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Didattica > Strumenti > Tolleranza e guerra santa nell'Islam > Documentazione 3, 6

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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


DOCUMENTAZIONE

3. Mediazione e fanatismo in seno alla comunità islamica
6. La definizione di eresia

Diamo quattro brani a illustrare l'eresia com'essa è concepita in seno all'Islam. Il primo è una fetwà (parere giuridico) di Ghazzālī (cfr. I. Goldziher, Streitschrift des Gazali gegen die Batinija-Sekte, Leiden, 1916, n. 24) chiestagli dal califfo al-Mustazhir contro i batiniti (interioristi), in pratica gli ismailiti. È un po' la sintesi di quello che deve essere l'atteggiamento pratico del musulmano ortodosso nei confronti dell'opposizione, opposizione considerata tale con esclusivo riferimento alle concezioni teologiche affermate. Il secondo brano è di carattere più teorico, potremmo dirlo una summa delle colpe teologiche che un buon musulmano attribuisce all'eretico: colpe che si risolvono sempre in estremismo nei fatti di fede. Il brano è tratto da Giuwaynī (m. 1283), autore di una «Storia di Gengis Khan», Ta’rikh-i giahān-gushā (ed. M. Qazwini, «Gibb Memorial Series», XVI, 1-2-3, Leiden-London, 3, 1912-1916-1937). Il terzo brano è un breve florilegio delle opinioni sull'estremismo dello sciita Nawbakhtt (IX secolo) tratto dall'opera eresiografica Firaq al-shi‘a (Nagiaf, 1951, pp. 40-41). L'ultimo brano, brevissimo, è la lapidaria definizione di che cosa sia l'estremismo, cioè l'esagerazione per eccellenza, ad opera di Ibn Hazm (m. 1064), filosofo e letterato andaluso, autore tra l'altro di un'opera eresiografica. Per il testo cfr. I. Friediaender, The heterodoxies of the shiites according to Ibn Hazm, New Haven, 1909, I, pp. 55, 72).


I. Una chiara decisione sulla loro posizione: se essi devono essere considerati infedeli e peccatori, tanto che sia legale versarne il sangue… Quando ci si domanda, a proposito di qualcuno di loro o di un gruppo, se li giudichiamo infedeli, non dobbiamo affrettarci a dichiararli tali senza aver prima condotto un'inchiesta sulle loro credenze, e aver esaminato bene le loro dichiarazioni; prima cioè di essere in grado di affrontare l'argomento in questione e di esporre il loro credo in modo equo, basando il tutto sulla loro stessa testimonianza. Una volta accertata la verità della cosa, possiamo, se necessario, esprimere una tale decisione.

Le loro affermazioni cadono in due categorie, una che rende necessario accusarli di errore e di sviamento, e dichiararli colpevoli di innovazioni, l'altra che rende necessario dichiararli infedeli, per cui la comunità deve espungerli dal suo interno. Alla prima categoria possiamo ascrivere il volgo incolto che crede che la dignità califfale appartenga alla famiglia del Profeta di diritto, e che la persona che dovrebbe ottenere al presente tale carica sia il loro pretendente…

Essi credono inoltre che il capo così scelto, l’imām, sia preservato da ogni colpa e da ogni errore, e di necessità incapace di peccare. Nonostante ciò, essi non ci considerano infedeli, e sostengono non essere legale versare il nostro sangue: di noi, pensano che siamo gente iniqua, la cui mente ha deviato dalla comprensione della verità, e che ci siamo allontanati dal vero imām per ostinazione e spirito di parte. Non si può spargere il sangue di chi appartiene a questa categoria… Il giudizio deve quindi essere limitato alla dichiarazione di errore, perché lo sviato non esprime nessuna idea fallace in materia teologica e per quanto concerne i problemi della resurrezione e del giudizio finale: in tutti i campi egli esprime le nostre stesse credenze, salvo il punto che abbiamo indicato.

… La seconda categoria è quella che involge la necessità di dichiarare qualcuno infedele. Il che vuol dire che essi hanno – in fatto di teologia e di escatologia – credenze diverse dalle nostre, che ci considerano infedeli e dichiarano legale versare il nostro sangue e confiscare i nostri beni. Questi devono essere necessariamente dichiarati miscredenti. Tale giudizio è incontrovertibile, in quanto essi sanno che il mondo ha un Creatore, che è Uno, potente, sapiente, volente, loquente, dotato di udito e di vista, e senza suo pari; e che il suo apostolo è Muhammad b. ‘Abdallāh (la pace e la benedizione di Dio su di lui), il quale disse la verità quando parlò della resurrezione e del giudizio, del paradiso e dell'inferno… Quindi sostenere che ci sono due divinità, negare il giudizio finale, smentire l'esistenza del paradiso e dell'inferno, nonché la resurrezione, sono tutti punti in base ai quali uno può essere dichiarato infedele…

Venendo ai fatti sulla loro posizione, essi devono essere trattati come gli apostati, per quanto riguarda vita, proprietà, matrimonio… giudizi e pratiche di culto. Quanto alla vita non devono essere trattati come infedeli dalla nascita, perché per questi il sovrano ha quattro opzioni possibili, concedere la grazia, accettare il riscatto, farli schiavi o ucciderli, mentre non c'è opzione alcuna di fronte all'apostasia… L'unico trattamento possibile è la morte… senza attendere lo stato di guerra perché sia permesso o necessario metterli a morte… Se qualcuno chiede: «Si devono uccidere anche i loro bambini e le loro donne?» la nostra risposta è: «No, un bambino non può essere accusato, e il giudizio su di lui verrà nel tempo. Per quanto riguarda le donne, propendiamo per la pena di morte, seguendo l'ordine divino… ‘Chiunque cambi la sua religione, sia messo a morte’». Ma è lecito al capo della comunità seguire in questo campo altre indicazioni di altre scuole giuridiche… Abbiamo associato i batiniti agli apostati in tutti i campi, quindi anche per quanto si riferisce al pentimento che deve essere accettato. Questo punto non è controverso: in verità è meglio non affrettarsi a eseguire la condanna capitale, fino a che non si sia cercato di farli pentire, presentando loro l'Islam, anzi insistendo a che vi aderiscano. Nel caso di pentimento da parte di chi appartiene a una setta che crede religiosamente corretto nascondere la propria fede (taqīya), e giustificato l'atto di ipocrisia di dichiarare altro che quello che realmente si crede, quando vi sia pericolo di morte, i teologi non sono concordi… Uno degli elementi su cui basarsi in questo caso è quanto si trasmette a proposito di Usāma, compagno del Profeta, che mise a morte un infedele nonostante questi avesse pronunciato la formula di conversione all'Islam. Il Profeta contestò il fatto, nonostante Usāma sostenesse che l'infedele aveva accettato solo per timore della spada puntata su di lui: «Sapevi tu forse quello che aveva nel cuore?». Con il che il Profeta ha attirato l'attenzione sul fatto che le creature umane non sono in grado di conoscere ciò che è nascosto, per cui solo quanto è palese può essere riferimento valido a cui legare la responsabilità giuridica.


II. Poiché Hasan-i Sabbāh (possa confonderlo Iddio) si fu stabilito saldamente in Alamut e vi ebbe ottenuto pieno controllo, spedì missionari in tutte le direzioni, e dedicò l'intero suo tempo a diffondere la sua propaganda e a pervertire i ciechi. Ebbene, la sua riforma dell'eresia, che dopo la morte di lui fu chiamata «Nuova propaganda», era come segue: i suoi predecessori avevano basato i loro dogmi sull'interpretazione simbolica della rivelazione – specialmente dei versetti più ambigui del Corano – su lambiccate deduzioni dalle tradizioni, e simili; e solevano dire che c'era un'interpretazione simbolica per ogni rivelazione, e che ogni forma esteriore aveva un significato interiore; Hasan-i Sabbāh, invece, non volle ammettere che l'istruzione dall'alto: diceva che la conoscenza di Dio non si sarebbe raggiunta mediante ragione e riflessione, bensì solo mediante l'insegnamento dell'imām, poiché la maggior parte del genere umano è fornita di ragione, e tuttavia ognuno ha il suo diverso punto di vista sui modi d'essere della religione; se l'uso della ragione fosse sufficiente a conoscere Dio, nessuna setta avrebbe obiezioni da muovere alle altre sette, e tutte sarebbero uguali, una volta ammesso che ognuna sia arrivata alla religione per via di ragione. Dal momento invece che è permesso agli uomini obiettare e rifiutare, e che qualcuno sente la necessità di imitare gli altri, ciò dimostra la validità della dottrina dell'istruzione, in quanto, la ragione non essendo sufficiente, ci deve pur essere un imām, il quale, in ogni epoca storica, possa con il suo insegnamento addottrinare la gente e condurla alla religione. Egli coniò parecchie massime e aforismi, che usava a mo' di esca per l'amo del suo inganno, e le chiamò «prove irrefutabili». Lo stolto e l'uomo volgare pensarono che quelle bellissime espressioni fossero ripiene di significato. Una delle più sottili da lui escogitate consisteva nel chiedere agli avversari se la ragione fosse sufficiente o meno, perché, se si rispondeva che la ragione è sufficiente per la conoscenza di Dio, questo implicava che, essendo ognuno fornito di ragione, nessuno poteva obiettare alcunché a nessun altro; e se invece l'avversario diceva che la ragione non era sufficiente, e che si aveva bisogno anche di un maestro, ne saltava fuori puramente e semplicemente la sua stessa dottrina. Ponendo questa domanda, insinuava che la sua dottrina, com'egli stava cercando di affermare, era nel senso che il binomio istruzione-ragione non è indispensabile. Ora, ciò che non è necessario, o è lecito, e allora coadiuva la funzione dell'altro termine, o non è lecito, e la ragione deve essere usata da sola, altrimenti la conoscenza di Dio non può essere raggiunta: ecco i due corni del dilemma. Hasan confutava il secondo e diceva d'aver confutato tutta la dottrina ortodossa. Naturalmente non è così, perché la maggior parte dell'umanità è convinta che la sola ragione non è sufficiente, che essa deve essere usata in un certo modo, e che istruzione e guida sono d'ausilio ad alcuni fra coloro che sono forniti di ragione, mentre altri non ne hanno bisogno assoluto, ma possono eventualmente giovarsene. È chiaro insomma che Hasan non ha fatto un bel nulla di serio per confutare le credenze della maggioranza.

Quanto poi all'affermazione che la facoltà di ammaestrare è riservata a una persona specifica, essa ha bisogno d'una prova, e la sola prova che egli forniva era questa: «Io ho provato la necessità dell'istruzione, e poiché non vi è altri a parlare a favore dell'istruzione, la determinazione del Maestro va ovviamente fatta seguendo le mie parole». Cosa evidentemente falsa, come se qualcuno dicesse: «Io dico che il tale è l’imām, e la prova di ciò è che lo dico io». Diceva poi: «La convergenza d'opinione dei musulmani è nel giusto; allora, se le mie parole non sono vere, e io ho confutato le parole degli altri, i musulmani hanno concordato su ciò che è falso». Altra ovvia risposta: il consenso d'opinione, nel caso della maggioranza, è nel giusto a causa della sua dipendenza dal Corano e dalle Tradizioni, il che nel suo caso non è. Perciò, basare la sua dottrina sul consenso d'opinione è per lui basarla sulle parole dei suoi avversari, il che non gli è di alcun profitto. A parte questo, egli non dava alcuna prova della designazione dell' imām. Sosteneva che quando il Profeta (su di lui la pace!) disse: «Mi fu comandato di combattere la gente finché non dicesse: – Non c'è altro Dio che Dio! –», intendeva che essi dovevano imparare da lui a dire: «Non c'è altro Dio che Dio». Tale e quale che la dottrina sua dell'insegnamento. E qui la risposta è che ciò è incompatibile con la storia della vecchia che, quando la interrogarono circa Dio, indicò il cielo, e il Profeta disse: «Lasciatela andare, che questa è una credente», e «Adottate la religione della vecchia». Il Profeta si guardò bene dal dire alla vecchia: «Tu non hai imparato da me la conoscenza di Dio, quindi non sei una credente». E ancora, quando un beduino disse: «Il Tempo non è forse Dio?», il Profeta (su di lui la pace!) disse: «Lasciatelo stare, in fondo ha detto bene». E vi sarebbero ulteriori esempi del genere, se non fosse che questo libro non sembra la sede più adatta per confutare dottrine false e sostenere la Vera Fede. Queste, insomma, le assurdità sue, per forma esteriore lacci d'inganno, e per significato inferiore frodi di Satana, allo scopo di paralizzare la ragione e ogni possibilità di acquisizione della conoscenza. «Iddio ha suggellato il loro cuore e l'udito, e la vista loro è velata e avranno castigo tremendo».


III. Un gruppo sosteneva che ‘Ali è l' imām dopo il Profeta: a lui bisogna obbedire, e tutti devono accettare i suoi ordini e sollecitare il suo giudizio. Nessun altro conta in questo campo, dato che il Profeta gli ha confidato il sapere di cui la gente ha bisogno in materia religiosa, in fatto di cose lecite e illecite, a proposito dei vantaggi e degli inconvenienti esterni e temporali, e circa le conoscenze primarie e secondarie. Il Profeta gli avrebbe confidato tutto ciò, costituendolo guardiano di tale saggezza. Ed egli sarebbe stato parimenti incapace di peccare…

Per tutto ciò la successione del Profeta dopo di lui non poteva che andare al suo alter ego, dato che l'imamato è, dopo la funzione profetica, una delle più importanti.
… E certi estremisti professano: «Chi conosce l' imām, può fare ciò che vuole».


IV. In quanto agli estremisti sciiti [l'eresia più consistente numericamente nel corso della storia islamica], essi sono divisi in due gruppi: quelli che attribuiscono la profezia ad altri che al Profeta, e quelli che attribuiscono la divinità ad altri che a Dio, unendosi in questo a ebrei e a cristiani, e tradendo in tal detestabile modo la religione.

Sappi che, tra coloro che si considerano musulmani pur aderendo a queste abominevoli eresie, sono rimasti ormai solo gli sciiti e i sūfī. Tra questi ultimi v'è chi sostiene che chi ha raggiunto la conoscenza di Dio è esentato dall'osservanza dei precetti, ed alcuni aggiungono in sovrappiù che quello s'è unito all'Altissimo… Il che è pura apostasia.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07