti autobiografici, nel rifiuto (anche questo un luogo comune ricorrente) di esperienze giovanili di studio che non hanno portato ad un arricchimento interiore, ma soltanto all'acquisizione di un sapere che non serve a niente e a nessuno. Nei maestri più consapevoli essa si rivela nello sforzo di dare ad ogni oggetto di studio una giustificazione intima in un sistema coerente di educazione, che è anzitutto disciplina morale.

Anche il maestro deve essere, prima che un dispensatore di scienza, un modello di moralità: gli si ricordano spesso le virtù di cui deve dar prova, se non vuole essere di cattivo esempio agli allievi.

Non vogliamo certamente analizzare qui il comportamento di questa moralità, ma soltanto registrare una impostazione educativa. E se seguiamo la storia della scuola medievale da questo punto di vista, osserviamo un'evoluzione significativa.

L'allegoria dei vizi e delle virtù che, descritta da tante opere letterarie e offerta dai mille esempi dell'arte figurativa alla meditazione anche degli illetterati, compendia l'insegnamento morale del Medioevo, non cambia nelle grandi linee; ma un'evoluzione si produce nella mentalità e nei sistemi educativi. Ai tempi delle prime scuole ecclesiastiche, come le strutture, così anche i programmi educativi erano soprattutto destinati alla formazione dei monaci e dei chierici. Per loro si esplicava in tutta la sua ampiezza lo sforzo pedagogico della scuola. Agli altri non si proponeva un programma morale specifico, il raggiungimento di virtù proprie del loro stato: le mete educative erano sempre le stesse, ma naturalmente ridotte, perché nessun laico avrebbe potuto aspirare a raggiungere la perfezione dello stato ecclesiastico.

Ma quando incominciano a individuarsi le prime forme di una cultura laica, sempre più autonoma da quella ecclesiastica, si sviluppano anche nuovi ideali pedagogici.

Alcuni di questi trovano il terreno in cui svilupparsi nella scuola: la scuola cittadina, che pur perpetuando un insegnamento in gran parte tradizionale, lo finalizza a nuovi bisogni, a un modello nuovo di comportamento sociale (basta leggere le regole di comportamento che i maestri debbono far osservare ai loro scolari, virtù tutte pratiche e «civiche») ; oppure l'Università, che crea insieme un tipo nuovo di intellettuale e di studente, attraverso il rinnovamento non solo dei contenuti e dei metodi, ma della stessa organizzazione interna.

Altri ideali pedagogici invece rimarranno un po' ai margini della vita della scuola proprio perché si sviluppano in una cultura che, per sua natura, per l'ambiente cui è legata, si trasmette per altre vie che non sono quelle dell’insegnamento scolastico: sono gli ideali dell'educazione cavalleresca.

Nota bibliografica su pedagogia e vita scolastica

Notizie sulla pedagogia scolastica si trovano in numerosi manuali sulla scuola medievale, in particolare:
P. RICHÉ, Éducation et culture dans l'Occident Barbare, 6e-8e siècle, Éd. du Seuil, Parigi 1962, trad. it.: Educazione e cultura nell'Occidente barbarico, Armando, Roma 1965; G. MANACORDA, Storia della scuola in Italia, 2 voll., Sandron, Milano 1913.


In particolare:
B. NARDI, Il pensiero pedagogico nel Medioevo, Sansoni, Firenze 1957; E. GARIN, L'educazione in Europa, 1400-1600; problemi e programmi, Laterza, Bari 19662.


Importante per l'influenza sul pensiero pedagogico medievale:
AUGUSTINUS AURELIUS, De magistro, introduzione, traduzione e note di F. V. Lombardi, Radar, Padova 1968.

[1] Traduzione da P. Riché, Dall'educazione antica all'educazione cavalleresca, Mursia, Milano 1970.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05