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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


2. La guerra santa

2. Il concetto di dovere

Potrebbe sorgere qualche difficoltà a proposito di un'ambivalenza dei due termini, che usiamo quasi pariteticamente, di comunità e società, effettivamente da noi spesso usati per una parola araba unica (umma) che esprime in modo puntuale un tipo di società la quale si identifica e collima con la comunità dei fedeli. D'altra parte, parlando in termini più ampi di civiltà islamica, l'aderenza reciproca tra comunità e società vacilla. Nella civiltà islamica, che si è espressa in un'organizzazione sociale peculiare, la comunità dei fedeli è solo la componente maggioritaria, accanto alla quale parecchie minoranze, esterne all'Islam o interne ad esso (è il caso di movimenti ereticali, che hanno dato luogo a forme di aggregazione sociale atipiche), sono fatto non secondario. Sia nella produzione culturale sia nei rapporti con altre civiltà, tali minoranze rientrano di pieno diritto nella definizione di società islamica, per adesione a quelli che sono gli elementi distintivi, ideologici, di base, di tale civiltà. Ora il concetto di «dovere» viene qui analizzato e applicato all'umma, non già quindi genericamente al mondo islamico. Si potrebbe anche dire che la politica internazionale dell'Islam prevede tale distinzione. In particolare, per quanto riguarda il dovere del gihād, significa porsi il problema se esso sia applicabile anche nell'umma o soltanto all'esterno del mondo islamico. La guerra santa è dovere della comunità, la quale, come si è detto, ha come scopo principale della sua esistenza la trasformazione progressiva del mondo in società islamica, quindi l'esportazione della civiltà islamica. All'interno dell'umma, il singolo è tenuto genericamente a compiere tale dovere, nelle forme che il sovrano gli vorrà indicare, quando se ne presenti l'opportunità, e ove la sua situazione soggettiva glielo consenta: tanto per dare un esempio, il guerriero votato alla guerra santa deve avere il consenso dei genitori. La mobilitazione generale non è cosa che l'umma consideri necessaria. Sufficiente è invece che, in una sua qualche espressione, lo spirito informatore del concetto di guerra santa, in vista dell'espansione della società islamica, rimanga vivo. È una mobilitazione indotta. È susseguente prima di tutto alle sollecitazioni esterne, che rendano indispensabile una presa di posizione, difensiva nella sostanza, di attacco nella teoria per aderenza al principio, implicito in una teorizzazione di guerra santa, per cui un musulmano non può avere altro che un sovrano e uno stato musulmano che quegli diriga. È evidente che, nella pur negativa applicazione che se ne può fare e che se ne è fatta in epoca recente, è il gihād che esprime per le masse la necessità di difendere il proprio territorio nazionale. Chiamarlo guerra santa induce chi è estraneo ai termini del problema a considerare un tale richiamo come ennesima espressione di fanatismo nei confronti di chi musulmano non è, tanto da tentare di equiparare le motivazioni di fondo al solito spirito di crociata, ben noto all'Occidente. In verità, dare al gihād anche solo il suo significato effettivo di guerra legale smussa di molto quel sapore estremistico. Naturale è anche l'utilizzazione reazionaria del termine che sovrani o governi non progressisti del mondo islamico possono avere fatto o fare. Essendo di loro esclusiva competenza il dichiarare in una data situazione la legalità della guerra per la comunità islamica, e quindi il richiamare i singoli componenti che abbiano i requisiti necessari all'adempimento del precetto di legge, la strumentalizzazione del termine stesso è un fatto tu'tt'altro che implausibile. Anche il richiamo, che a noi suona di stampo imperialistico, a una guerra di attacco piuttosto che di difesa – pur nell'assoluta evidenza dei fatti oggettivi, ammessi i quali il gihād, come sempre in epoca recente, è guerra di difesa nazionale – esprime un dovere che la civiltà occidentale non accetta nel suo codice etico, pur teorizzando essa ampiamente le proprie funzioni coloniali.

A parte la difficoltà di comprensione delle forme espressive che il mondo islamico adopera a uso interno, l'elemento fondamentale resta, in questo caso, la mancanza di una visione globale alternativa a quella islamica per un settore del mondo che a fatica, e in mezzo a contraddizioni di ogni genere, cerca una sua via moderna e nello stesso tempo coerente con la propria tradizione per creare forme statuali e sociali più aderenti alla nuova realtà storica. In linea di massima questo sforzo si sintetizza, insieme al suo limite oggettivo e alla sua volontà di autonomia, nella teoria del socialismo islamico, all'interno del quale rimane pur vero che il linguaggio islamico, per forza di cose, ha diritto di esistenza in larga misura, anche quando non esprime più la realtà dei fatti. D'altra parte, tale problema è direttamente collegato con un principio basilare dell'Islam e di per sé progressivo e storicista, quello secondo cui, se nel Corano esiste la realtà nel suo complesso, nel suo momento storico e nel suo divenire, l'esplicitazione di tale realtà in analisi e in norme legali e etiche è dovere dell'umma attraverso i suoi «intellettuali» e il suo sovrano, entrambi confortati nella loro opera di adeguamento storico dal consenso della comunità stessa, espresso – a seconda dei casi e delle epoche – in forme più o meno democratiche, ma pur sempre teorizzato. Un tale principio, se di per sé avvia il processo di storicizzazione di tutto quanto concerne la sfera umana, cioè la sfera della creazione, fermo restando il valore assoluto della trascendenza divina e della rivelazione, è invece d'impedimento a superare quegli schemi e quei condizionamenti mentali che l'occidentale distinzione tra laico e religioso ha già operato da tempo nonostante il prezzo della frattura a livello psicologico cui si accennava.

Si è parlato di «mobilitazione indotta». Un altro elemento che la provoca, in epoca moderna, è la coscienza acquisita, non certo spontanea nella mentalità islamica, di essere, come civiltà islamica, un fatto «orientale», locale, indigeno, intendendosi con questo un fatto «non coloniale». Nasce così un secondo stimolo a un gihād inteso in senso missionario, come il Corano ripetutamente sottolinea. Ma, mentre nella storia delle conquiste arabe e dell'espansionismo islamico in epoca pre-coloniale, il fine dello stato islamico era sempre esplicitato e messo in evidenza, in questo caso si intende invece una penetrazione culturale attraverso i canali religiosi; una penetrazione molto più simile a quella delle missioni cristiane in Africa e in Asia che non al gihād condotto in Siria o in Persia nei primi decenni dell'egira e che ha avuto come conseguenza secondaria l'islamizzazione delle popolazioni di quei paesi. Se ci è permesso usare espressioni un po' paradossali, diremmo che questo gihād moderno è affidato all'iniziativa privata, e che come tale porta con sé una rete di interessi ben più ambigua, in campo economico e anche ideologico (si parla dell'Africa Nera e dell'organizzazione missionaria dei Fratelli Musulmani per esempio), il cui carattere espansionistico risulta, data la conformità agli schemi occidentali, molto meno scandaloso agli occhi dell'Europa. In questo caso, infatti, il problema della statalità islamica non si pone affatto, anzi l'Islam diventa oggettivamente linfa di qualsiasi spinta nazionalistica e antimperialistica dei paesi o delle popolazioni che lo accettano: si ripete cioè il rapporto che c'è stato tra colonizzatore e colonizzato, dove quest'ultimo ha imparato la lezione nazionale o modernista dal primo, secondo una dinamica che può anche apparire vantaggiosa per il colonizzato. Ciò comporta naturalmente sia la concezione della supremazia della propria cultura rispetto a quella dell'altro, sia la sicurezza che le proprie forme sociali siano le uniche valide, e non solo funzionalmente alla società tecnica moderna – fatto anch'esso discutibile di per sé ma comunque in gran parte accettato – ma in termini più assoluti, esprimentisi soprattutto nella sovrastruttura culturale e ideologica che si tende automaticamente a esportare. Ogni lezione appresa comporta come conseguenza una forma corrispondente di alienazione dalla propria tradizione culturale e ideologica che genera e alimenta le contraddizioni tra linguaggio usato, rivendicazione del proprio passato e realtà dei fatti esemplificati poco sopra.

Questo tipo di gihād non fornisce naturalmente nessun elemento di giudizio in relazione al nostro problema di fondo, la possibilità di un non imperialismo di stato nonostante la teorizzazione della guerra santa e la concezione del dovere che spinge il singolo individuo a soddisfare una sua esigenza etica nell'appello al gihād.

Non si può non tornare alla posizione del credente di fronte a Dio da una parte e di fronte alla comunità in cui si riconosce dall'altra. Il Corano dice esplicitamente che Dio preferisce «quelli che combattono sulla via di Dio, dando i beni e la vita» (Cor., IV, 95) a «quelli che se ne restano a casa (eccetto i malati)», e il paradiso islamico prevede una posizione di privilegio per il combattente martire. Scontato è quindi l'impulso religioso a sacrificarsi per la propria salvezza, e niente affatto tipico e peculiare rispetto ad altre religioni. Più stimolante la relazione del singolo con i suoi simili. Non a caso della guerra santa si sono occupati anche i filosofi (Averroè, Farabi) in ambito non religioso, ma di teorizzazione dell'utopia. La sua funzione va quindi analizzata e capita all'interno della struttura dello stato islamico. In questo senso entra in campo il concetto del dovere del suddito musulmano che individualmente partecipa dello stato, e non solo dell'umma, attraverso una tale funzione. Però, nello stato, egli riceve la sua individuazione come appartenente alla maggioranza, cioè all'umma, che si esplica all'esterno e si convalida nei confronti della minoranza, e si responsabilizza in proprio, dando in questo modo qualche forma di consenso al capo che ha diritto a proclamare la guerra santa, acquisendo contemporaneamente una sua posizione nella struttura che gestisce il potere, e una coscienza, anche se di tipo particolare, della propria collocazione socio-politico-religiosa. In questo sta la peculiarità della concezione del dovere del gihād rispetto ad altri atti cultuali o sociali, richiesti al credente per far parte dell'umma. Il gihād funziona insomma come un'istituzione che, nella società e più in generale nello stato, acquisisce il cittadino alla sua gestione, e lo incarica in prima persona di un compito considerato fondamentale per la sopravvivenza stessa dello stato, mediando nello stesso tempo la richiesta che gli viene fatta come esplicazione collettiva di un dovere nei confronti delle proprie finalità religiose. In altri termini, il credente che combatte la guerra santa è a posto con Dio – ed è ovvio – ma è a posto anche con la comunità che assolve per suo tramite un dovere precipuo, ed è in consonanza con lo stato che lo dirige, perché tocca a lui riconoscerne le direttive ed esser grato ad esso dell'occasione che quello gli offre di auto-rappresentarsi al suo interno. In qualche modo, la partecipazione attiva delle masse che l'Occidente concepisce attraverso la delega, nell'Islam viene rappresentata dal gihād.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07