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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


1. L'Islam e l'Occidente

3. La teoria del potere

La concezione islamica del potere può in qualche misura essere assimilata a una visione medievale dello stato solo nell'ammissione della dipendenza del potere terreno dal potere divino. Ma mentre nel Medioevo cristiano il sovrano in terra è l'unto del Signore, e suo rappresentante terreno, per l'Islam Dio è a tutte lettere il sovrano della comunità islamica. D'altra parte la comunità islamica non è una Chiesa; è invece uno stato, nel quale i singoli membri, a qualsiasi livello sociale, si riconoscono come appartenenti a uno stesso credo, e più specificamente come sudditi dello stesso sovrano, cioè Dio. Semplificandone al massimo la funzione, il califfato islamico potrebbe essere definito come l'organo esecutivo di un apparato che ha Dio al suo vertice e l'umanità al polo opposto. Tale organo esecutivo è valido in quanto la comunità dei fedeli, che rappresenta l'umanità cosciente di tale realtà, lo elegge, o meglio gli offre il suo consenso. Si tratta quindi di un patto reciproco tra i fedeli e il califfo che prevede da parte di quest'ultimo la massima aderenza al potere legislativo divino, così come questo si è espresso attraverso la rivelazione. Allo stesso modo i fedeli, riconoscendosi liberamente sudditi nominali del califfo, si autosottomettono alla regola della disciplina e dell'obbedienza. In assoluto, insomma, la teoria del potere nell'Islam poggia su una forma di consenso democratico, richiesto all'intera massa dei fedeli nei confronti di un unico membro della comunità che si assume il compito di interpretare la legge. Nella prassi, i termini del contratto vengono semplificati e formalizzati nel processo storico che vede affermarsi alcune funzioni essenziali al funzionamento stesso del potere. E alla categoria che assolve tale funzione viene devoluto il compito di rappresentare la comunità nel suo complesso nei confronti del califfo. Sono gli «intellettuali», se così vogliamo chiamarli, che il testo di Gramsci menziona. Ma due elementi vanno subito sottolineati.

Anzitutto, i depositari della funzione non sono automatica espressione di una sola classe, anzi la loro estrazione sociale può essere quanto mai ambigua, e questo nonostante che essi, come categoria, facciano parte della classe dirigente, cioè cogestiscano il potere. Il concetto si può esprimere in termini attuali, postulando un interclassismo all'interno del quale la stratificazione sociale sia di tipo particolarmente mobile – nessuna classe essendo esclusa di per sé da certe funzioni o da certe prerogative essenziali per la gestione del potere – e priva di quelle spinte e di quelle tensioni che hanno espresso la lotta di classe nel mondo occidentale: lotta di classe che trovava evidentemente, per esprimersi, vie diverse da quelle a noi consuete.

Un secondo fatto è che il concetto di delega risulta particolarmente estraneo alla mentalità islamica. Il califfo non è un delegato: rappresenta Dio, quindi è uno e uno solo, ma è nel contempo un contraente in un contratto bilaterale, senza che per questo l'altra parte gli deleghi l'esecuzione dei doveri che competono alla comunità islamica tutta. Evidente la differenza fra una tale struttura e la struttura cristiana, che vede una netta distinzione tra potere temporale e potere spirituale, ma che si poggia sostanzialmente sull'estensione del concetto di delega all'autorità da parte della massa: la quale delega, in mancanza di un sistema democratico-rappresentativo, evita difficilmente l'alienazione delle masse dalla gestione del potere. Che alla prova dei fatti il mondo islamico non abbia saputo produrre una vita politica di tipo moderno, e che questo costituisca uno dei ritardi che esso paga tuttora, non può spiegarsi soltanto come un fatto di arretratezza oggettiva. Psicologicamente, il musulmano ha sempre trovato una sua collocazione nell'indicazione religiosa che determina anche il suo concetto dell'autorità, e questo spiega perché i riformatori e le correnti moderniste, che hanno pervaso l'Islam dopo l'impatto diretto con l'Europa coloniale, abbiano sempre insistito su un ritorno alla forma primitiva di gestione del potere e di religione, endiade indissolubile, e garanzia assoluta di una pacifica coesistenza tra le classi, senza postulare come necessaria molla di sviluppo la lotta di classe, e senza voler prevedere la supremazia di una classe sull'altra, ma al massimo la maggiore o minore utilità di una funzione rispetto all'altra. E ciò secondo gli schemi tradizionali dell'utopia, sia essa la tecnica che trascrive la scienza in termini di prassi, sia essa la filosofia che offre lo strumento teorico alla conduzione logica degli affari di stato. È un condizionamento psicologico che ben si vede funzionare insieme alla libertà religiosa del musulmano, il quale non è legato da dogmi al di fuori di quanto è espresso nella professione di fede («Non c'è altro dio all'infuori di Dio e Maometto è il suo profeta»), e non è vincolato nell'interpretazione del logos da nessuna autorità che si possa arrogare il diritto di essere l'infallibile depositaria della verità. Nessuna verità dedotta dal testo sacro, quindi, che sia valida di per sé e non solo come ipotesi di regolamentazione morale e giuridica, sostenibile come giusta e conforme alla volontà divina solo se rapportata alle necessità rappresentate dall'utilità sociale, che è il metro di giudizio privilegiato, nella comunità islamica, per definire il bene e il male. D'altra parte, una simile concezione della realtà sociale, legata com'è a quella del monoteismo assoluto, permette una scissione di piani tra quanto è valido in questo mondo e quanto è il mondo inconoscibile dell'Oltre, scissione tale da mantenere il presupposto della libertà divina e della completa dipendenza dell'uomo da essa, senza che si giunga a teorizzare quel fatalismo che è ben più consono e congenito a molte forme di protestantesimo che non all'Islam.

Se il piano su cui opera l'uomo si trova al polo opposto della realtà divina che lo trascende e che esprime la sua libera e ineffabile Essenza, il legame tra Dio e l'uomo non può essere dato che dal riconoscimento pieno di quest'ultimo, riconoscimento che si esprime però soltanto nel seguire una legge che traduce in termini umani la volontà divina senza porsi il problema dell'adeguamento del piano terreno a quello divino. Seguendo la legge, e con questo si intende un fatto che è «fisico» non meno che giuridico, l'uomo fa quanto gli è dato fare per la propria salvezza, mentre il giudizio ultimo spetta a Dio, nella sua logica infinita. Il problema dell'al di là, del castigo e del premio, si pone quindi in termini molto fluidi, essendo impossibile all'uomo esprimere un giudizio che vincoli in qualche modo le possibilità di libertà divina. La trascendenza assoluta spinge l'uomo a occuparsi della terra e a considerarla come l'unica realtà sperimentabile, a perseguire la felicità e il bene terreno come ubbidienza alla volontà di Dio, che per questo ha espresso la sua legge, nella sua qualità di «giusto per eccellenza». La definizione di ciò che è umano è quindi positiva perché non è data in contrapposizione ad altro che non sia umano, e il superamento dell'umano, anche nei casi di misticismo estremo, viene sempre visto in funzione diremmo noi «rinascimentale», di piena realizzazione dell'uomo, funzione che porta all'Uomo Perfetto, e mai alla negazione della sua natura, d'altra parte non corrotta per l'Islam da nessun peccato originale.

Ecco dunque in sintesi le componenti di fondo che, in modo più o meno conscio, la cristianità nel suo insieme, e in particolare la Chiesa, non recepirono, e con le quali non vollero confrontarsi: teoria del potere intesa come patto tra il sovrano e i sudditi nell'interesse della comunità, concezione dell'assoluta trascendenza divina, positività della natura umana e necessità di esplicarla sulla terra.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07