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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


2. La guerra santa

1. Le finalità dell'Islam

Lasciamo direttamente ai musulmani, attraverso i testi che riportiamo in appendice, qualche definizione esplicita del gihād, termine arabo che indica un «dovere collettivo» della comunità islamica. La traduzione più comune di gihād è quella di «guerra santa», anche se, forse, l'espressione «guerra legale» renderebbe in maniera più coerente l'idea che il termine esprime oggi presso i musulmani. Non sono comunque le forme del gihād, o le sue condizioni di legalità, quelle che ci interessano nella sede attuale. Il problema trascende questi elementi, per porsi ben altrimenti. Una religione che postula, tra i doveri prioritari della comunità che in essa si riconosce, un qualche tipo di guerra, può considerarsi non violenta e quindi non fanatica? Lo stato che si e costituito sui principi di questa religione può presentarsi come non aggressivo e «democratico»? Ecco i limiti del nostro discorso. Scegliamo volutamente di partire dal fatto religioso per giungere a un fatto politico più generale, quando sarebbe parso probabilmente più ovvio seguire l'evoluzione storica dello stato islamico, nel suo periodo di splendore, e verificare se i connotati che ne derivavano fossero positivi o meno. Senonché l'Islam come religione non trova la sua collocazione in un ambito soggettivo, e qui sta la sua maggiore peculiarità. Anche il Giudaismo si identificava in molti suoi aspetti con Israele, ma, non essendo scopo del Giudaismo la salvezza e la felicità del genere umano, la comprensione del fenomeno Israele si poteva porre in termini storici come una tappa nell'evoluzione del monoteismo che doveva passare, per affermarsi e soprattutto per distinguersi, attraverso il concetto di popolo eletto. Tant'è vero che il Giudaismo medievale si ripresenta davanti a noi in una immagine ben più consueta, nella quale il fatto religioso riguarda il singolo, e molti degli elementi del Giudaismo biblico trovano spiegazione e collocazione in una visione mistico-gnostica che darà tra l'altro splendidi risultati di cultura.

Il fatto cultuale invece, tanto nel Giudaismo quanto nel Cristianesimo, rimane di competenza della comunità, che esprime al suo interno una categoria di persone a questo destinate. Perché l'Islam venga considerato, in ambito musulmano, un'opzione personale, bisogna arrivare alla Turchia di Atatürk, che fissa limiti tra stato e religione, e più generalmente tra sacro e profano, senza che tuttavia la Turchia odierna si presenti in ciò con caratteristiche vistosamente diverse dagli altri paesi islamici: il che fa supporre, nel migliore dei casi, un'incomprensione di fondo delle masse nei confronti della «riforma» operata dal Padre della Patria. La ragione d'esistere dell'Islam consiste esclusivamente nella realizzazione di uno stato islamico che, secondo quanto si è detto, si strutturi in un modo piuttosto che in un altro, ed esplichi così sulla terra l'ordine e il logos divino. Il culto rimane invece, in linea di principio, fatto individuale. Esso può circondarsi di una scenografia corale come nel caso del pellegrinaggio alla Mecca e della preghiera del mezzogiorno il venerdì, ma nessuna categoria di persone è destinata a presiedervi, e nessuna sanzione di tipo morale viene a colpire l'inadempiente. Se in questo c'è peccato, spetta a Dio stabilirlo, mentre la comunità può solamente fissare alcune norme comportamentali, sostitutive dei doveri cultuali del fedele, e fissare sanzioni giuridiche se l'inottemperanza ad alcune regole reca danno alla comunità, come è appunto il caso del gihād.

In che senso, ora, una visione religiosa come quella islamica si pone quale «superamento», in termini beninteso storico-evolutivi e non qualitativi, del messaggio cristiano, o più precisamente delle espressioni religiose monoteistiche? Se volessimo dare una definizione di massima del Cristianesimo, collocandoci in una posizione di osservatori imparziali e non interessati, giungeremmo a identificare l'innovazione per eccellenza nella scoperta dell'individuo. Con questa scoperta il Cristianesimo si stacca dal mondo classico, rivaluta l'uomo preso come unità, gli affida la scelta del proprio destino e lo mette a nudo, responsabilizzandolo di fronte alla divinità cui viene omologato, affidandogli un'anima che è divina, e offrendogli paradigmaticamente, come modello per eccellenza, l'Uomo-Dio.

La via all'evoluzione, verso l'uguaglianza degli uomini, è aperta. Da una tale scoperta, peraltro, l'individuo rimane soffocato nella consapevolezza dell'inadeguatezza soggettiva, che si traduce nel senso del peccato e della fragilità della carne, nella rassegnata accettazione della valle di lacrime come propria naturale patria terrena.

L'Islam accetta la lezione del Cristianesimo. Ecco come un «intellettuale» persiano del XIV secolo, mistico ma non per questo meno inserito negli affari politici del suo tempo, parla dell'uomo, descrivendo gli stadi progressivi delle realtà create, man mano che queste si allontanano dall'Essere per eccellenza: «Il sesto stadio, che è quello conclusivo, compendia gli stadi precedenti (le Essenze, gli Spiriti e le Sostanze materiali), e la realtà ultima che ne risulta è l'Uomo Perfetto». E all'Uomo, ultimo anello della catena della creazione, spetta di ripercorrere a ritroso la via per giungere all'Essere Supremo: « … Chi non sia unito con l'Amato si lamenta del distacco da Lui, affinchè chi sia impedito di giungere all'Unione sia fatto conscio del dolore e dello sconforto della separazione, e distogliendosi da ciò che vergognosamente lo ottenebra, si affretti al glorioso Ritorno».

Pur nell'assoluta perfezione religiosa di un tale messaggio, l'Individuo rimane un punto di partenza e non di arrivo per l'Islam, che, se in termini religiosi si esprime nel rifiuto dell'Uomo-Dio, respingendo Dio in una pura trascendenza, in termini ideali restituisce all'uomo la sua collocazione terrena, libera così dall'animismo classico come dal pessimismo cristiano. Inventa, se così si può dire, la socialità come luogo ideale dell'individuo per esprimersi. E in termini sociali verranno espressi doveri e diritti, sino a finalizzare in quest'ambito l'umanità tutta, la cui etica non si può esprimere più nella massima cristiana «Ama il prossimo tuo come tè stesso», ma piuttosto in un eventuale «Ama la società degli uomini e in quella te stesso».

La società degli uomini acquista così una dimensione religiosa, e a essa l'Islam tende a dare la sua legge come legge universale. È religione, quindi, ma comprende nella sua sfera specifica la prassi sociale di cui si parlava. Il che porta a una «statalità islamica», e non già a una religione di stato, come troppo approssimativamente si potrebbe dedurre.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07