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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


1. L'Islam e l'Occidente

4. La trascrizione cristiana dell'Islam

I punti che abbiamo elencato sopra sono quelli di massimo attrito tra Islam e Cristianesimo; attrito per usare un eufemismo, perché, in verità, il mondo cristiano ha sempre espresso i suoi giudizi senza chiederne conferma all'altra parte. La reciproca non è del tutto esatta perché l'altra parte è stata perlomeno costretta a prendere coscienza dell'Europa da motivi politici ben precisi, a partire nel peggiore dei casi dalle Crociate. L'ambito, comunque, entro il quale il Cristianesimo ha fatto uso dell'Islam per affermare una sua visione etica considerata automaticamente superiore, non è del tutto omogeneo e varia nel tempo e nei luoghi.

Si è detto che nei primi tempi della conquista le Chiese orientali, pur parlando del pericolo islamico e prendendo le difese della propria fede, per necessità di cose consideravano l'Islam una vera e propria religione. A parte alcuni casi a cui farà spesso riferimento la tradizione europea, il Cristianesimo bizantino si manterrà su questo atteggiamento. L'Occidente, invece, catalogherà molto presto l'Islam come eresia nata sul corpo del Cristianesimo. Motivi formali ce n'erano molti: concezione cristologica di tipo docetistico, iconoclastismo ecc. Ma il punto di cosciente differenziazione espresso dal Corano, che affida a Maometto una missione profetica per così dire rivoluzionaria nei confronti delle precedenti religioni monoteistiche, viene negato. L'impostura «voluta» e il fatto di essere «falso profeta» permettono l'accanirsi su temi specifici. Se la negazione del dogma della Trinità, per i musulmani contaminazione del monoteismo assoluto, è a volte considerata ignoranza e incapacità di cogliere il valore del mistero, la problematica etica, che si riferisce sempre a una concezione precisa della natura umana e del valore della creazione, viene pur sempre affrontata prioritariamente, cioè a prescindere dagli eventuali contrasti teologici. Se questi ultimi forniscono la dimostrazione palese del primitivismo dell'Islam, il fattore etico indica invece la malvagità e la sicurezza della perdizione nel medesimo, e come tale esprime un potenziale di persuasione nei confronti delle masse ben difficilmente immaginabile in sede di polemica teologica. Altro elemento da non sottovalutare: ogni religione, specie se ha carattere ecumenico, e quindi non ha il problema di difendersi e rimanere vitale all'interno di una maggioranza di credo diverso, deve postulare, almeno in teoria, la conversione dell'umanità alla sua legge, e la conseguente scomparsa delle altre religioni. Queste, pur nella loro negatività, vengono riconosciute. Lo stesso sarebbe accaduto a un Islam non considerato eresia cristiana, come dimostra, per citare un esempio già menzionato, il Concilio Vaticano II. L'accanimento contro gli eretici e gli apostati è invece anche troppo documentato nel Cristianesimo. I musulmani vengono assimilati a quest'ordine di idee. Non solo, quindi, la maggioranza che è per definizione nel giusto ha diritto a difendersi dalle insidie di una minoranza di «seminatori di discordia» che tenta di scalzarla, ma ha diritto all'arma della persecuzione e del disprezzo. Uno dei risultati evidenti è l'aumento di credibilità dell'istituzione papale, a cui i vari califfi e in prima istanza il Profeta, a tale istituzione almeno in gran parte assimilati, danno un involontario contributo mostrandosi come sono, senza nessuna prerogativa divina. E a dimostrare come indegnamente siano assolte alcune funzioni in terra d'Islam si ricorre, anche in questo caso, piuttosto a elementi etico-comportamentali che a fatti ideologici di base. Quanto diciamo non va inteso come un processo venuto in essere già compiuto; esso conosce momenti anche contradditori e di contenimento.

Ciò che deve essere considerata come una costante è invece la finalità dell'insieme, e cioè il discredito, propagandato in tutti i modi, del «capo», sia esso Maometto o un suo califfo, per impedire che sorgano elementi di fondo a contrastare l'egemonia cristiana, prima di tutto l'istituzione papale e poi, per assimilazione non sempre direttamente esplicitata, la teoria dell'autorità religiosa e politica, funzionante nell'Occidente cristiano. I termini si pongono in modo più radicale e forse, per assurdo, meno lontani dalla plausibilità, quando compare sulla scena europea il pericolo turco. Saremmo tentati di dire che in qualche caso l'Europa si è trovata in situazioni analoghe a quelle della cristianità orientale al momento della conquista araba. Difficile negare a un esercito spesso vincitore doti di disciplina e di coraggio, o negare ai suoi comandanti spirito di iniziativa e autorità. Si ricorre, come avvenne anche in Oriente, all'elemento della crudeltà e della violenza, e con questo ci riallacciamo ai fattori etici che sono stati il punto di forza teso a garantire l'incomprensione a livello di massa puntualmente alimentata dall'élite cristiana nei riguardi dei musulmani. Dalle regole date ai pellegrini in Terra Santa alla confutazione fatta da Pietro di Cluny della traduzione del Corano da lui stesso commissionata per dare basi più solide alla lotta contro l'Islam (e mai, o quasi mai usata come testo, da studiare in quanto tale), e fino al sospetto di eresia in cui incorse Andrea Arrivabene, autore della prima traduzione italiana del Corano nella seconda metà del Cinquecento, la linea di condotta della cristianità si presenta con tal minimo contingente di eccezioni che ne segnaliamo qualche esempio nei testi proprio per amore della rarità.

Il fatto è più intenzionalmente voluto di quanto potrebbe sembrare a prima vista, una volta ammessi l'antagonismo di fondo e la posta in gioco, cioè l'egemonia nel Mediterraneo. Infatti, nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento, l'Europa ha conosciuto la produzione scientifica e filosofica del mondo islamico propedeutica al risveglio europeo. Stupisce meno l'oscurantismo iniziale della Chiesa, che si difende anche dalle innovazioni interne, e quindi dal sorgere del nuovo spirito scientifico europeo, attraverso l'arma della censura e la solita accusa di eresia. Più paradossale appare il permanere di un tale atteggiamento quando il papato stesso viene coinvolto nel processo rinascimentale. L'originaria matrice arabo-islamica della scienza continua a essere negata. Se è vero che essa era stata a sua volta elaborazione di un'eredità greca mediata, e come tale accettata dalla cultura bizantina contemporanea al sorgere dell'Islam, è innegabile che l'interesse per il «creato» in una concezione della vita come quella islamica, aveva dato frutti non indifferenti e risultati che stanno a dimostrare come lo iato tra spirito e materia sia piuttosto una scoperta occidentale che non una peculiarità orientale, così come falsi esotismi di stampo occidentale (ma anche orientale recente) tendono a sostenere. Lo scienziato islamico, infatti, non doveva operare una scelta tra due campi distinti, visto che la trascendenza divina, che la sua concezione gli offriva come principio di fede, lo portava a occuparsi della materia creata come di una delle forme atte a esprimere la sua aderenza alla volontà stessa di Dio. Nonostante la possibilità, sempre aperta per lo scienziato, di sentirsi in qualche modo fuori da quella legge sociale che è fondamentale per l'Islam, il che spiega alcune forme di sospetto a carico di scienziati da parte dell'establishment islamico, (e lo affronteremo parlando di fanatismo «interno» all'Islam), fatti veri e propri di persecuzione sono rari nella storia della comunità islamica, e ancora più rari i casi di processi a carico di qualche figura controversa terminati con la pena capitale.

Comunque l'Occidente, che scopre la scienza e il fascino del creato per tramite islamico, crea immediatamente un elemento sostitutivo cui rifarsi come modello; invece di scegliere il maestro diretto ricorre al maestro del maestro, rifiutando la lettura storicistica del fenomeno scientifico nell'ambito islamico, e il mito della Grecia, fonte di ogni verità e di ogni stimolo culturale, è fatto compiuto. Compiuto è anche, in questo modo, il solco tra le due culture, che ben difficilmente possono trovare, anche nel caso di incontro, terreno di intesa. Si assiste così al ripiegarsi su se stessa della ricerca islamica, che avrebbe dovuto, in un ovvio dialettico ricambio, ottenere linfa nuova, su cui riprendere il processo creativo, da quell'Europa a disposizione della quale aveva posto e metodo e risultati.

Un'ultima puntualizzazione sulla divergente concezione della natura umana, visto che il secolo dei lumi esprimerà la sua opposizione alla mentalità cristiana usando anche, in forma più o meno mitica, l'idea di un Oriente «non complessato», naturistico e carnalmente soddisfatto.

Come molte testimonianze dimostrano, una delle principali accuse rivolte all'Islam e al suo fondatore concerne la lussuria. Lo spunto è evidentemente quello della poligamia legalizzata dal Corano. L'elemento specifico, invece, giace più in profondità, come prima si accennava. La concezione del peccato originale e dell'olocausto del Cristo per la salvezza del genere umano come massima espressione di vita porta con sé un naturale timore di cedere alla carne e alle sue esigenze, come fatto di allontanamento dall'ideale cristiano che vede nella morte l'inizio della vera vita. Ogni religione ha di per sé, almeno tendenzialmente, questa caratteristica di trasporre nell'aldilà la perfezione assoluta negata al mondo terreno, ma l'Islam proclama un paradiso molto simile a un giardino di godimenti e, fatto ancora più notevole, non indica nessuna rigida prescrizione che limiti la speranza di entrarvi. Piuttosto che per una facile traduzione allegorica del paradiso islamico, propenderemmo per una lettura allusiva, a cui del resto l'Islam stesso, nelle interpretazioni date ai versetti che parlano dell'aldilà, fa riferimento cosciente, e che è in perfetta coerenza con quanto siamo venuti dicendo: l'aldilà è per eccellenza il mondo dell'inconoscibile, dell'Oltre; l'aldilà che si può conoscere è l'aldiqua purificato degli elementi negativi, quindi umano e materiale in ogni sua forma: umano materiale positivo, e, ovviamente, fonte di felicità. Ora, che l'essere felici sia stata una massima cristiana delle più diffuse, è per lo meno difficilmente sostenibile. Di fronte a una tale spudorata dichiarazione del valore della felicità, il Cristianesimo non poteva che sentirsi offeso in uno dei suoi punti di più delicata teorizzazione etica, quella intorno alla necessità del dolore per raggiungere la salvezza. La trascrizione in termini bassamente moralistici riesce a contenere, come le stesse fonti cristiane ammettono anche in epoca tarda, il flusso delle conversioni là dove cristiani e musulmani vivono insieme e vengono a contatto, e nello stesso tempo ad alimentare una volta di più l'orgoglio della propria superiorità spirituale.

Di qui le definizioni terribili della donna come strumento del demonio, di qui l'orrore per la vita sentimentale di Maometto, di qui l'incomprensione per una vita religiosa mistica vissuta all'interno della normale accettazione delle esigenze del corpo, di qui la mistificazione della sollecitazione, che l'Islam fa ai suoi aderenti, a condurre una sana vita coniugale, preferibile agli occhi di Dio a ogni eccesso di austerità la quale non varrebbe che a rinnegare il valore della creazione divina, e nel caso specifico del corpo umano. Di qui anche il fatto di tacere, per lo più, la gravita della colpa di adulterio per l'Islam, o il tentativo di spiegare come fatto non etico la proibizione di bere bevande inebrianti.

Ma come si traduce questa problematica a livello socio-politico? Inutile insistere sulla responsabilità che ha avuto la concezione cristiana del dolore nel far subire una realtà estremamente dura alle classi meno privilegiate. Più complesso è il riflesso di tutto ciò nel mondo islamico. La felicità come fatto da raggiungere in terra e voluto da Dio è certo uno degli elementi su cui si struttura la teoria della coesistenza delle classi nell'Islam, al di fuori della lotta di classe. D'altra parte – e in questa sede, dove trattiamo di incomprensione, è ciò che ci interessa – la propaganda cristiana in questo senso, fino ad epoca moderna, ha avuto un effetto assolutamente negativo per una presa di coscienza dei propri limiti all'interno della civiltà islamica. Troppo facile, per esempio, quella sicurezza di essere «umanisti» nel vero senso della parola, quella sicurezza di apertura alle esigenze del mondo, da cui una superiorità più o meno cosciente dei propri valori etici a discapito di un'analisi più attenta dei contrasti e delle lotte sociali.

E – fatto ancora più grave – troppo facile, nella stessa visione marxista della storia, una tendenza, alimentata anche dalla mistificazione della visione europea tradizionale dell'Islam, a voler trovare all'interno dei propri tradizionali schemi etico-religiosi la soluzione per quei problemi, sia di ordine politico in senso specifico, sia più generalmente ideologici, che possono essere affrontati solo nella piena autonomia di fronte a ogni concezione che vincoli e agganci l'analisi a una rivelazione o a una Chiesa o a un codice etico purchessia: fattori tutti eventualmente complementari, non di per sé svianti, beninteso, se non quando diventano il metro unico di giudizio della realtà storica.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07