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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


DOCUMENTAZIONE

2. La guerra santa
3. La guerra legale

Diamo qui di seguito la definizione di gihād come obbligo religioso quale si ha nell'opera del giurista hanbalita Ibn Qudàma (m. 1223) (cfr. Laoust, Le précis de droit de Ibn Qudāma, Beyrouth, 1950, Libro XX, pp. 271-274), che delucida l'aspetto legale della questione.


La guerra legale è un dovere sociale assoluto: quando un gruppo di musulmani lo adempie in modo soddisfacente, gli altri ne sono dispensati. Il gihād diventa un dovere personale per tutti i musulmani che si trovano in prima linea, o in un paese invaso dal nemico. Non è obbligatorio che per gli uomini liberi, puberi, dotati di ragione e capaci di combattere.

Il gihād è la migliore azione supererogatoria. Abū Hurayra [tradizionalista morto nel 676-678] tramanda che il Profeta, alla richiesta «qual è la migliore delle opere?» rispondesse: «la fede in Dio e nel suo Profeta, e poi, la guerra per la causa di Dio, poi ancora un pio pellegrinaggio».

Anche Abū Sa‘id [trad. morto nel 74 eg] riporta che il Profeta abbia detto che il migliore degli uomini è colui che combatte per la causa di Dio, della sua persona e dei suoi beni.

…Nessuno può intraprendere il gihād senza l'autorizzazione del padre e della madre, se sono vivi e musulmani, a meno che il gihād non sia un dovere personale in senso stretto. Le donne anziane sono solo tenute a entrare in zona di guerra per assicurare il vettovagliamento d'acqua e per curare i feriti…

Non si deve far appello ai servizi di un infedele se non in caso di assoluto bisogno.

È interdetto aprire le ostilità senza l'autorizzazione del comandante in capo, se non per rispondere a un attacco di sorpresa o per cogliere un'occasione favorevole. Una volta sul campo, nessuno ha il diritto di allontanarsi dall'esercito se non con l'autorizzazione del comandante per raccogliere foraggio, tagliar legna o qualche altra ragione del genere.

Chi, in zona di guerra, si impadronisca di un bene di un certo valore, non ha il diritto di conservarlo per sé, a meno che non si tratti di cibo o foraggio a lui necessari. Deve, se vende alcunché, farne confluire il prezzo nella massa del bottino. E una volta di ritorno al suo paese, deve restituire le cose che provengono dalla razzia e che tiene con sé, a meno che non siano di valore, nel qual caso è autorizzato a consumarle o regalarle.

…È interdetto uccidere bambini, pazzi, donne, preti, vecchi inabili, infermi, ciechi e deboli di spirito, a meno che non abbiano preso parte alla battaglia. Il capo di stato decide della sorte degli uomini fatti prigionieri: può metterli a morte, ridurli in schiavitù, liberarli dietro riscatto o far loro dono della libertà. Deve scegliere la soluzione più conforme al bene comune dei musulmani…

Non si devono separare le donne e gli impuberi fatti prigionieri quando essi sono uniti da un legame di parentela del grado che, nell'Islm, costituirebbe impedimento al matrimonio.

… I beni tolti al nemico e già appartenenti a musulmani devono essere resi ai loro proprietari, se questi erano noti prima della spartizione del bottino; e se tale spartizione è avvenuta prima che i proprietari fossero conosciuti, questi ultimi hanno il diritto di togliere i loro beni ai combattenti a cui sono stati devoluti, al prezzo per cui sono stati stimati. Gli ex-proprietari hanno anche il diritto di riacquistarli, quando siano stati già ceduti a terzi, allo stesso prezzo pagato, e, se sono stati ceduti gratuitamente, possono pretenderne la restituzione.

Ogni prigioniero riscattato deve l'ammontare del suo riscatto a chi l'ha pagato.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07