Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright

Didattica > Strumenti > Tolleranza e guerra santa nell'Islam > Documentazione 2, 7

Strumenti

Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


DOCUMENTAZIONE

2. La guerra santa
7. L'internazionalismo islamico

Affidiamo di nuovo a un testo il compito di spiegare e definire i termini sui quali abbiamo impostato la nostra analisi. Il brano che segue è tratto dalla First Conference of the Academy of Islamic Research, al-Azhar, Cairo, 1964, pp. 206-210. Siamo in piena epoca «nasseriana» (e avanti il 1967) e tale testo è l'espressione dell'universalità religiosa per eccellenza del mondo islamico. Una trattazione di questo genere non può avere altro scopo che quello di fornire elementi per un incontro tra la teoria dello stato nasseriano e la teoria religiosa islamica, nella prospettiva di un cammino comune. In questo senso i principi enucleati per spiegare il gihād e per sostenere lo spirito «internazionalista» dell'Islam sono sia analisi storica volta al passato, sia programma politico proposto per il presente.


Parlando di necessità di combattere, Ibn Taymiyya [giurista siriano morto nel 1328] si domanda se questa viene determinata dall'aggressione degli infedeli a danno dell'Islam e dal conseguente desiderio di respingerla, o dall'infedeltà stessa degli infedeli. Egli ammette la diversità di opinioni sull'argomento, e accanto alla scuola più seguita, tutta nel primo senso, menziona un'altra scuola che si rifa all'autorità di Shāfi’ī e che propende per la seconda motivazione, in modo da garantire il consolidamento della «novella» islamica, secondo la parola di Dio per cui è missione di ogni musulmano chiamare all'Islam.

Ibn Taymiyya si esprime a favore del primo punto di vista, accettato dalla maggioranza e confermato dal Corano e dall'esempio offerto dal Profeta e dai suoi Compagni. «Combattete sulla via di Dio contro chi vi combatte, ma non iniziate per primi le ostilità», dice il Corano. E ancora: «Combattete finché non ci sia più persecuzione, e il culto sia reso a Dio. Ma se desistono, che non ci sia più ostilità se non contro i malfattori… Se volete punire, punite nella misura in cui siete stati offesi. Ma se sopportate, in verità è meglio per chi è paziente»…

Passando in rassegna le tradizioni che risalgono al Profeta, si vede che questi fece guerra in due casi soltanto:

1) attacco contro i musulmani, o aspettativa di un attacco, per sicura notizia di preparativi fatti in previsione di assalire la comunità islamica. Perché il Profeta, nella sua saggezza, non poteva attendere che il suo popolo venisse attaccato; 2) il caso in cui i sovrani, come quelli bizantini, costituissero un ostacolo tra lui e la sua missione, e quindi perseguitassero i musulmani per costringerli ad abbandonare la loro fede.

Noi non abbiamo dubbi nel sostenere la posizione di Ibn Taymiyya, ma ci si pone il problema di chi, leggendo i capitoli dedicati alla guerra e alle spedizioni militari nei trattati di diritto, dovesse giungere alla conclusione che i giuristi sono inclini a considerare lo stato di guerra, e non quello di pace, come base delle relazioni tra i popoli. Ora, come potrebbe un'autorità quale Ibn Taymiyya avere citato in modo erroneo i dati elaborati dai giuristi, e come questi potrebbero aver mal interpretato il Corano e la tradizione profetica? Tanto più che proprio i giuristi parlano di «territorio di guerra» (dār al-harb) e che tale definizione non può che passare attraverso un'altra definizione, quella cioè di aggressore e di aggredito, perché, nel caso in cui tale distinzione non fosse possibile, significherebbe che si è addivenuti a una convenzione e che il territorio in questione è diventato «territorio d'accordo». D'altra parte, non bisogna trascurare il fatto che i giuristi hanno formulato le loro definizioni al tempo in cui la libera ricerca giuridica deduttiva era ancora possibile…

Insomma, i musulmani hanno sempre offerto tre alternative ai loro vicini: 1) un trattato che li garantisse dall'aggressione; 2) la conversione; 3) la guerra. Se i vicini non si convertono, e non accettano un accordo che garantisca i musulmani dall'aggressione e permetta loro di continuare la loro missione, ne deriva che essi sono oggettivamente in uno stato intenzionalmente aggressivo, per cui non è possibile alla comunità dei credenti di attendere che l'aggressione si compia.

Un grande combattente musulmano quale ‘Alī ibn abī Tālib ha detto: «Nessun popolo che accetti l'invasione della propria terra trova scampo dall'umiliazione». Si potrebbe arguire proprio dalle definizioni dei giuristi che le relazioni dei musulmani con gli altri popoli siano relazioni di guerra fino a quando non sia conclusa la pace. Si può anche credere che le relazioni internazionali dell'Islam siano rette da dati fattuali piuttosto che da nobili ideali religiosi, e siano quindi simili alle attuali relazioni, che giustificano oggi gli uomini di governo nelle loro aggressioni. In risposta vogliamo dire che i giuristi hanno adottato i dati fattuali come denominazione di causa, invece di usare la legge islamica come denominazione assoluta, senza per questo abbandonare i principi ideali dell'Islam, quali la difesa dei valori, delle libertà e della giustizia. D'altro canto i giuristi, nel loro momento storico, non potevano chiamare i fatti con nome diverso da quello che avevano, cioè era un dato di fatto che la guerra fosse in espansione e che il territorio degli aggressori fosse territorio di guerra, in mancanza di una convenzione o di un trattato di pace.

La scelta di una denominazione piuttosto che di un'altra non impedisce però che le relazioni tra i musulmani e gli altri siano basate sulla giustizia, la libertà e la virtù; e in questo senso i dotti e gli esperti non hanno mai parlato di uno stato islamico in cui la sovranità potesse essere garantita dalla conquista, piuttosto che basata sulla virtù, sulla giustizia e sul timor di Dio. E non vi sono stati nell'Islam padrone e schiavo, o vincitore e vinto, ma solo giustizia ed equità.

© 2000
Reti Medievali
Ultimo aggiornamento: 14/02/07