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Fonti

Istruzione e educazione nel Medioevo

a cura di Carla Frova

© 1973-2005 – Carla Frova


Sezione VI – La scuola nelle città comunali italiane

Introduzione

La città, dove nell'alto medioevo si era sviluppata la scuola vescovile, diventa, nei secoli XIII, XIV e XV, con l'organizzarsi del Comune, la sede di istituzioni scolastiche nuove: l'università da un lato, e dall'altro la scuola dei maestri liberi o stipendiati dalle finanze comunali.

La scuola nella città sorge in risposta alle esigenze che vengono poste dal nuovo modo di organizzazione politica e dall'autorità economica che caratterizza il Comune. A mano a mano che le funzioni del Comune come organismo politico e amministrativo si fanno più complesse, si rende necessario che a esse siano preposti uomini forniti di una certa cultura.

E nel frattempo una richiesta di maggiore istruzione viene anche dal privato cittadino, che allarga il volume dei suoi traffici e si impegna in attività produttive più complicate, sviluppa nuovi interessi e nuove curiosità.

È chiaro che la cultura che risponde a queste esigenze non può essere che una cultura prevalentemente giuridica, amministrativa, pratica.

Con il rifiorire della vita cittadina incominciano a fare la loro comparsa nelle città maestri liberi, che tengono in casa loro scuola di grammatica ricevendo un compenso dalla famiglia degli alunni.

Talvolta l'organizzazione di una scuola privata può addirittura rappresentare per un cittadino un vantaggioso impiego di denaro: come sembra sia il caso di Giovanni di Filippo Nasi di Portovenere, che nel 1260 si impegna a pagare un maestro perché faccia funzionare una scuola in questa città.

Ma presto si comincia ad osservare, con maggiore o minore evidenza nelle diverse città, dapprima un interesse da parte degli organismi direttivi del Comune nei confronti della scuola, poi una volontà di controllo o addirittura di monopolio.

I motivi di questa evoluzione sono vari. Anzitutto il Comune ha necessità, per il suo stesso funzionamento, della presenza in città di esperti di questioni giuridiche e notarili, così come abbisogna, per altri motivi, di medici. Non solo di coloro che praticano queste arti, ma dei maestri che le insegnano e degli scolari che le apprendono si occupano numerosi statuti comunali, i quali provvedono a garantire loro privilegi di natura fiscale ed esenzione dagli obblighi personali più gravosi.

Ma con il tempo il Comune assumerà addirittura in proprio la gestione delle scuole di grammatica. Evidentemente i gruppi dirigenti della città avvertono l'importanza di poter esercitare un controllo completo sulle istituzioni scolastiche. È da un lato una questione di potere, dall'altro un fatto di natura economica, poiché la presenza di una scuola, spe­cialmente là dove è consentito ai maestri tenere allievi forestieri, significa per la città e i suoi abitanti un bel movimento di denaro.

Questa presa di possesso della scuola da parte del Comune, che trasforma i maestri da liberi professionisti in pubblici funzionari, avviene per gradi. La volontà stessa dei maestri, specialmente nei piccoli comuni, contribuisce ad accelerare il processo. Qui spesso lo scarso numero degli alunni e la loro insufficiente disponibilità economica rende dura la vita del maestro, la cui condizione diventa addirittura drammatica quando, come di frequente nel XIV secolo, le pestilenze gli decimavano o riducevano in miseria la già sparuta scolaresca. Egli era quindi altrettanto desideroso di stabilizzare la propria posizione mettendosi in qualche modo alle dipendenze del Comune, quanto questo di impedirne la fuga dalla città verso altre sedi più vantaggiose.

Nella fase in cui la scuola si trasforma da privata in pubblica (e spesso in alcuni luoghi il processo non si compie mai del tutto) si hanno le più diverse soluzioni. Il maestro può ricevere parte dello stipendio dal Comune, parte dagli scolari: il Comune stesso provvede a garantire al maestro che questi non si sottraggano ai loro obblighi. A certi maestri il Comune assicura il monopolio dell'istruzione, vietando che altri tengano scuola nella città e impedendo contemporaneamente ai cittadini, di frequentare le scuole altrove. Per contro cerca di favorire l'afflusso di scolari forestieri, garantendo loro privilegi di varia natura, così che il maestro possa arrotondare il proprio bilancio. Il maestro stesso è esentato da prestazioni varie, da tasse e oneri personali cui sono sottoposti gli altri cittadini; riceve talvolta la casa dove abita e fa scuola, o il denaro necessario per pagare l'affitto, oppure il mobilio e altri beni in natura. Infine il maestro può essere stipendiato completamente dal Comune, il quale naturalmente, addossandosi tutto l'onere dell'istruzione, può decidere la sua politica scolastica come ritiene più opportuno. Sono da sottolineare alcuni casi in cui l'istruzione ai livelli inferiori è completamente gratuita.

La vita del maestro non è tuttavia sempre facile. Le paghe nei piccoli Comuni non sono elevate. Gli scolari spesso non pagano o pagano in ritardo, incominciano l'anno e lo lasciano a metà, con grave danno per il maestro dato che la retta si paga a rate. La concorrenza è forte, e talvolta, quando il maestro cerca di far valere i propri diritti di fronte al comune che tarda a pagare, questi lo priva dell'incarico e si rivolge altrove. Spesso agli amministratori non è difficile trovare un appiglio per risolvere il contratto: il maestro, per esempio, cerca di fare economie non mantenendo, come si è impegnato a fare, il ripetitore.

Comunque le ferme sono brevi; di un anno o due, e allo scadere il maestro può essere costretto a cercarsi lavoro in un'altra città.

Le lezioni si svolgono presso la casa del maestro, che tiene anche a pensione gli scolari forestieri. In questo la scuola comunale ricorda quella del «grammaticus» dell'antichità, che radunava i discepoli nella sua abitazione. Gli scolari sono divisi in classi: nei documenti che riportiamo queste sono sei. Nella prima gli scolari «de carta», o «de tabula», imparano a leggere, nella seconda, i cui alunni sono detti «de quaterno», oppure «de septem psalmis et vesperaliis», si impara a leggere, e, pur senza affrontare lo studio del latino, si studiano a memoria i sette salmi penitenziali e l'ufficio di vespro. I ragazzi di queste due classi, detti comprensivamente «pueri» o «parvi scolares» sono spesso affidati alle cure del ripetitore, mentre il «rector scolarum» si occupa degli alunni più grandi. I «Donatisti», allievi della terza classe, studiano i rudimenti della grammatica latina e imparano a memoria i Disticha Catonis; talvolta studiano altri testi grammaticali e un'opera importante nella cultura del Comune: l'Ars notariae di Rolandino. In seguito gli alunni sono avviati allo studio della composizione latina: si distinguono i «minores», i «mediocres» e i «maiores», i quali ultimi imparano anche l'aritmetica e la geometria.

Questo programma non varia molto nelle diverse scuole comunali. I successivi livelli di apprendimento possono essere definiti in modo alquanto diverso, ma i metodi e gli argomenti di studio sono più o meno gli stessi. Caratteristica, come si vede, è l'importanza che si dà allo studio a memoria dei testi e alla ripetizione orale: per un anno gli alunni si esercitano a leggere prima di imparare a scrivere e studiano a memoria brani in latino prima di poterne comprendere con esattezza il significato. Altra caratteristica, che riguarda l'organizzazione della scuola, ai livelli elementari e medi, è la mancanza di una struttura burocratica come quella che si è venuta creando per la scuola moderna.

Il fatto che si sia parlato di «classi» non deve trarre in inganno. Gli scolari passano da un argomento all'altro di studio a seconda che il maestro lo giudichi opportuno, quando dimostrano di aver assimilato a sufficienza la materia, senza esami previsti ufficialmente o altre formalità. Il maestro dispone senz'altro di strumenti di giudizio e di coercizione nei confronti dei suoi alunni, ma il loro uso è concepito come un mezzo educativo, non come l'adempimento a una funzione burocratica. D'altra parte bisogna pensare che gli alunni stanno riuniti tutti insieme in un unico ambiente (o al massimo si separano i «latinantes» dai «non latinantes»): questa circostanza attenua la distinzione tra le diverse classi, anche perché, dopo che il maestro ha spiegato, gli alunni si esercitano a ripetere aiutandosi vicendevolmente, e i più esperti danno una mano a quelli delle classi inferiori. Questo, del mutuo insegnamento, è un tratto caratteristico della scuola medioevale: un metodo grazie al quale il maestro può seguire scolaresche anche molto numerose. Inoltre, è quasi sempre obbligato a tenere un ripetitore, che, come abbiamo visto, segue in particolare gli alunni delle prime classi.

I documenti di cui disponiamo sulla scuola comunale sono abbastanza ricchi di notazioni di costume sulla vita e il carattere degli scolari. Sembra, a leggere queste fonti, che l'indisciplina e l'intemperanza di questi ragazzi imitino quelle ben note dei loro colleghi universitari. Bonvesin de la Riva ci dà in alcune pagine del suo poemetto Vita scolastica, un piccolo «galateo» dello scolaro dal quale risulta in negativo un ritratto vivacissimo di ragazzo riottoso, maleducato, privo di rispetto per l'autorità e ricco di tutte le peggiori abitudini. Ritratto che concorda con quanto i documenti comunali ci dicono dei difetti degli studenti: dicono parolacce, non ascoltano i consigli dei maestri e genitori, si ubriacano, si mescolano a tutte le risse e disturbano l'ordine pubblico, frequentano cattive compagnie, e arrivano persino a insultare e percuotere il maestro. E superano ogni limite nel periodo del carnevale, quando se ne vanno in giro mascherati, facendo impunemente scherzi d'ogni genere. Sono testimonianze curiose e divertenti, che però, specie quando provengono da testi letterari, vanno lette con un certo spirito critico, tenendo presente che la descrizione dello scolaro turbolento e scostumato diventa spesso un luogo comune.

In una situazione come questa il maestro deve avere polso fermo, non risparmiare le punizioni, senza esclusione naturalmente di quelle corporali e anche, come ci dice ancora Bonvesin de la Riva, dare egli stesso l'esempio di una moralità ineccepibile. È noto che spesso i maestri erano accomunati ai loro alunni dalle cattive abitudini.

Ci siamo soffermati piuttosto a lungo sui programmi e sui metodi della scuola che fiorisce nelle città comunali perché ci sembra importante far rilevare un fatto. Gli argomenti di studio non differiscono molto, se si esclude una certa maggiore insistenza su quelle che possono avere un fine pratico, come i rudimenti dell'arte notarile o il calcolo, da quelli della scuola precomunale ai livelli elementare e medio. I testi sono in gran parte ereditati dalla tradizione scolastica precedente. I metodi sono più o meno sempre gli stessi: lettura, commento del maestro, studio a memoria, ripetizione. Ma la scuola comunale ha, rispetto alle esperienze che la hanno preceduta e delle quali è in tanta parte debitrice, alcuni elementi di diversità sostanziali. Diversità, poiché, come abbiamo accennato all'inizio, nuove sono le esigenze dalle quali essa nasce, diversa è la funzione che si assegna alla scuola nella vita della comunità cittadina. Diversa quindi, dal punto di vista delle istituzioni, la sua posizione giuridica e di conseguenza i valori educativi che essa è incaricata di trasmettere.

Il maestro è un funzionario del Comune; anche quando è un maestro libero il valore sociale della sua opera, all'interno di una comunità strutturata come quella cittadina, è messo in particolare evidenza e definito nei suoi limiti e nei suoi scopi dai rapporti che lo legano alle forze che determinano la politica della città.

È inutile, da questo punto di vista, leggere i principi educativi che debbono ispirare l'azione del maestro. Gli amministratori della città gli raccomandano sempre di curare quella che oggi chiameremmo «educazione civica». Egli deve insegnare agli scolari ad avere un comportamento corretto in ogni circostanza, a tenersi in ordine, puliti e pettinati, a rispettare i genitori. Deve partecipare con loro ai momenti più significativi della vita associata: le feste, le processioni, le funzioni religiose, e da lui i ragazzi devono apprendere a intervenirvi come si conviene alle circostanze. Sono obblighi che ne possono far supporre anche altri.

È un luogo comune che l'insegnamento, cioè il processo con cui si trasmettono abitudini e conoscenze, è profondamente integrato nella vita politica ed economica della società in cui si sviluppa. Ma ciò è tanto più vero quanto più questo processo è strutturato, definito nei suoi scopi e nei suoi strumenti. Ora la scuola comunale costituisce, nella storia dell'insegnamento medievale, una forma già notevolmente organizzata. In questo quadro anche il contenuto dell'insegnamento, in gran parte tradizionale, può assumere un altro valore e finalità in parte diverse. Certo, per comprendere davvero che cosa significhi la scuola nella società comunale, bisognerebbe poter rispondere in maniera soddisfacente a questo interrogativo: chi e quanti erano i maestri, e soprattutto gli scolari?

La risposta è pressoché impossibile. Ci sono degli indizi indiretti, ma essi assumono un qualche valore soltanto quando siano raccolti in maniera sistematica, da tutte le fonti disponibili (v. a questo proposito la nota conclusiva) e comunque non sono mai sufficienti a fornire dati per un discorso di una certa ampiezza.

Dei maestri possiamo dire che talora erano laici, talora anche chierici o religiosi; che talvolta erano abilitati all'insegnamento da qualche studio, tal'altra erano sprovvisti di titolo ufficiale; possiamo in alcuni casi seguire i loro spostamenti da una città all'altra. Per quanto riguarda gli alunni abbiamo qualche dato numerico isolato; potremmo ricavare, dai documenti pubblici e privati, notizie sull'alfabetizzazione. Studiando i diversi modi di finanziamento della scuola possiamo trarre qualche conclusione sulla loro situazione economica. Una cosa si può dire: la scuola comunale non è certamente una scuola per tutti, ma dal punto di vista della diffusione dell'istruzione rappresenta indubbiamente un progresso. Le scuole si moltiplicano, è più facile frequentarle, accolgono ragazzi di classi sociali nuove. Abbiamo già fatto rilevare come alcuni comuni stabiliscano esplicitamente che la scuola a livello elementare sia gratuita.

C'è un altro luogo, nella città, che, pur non potendosi definire propriamente come scuola, costituisce tuttavia un centro importantissimo di trasmissione di conoscenze: la bottega artigiana. Essa trasmette conoscenze tecniche, non letteraria, ma abbiamo ritenuto egualmente indispensabile considerarla, perché interessa un numero notevolissimo dei ragazzi e dei giovani che vivono nella città.

Legato al maestro d'arte da un contratto di lavoro, che lo impegna a prestare la sua opera nella bottega e spesso anche in casa in cambio per lo più del solo mantenimento, l'apprendista riceve da questi la promessa che lo istruirà nella sua arte fornendolo anche degli strumenti necessari.

L'apprendista entrava a bottega da piccolo con un contratto che poteva durare anche molti anni, così che egli trascorreva alle dipendenze del maestro tutta l'infanzia e l'adolescenza. In questi casi i contratti erano stipulati dai genitori o dai tutori, mentre si danno casi di apprendisti già più adulti, che stipulano il contratto in prima persona.

Nota bibliografica sulla scuola nelle città comunali italiane

Ci sono molti contributi parziali sulle singole scuole: la bibliografia più antica si può trovare in:
G. MANACORDA, Storia della scuola in Italia, 2 voll., Sandron, Milano 1913.


Per alcune regioni:
M. LEONCINI, Maestri di scuola a Genova sulla fine del secolo XIV, in «Miscellanea di storia ligure in memoria di G. Falco», Genova 1966; C. BEC, Les marchands écrivains, affaires et humanisme à Florence, 1375-1434, Mouton, Parigi-L'Aia 1967.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05