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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


1. L'Islam e l'Occidente

1. Incontro-scontro

La civiltà islamica non è sempre emersa con una stessa immagine dallo specchio dell'Occidente: da un primo momento di comprensione pur nella diversità, comprensione filtrata attraverso la sensibilità delle Chiese cristiane d'Oriente, si passa via via a un'alterazione degli elementi noti che ha il suo canale principale in un papato impegnato a rafforzare il proprio ruolo temporale. Una consapevole politica antislamica lascia progressivamente spazio a un atteggiamento del mondo occidentale nei confronti delle popolazioni del bacino orientale del Mediterraneo e delle coste settentrionali dell'Africa (atteggiamento, sotto certi aspetti, ancora attuale), il quale trova il suo ovvio sbocco in una serie di azioni a carattere espansionistico che hanno nelle Crociate un primo esempio, ma che l'Otto-Novecento trasformerà in teoria politica a giustificare gli sforzi coloniali dell'Europa industriale.

Ben poco servirà, a incrinare la visione di un mondo fanatico, la cui concezione religiosa nascerebbe da una vera e propria impostura (così affermavano gli «apologisti» cristiani), la dignità dantesca di Saladino, esempio piuttosto di un ideale umanistico astratto, avulso da ogni peculiare contesto. In modo analogo, la dipendenza culturale di Tommaso d'Aquino da Averroè, invece di agevolare un approccio corretto alla civiltà islamica, allontana definitivamente l'Occidente da una problematica comune con l'Oriente, la cui vita spirituale, ignota all'Occidente, rientra in una dimensione di uso interno, pur mantenendosi una spirale in ascesa nelle zone periferiche orientali, là dove il contatto tra culture è possibile e la situazione storica non fa registrare una supremazia politico-economica a vantaggio esclusivo di una parte.

Se si volesse giudicare da un punto di vista squisitamente culturale il fenomeno della progressiva alienazione dell'Europa dall'Oriente, potremmo dire che siamo di fronte a un processo di costruzione progressiva di quei pregiudizi nei confronti dell'allora antagonista e dell'attuale colonizzato-sottosviluppato che hanno contribuito a formare la cosiddetta mentalità europea, pragmatista, efficiente, razionale, superiore. Il fatto culturale è andato quindi a confluire tra le varie spinte organiche al progresso europeo, trovando nel dato di fatto oggettivo, come dire storico, il suo puntuale riscontro e la sua concretizzazione, cioè la struttura politico-economica che ha permesso all'Europa di assolvere alle sue aspirazioni coloniali. L'interesse ad affrontare il problema da questo punto di vista ci sembra confermato dal fatto che giungeremmo a un risultato analogo nella sostanza anche partendo dall'analisi delle strutture economiche e sociali che hanno permesso e spinto l'Europa ad assumere un atteggiamento e non un altro di fronte all'Oriente. Avremmo cioè i dati storici che documenterebbero i fatti culturali corrispondenti: pregiudizio e alienazione – funzionali a una determinata necessità di condizionare la propria visione di se stessi – per porsi in una situazione di privilegio nei confronti degli altri. Fatti che vogliamo scegliere come oggetto prioritario di analisi, nel tentativo di enucleare gli elementi culturali di parte opposta a danno dei quali o sui quali si sono operati o la mistificazione o il rifiuto o la polemica.

L'ammissione comunque di una progressiva alienazione, nel bacino del Mediterraneo, tra Oriente e Occidente, non basta ancora a chiarire l'incidenza che l'incomprensione tra cristianità e mondo islamico ha avuto sulla moderna cultura europea. Tale incomprensione non è infatti tipologicamente riconducibile a un'incompatibilità di contatti economico-sociali: per intenderci, al musulmano, arabo prima, «saraceno» poi, non è stata affidata nella struttura europea una sua posizione di alienato, estranea alla struttura, ma ad essa funzionale e in essa operante, come è spesso il caso delle comunità ebraiche nell'Europa medievale o rinascimentale.

L'interlocutore orientale, il «levantino», è più o meno identificato da un punto di vista economico, cioè nella sua qualità di intermediario commerciale, ed è sempre presente nelle cronache, rispettato nella misura in cui quella funzione commerciale appare vitale ai bisogni della società occidentale. Il contrasto nasce e si sviluppa in misura progressiva quando sorge il problema di un'assunzione in proprio di tale funzione da parte europea: repubbliche marinare prima, stati in via di espansione poi.

Ben diversa è l'incomprensione, se così si può chiamare, nei confronti delle comunità ebraiche d'Europa, in quanto, proprio per la fissazione di una loro funzione economica all'interno del sistema, l'incontro non avviene mai alla pari, con due ordini di conseguenze fondamentali: conservazione, specie nell'Europa medievale, di un patrimonio culturale ebraico, veicolo ed espressione di una koinè mediterraneo-islamica estranea alle forme culturali europee dell'epoca, e viceversa adeguamento tecnologico-organizzativo alle strutture europee che porterà a un'europeizzazione innegabile e totale delle colonie ebraiche in un punto fondamentale di diversificazione con il mondo islamico, e cioè nella visione economica che prelude alla rivoluzione industriale. Non si può quindi che ribadire il concetto già espresso: i fatti di struttura sono stati causa di tensione e motivo del venire in essere di sempre nuove tensioni. Pure, questo non spiega ancora la radicalità dell'alienazione tra le due aree contrapposte, né nell'integralismo medievale, a cui corrisponde a grandi linee la diversificazione di funzioni cui si accennava tra Europa e Mediterraneo orientale, né nella ripresa economico-culturale dell'Europa rinascimentale, di cui l'Europa stessa si serve per accentrare, a suo esclusivo vantaggio, l'insieme delle funzioni dell'Oriente. In entrambe le situazioni, infatti, l'esistenza reciproca può essere riconosciuta, intendendosi con questo una presenza caratterizzata e autonoma cui fare riferimento come al «diverso da sé», senza postulare in maniera assoluta il «negativo rispetto a sé».

Ciò che a noi interessa analizzare è quest'ultimo passaggio, quando il «diverso» diventa il male, l'inciviltà e il nemico. Tale atteggiamento è senz'altro parallelo a una serie di fatti economico-sociali inerenti alla struttura stessa delle due civiltà contrapposte. Ci sembra tuttavia di poter notare come non sempre l'interesse di fondo dell'Europa nei confronti del mondo mediterraneo islamico sia stato sorretto da azioni lungimiranti: del che la storia anche recente ci fornisce lampanti conferme. Ci troviamo di fronte, nel campo culturale e psicologico, per eccellenza sovrastrutturale, entro cui vogliamo confrontare Oriente e Occidente, un elemento piuttosto raro e di ardua definizione, una certa qual forma di apparente «gratuità», un quid non spiegabile attraverso la normale analisi degli equilibri e delle necessità prioritarie: gratuità che troppo spesso sembra determinare l'atteggiamento collettivo europeo e cristiano nei confronti del Mediterraneo orientale e islamico. Esiste quindi di certo, all'interno del fatto ideologico funzionale allo sviluppo europeo nei confronti dell'Islam, un qualche cosa che corre parallelamente o che precede il fatto stesso, e che non può che ricondursi alla globalità di una diversa visione della vita e delle sue finalità: diversità di visioni che solo fino a quando ha trovato espressione puramente religioso-culturale («Credo in Unum Deum») all'interno di un analogo sistema integralistico medievale ha trovato possibilità di pacifica convivenza.

Basterebbe accennare alla difformità di ruolo dell'esotismo e del filoesotismo nei confronti dell'Islam e di altre civiltà orientali, come quella indiana o quella cinese. Per esotismo e filoesotismo intendiamo l'accettazione di una cultura o di un fatto non per quello che essi sono, bensì nel riferimento a proprie categorie estetiche o comportamentali. Con il che la cultura e il fatto in questione vengono recepiti e consumati quale merce di un godimento particolare e quale superfluo voluttuario. Allora non è molto difficile osservare come, in un tale ambito di applicazione, il pacifismo o meglio la «non violenza» indiana venga tranquillamente assorbita insieme alle mille incarnazioni di un Vishnu o all'orrore di un Krishna guerriero e spaventoso senza che si colga contraddizione alcuna; l'antroposofia esotica nutre la teosofia di una Blavatskaja. Analogamente, non disturba che la plurisecolare scientificità cinese conviva con la più documentata e ininterrotta tradizione contadina, la quale fa dell'immobilismo gerarchico il suo punto di forza. Per quanto riguarda l'Islam, là dove una generalizzazione o un'assimilazione troppo semplicistica era impossibile data la prossimità non solo geografica del fenomeno, la scelta esotica si è poggiata su fatti contingenti e assolutamente secondari: il fascino del beduino e del deserto (ultimo o quasi ultimo epigono un Gide), la naturale primitività della relativa concezione religioso-etica, o l'astuzia orientale, legata a idee di lusso e di lussuria, rivisti attraverso false letture delle Mille e una notte. La scelta stessa dei temi su cui ha operato l'esotismo fino a Loti e al melodramma coloniale ottocentesco nei riguardi del mondo islamico ha portato non solo a mistificarlo, come era di certo anche il caso degli altri esempi addotti, ma a non considerarlo un tutto organico, una vera, vitale «alternativa»; per cui quella realtà che era più a portata di mano ai fini di ogni eventuale verifica doveva essere negata per non risultare troppo scomodamente accusatrice dei limiti obiettivi dell'analisi di chiunque affronti una realtà diversa senza uscire da, o mettere in crisi, i propri schemi culturali.

Anche il riconoscimento offerto alla «saggezza islamica», che ha trovato nel Settecento ben note emblematiche espressioni, rientra pienamente in questa categoria di concezioni. Vittorie di Lepanto, assedi di Vienna vengono recepiti emotivamente, in Europa, come sollievo a una paura già persistente, tale da permettere l'infiltrarsi di un'ammirazione, niente affatto volta a cogliere la «globalità» della cultura antagonista, bensì una sua qualche forma di superiore distacco, un'aristocrazia dello spirito che si attribuisce al nemico vinto, per esserne stati degni vincitori.

Ci sembrano significative in proposito alcune frasi di Antonio Gramsci (Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1966, pp. 79-80), che riportiamo con corsivi nostri, a dimostrazione di quanto sia divenuto difficile, per via delle diverse stratificazioni di incomprensione accumulatesi nei secoli, un approccio non preconcetto e corretto con l'Islam. Dice Gramsci, commentando un testo (I santi nell'Islam di Bruno Ducati uscito nel 1929): «Maometto… si proclamò l'ultimo dei profeti, cioè l'ultimo legame vivente tra la divinità e gli uomini; gli intellettuali (sacerdoti o dottori), avrebbero dovuto mantenere questo legame attraverso i libri sacri, ma una tal forma di organizzazione religiosa tende a diventare razionalistica e intellettualistica (cfr. il protestantesimo, che ha avuto questa linea di sviluppo), mentre il popolo primitivo tende a un misticismo proprio rappresentato dall'unione con la divinità con la mediazione dei santi… il legame tra gli intellettuali dell'Islam e il popolo divenne solo il ‘fanatismo’, che non può che essere momentaneo, limitato, ma che accumula masse psichiche di emozioni e impulsi che si prolungano in tempi anche normali. (Il cattolicesimo agonizza per questa ragione: che non può creare, periodicamente, come nel passato, ondate di fanatismo…)».

La difficoltà di ammettere, in popoli qualificati come primitivi, la cosciente adesione a un movimento religioso basato non sulla gerarchia ecclesiastica ma su una dialettica trascrizione, in termini in gran parte antimetafisici e legali, del messaggio divino, non può che essere scontata. La concezione del popolo beduino e delle esigenze mistico-liberatorie di fronte a una religione non-spirituale, come spesso l'Islam è rappresentato nella sua mancanza di misteri e di dogmi imprescindibili la quale non richiede adesione di fede diversa dalla pura asserzione del monoteismo assoluto, può far interpretare come fattori essenziali elementi locali e periferici rispetto al nucleo anche cultuale della religiosità delle masse islamiche. Il rapporto tra il depositario dell'interpretazione testuale della rivelazione e il credente viene trasformato dall'Europa in una sorta di atteggiamento religioso (fanatismo) nei confronti dell'autorità, senza apertura di problemi psicologici del singolo e senza che alla componente intellettualistica o razionalistica sia riconosciuta la sua natura di fatto religioso. La mancata individuazione di una struttura religioso-politica che differenzia sì le funzioni religiose al suo interno, ma non spezza l'unitarietà del fatto religioso in sé, e la sua scomposizione in una scontata presenza intellettualistica e una altrettanto plausibile componente mistica, in contrasto tra loro o in alternativa l'una rispetto all'altra (laddove la realtà è nella sintesi), impediscono, anche in termini di lotta sociale e di equilibri politici, un'adeguata definizione del fenomeno Islam.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07