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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


2. La guerra santa

3. La formulazione dello strumento

II primo punto da chiarire è evidentemente quello della struttura dell'esercito a cui viene affidato il gihād, e che deve avere alcune caratteristiche sue proprie. Una di queste è la composizione islamica dello stesso, il che potrebbe equipararlo, in qualche modo, all'esercito crociato, tenuto conto di un altro fatto similare e cioè dell'eventuale non omogeneità etnica dei combattenti per la fede. La differenza sta alla base, in quanto l'esercito del gihād è per eccellenza l'esercito dello stato islamico, il cui condottiero è il sovrano riconosciuto e le cui conquiste significheranno estensione dello stato e non creazione di filiazioni del medesimo. Storicamente, le prime ondate beduine alla conquista del cosiddetto Crescente Fertile costituiscono il prototipo dell'esercito giusto. Proprio questo esempio ci conforta nell'interpretazione data al gihād nel suo aspetto sociale e individuale. I beduini rompono la struttura tribale e si riconoscono nell'umma anche attraverso la conquista, fatto comune a tutte le società in espansione quando si opera nel loro interno un salto qualitativo. Lo strumento sembra congeniale alla mentalità arabo-beduina, perché spesso la conquista si presenta sotto l'aspetto normale della razzia. Là dove il salto diventa esplicito è nella finalità a cui lo strumento è consacrato, finalità che non è rappresentata né dalla razzia né da una conquista intesa come pura riaffermazione religiosa (slogan per eccellenza della crociata) o come «colonizzazione». Forse l'idea di una Pax Romana, nell'accettazione, nominale almeno, delle peculiarità dei diversi paesi amministrati, si avvicina di più a questo tipo di conquista che non un Sacro Romano Impero pur da noi già richiamato come termine di paragone, perché, in concreto, la difformità iniziale dei territori conquistati è molto più simile a quella dell'impero romano che non all'omogeneità dell'Europa medievale.

L'esercito del gihād non è poi un fatto stabile. Un esercito che compia la missione del gihād è sempre teoricamente postulato da qualche parte dello stato islamico, ma la convocazione del medesimo viene decisa e accolta dietro la pressione di spinte oggettive, evidenti e puntuali, non soltanto dietro la latente seppur ammissibile volontà di espansione.

Chi assolve dunque alla funzione di mantenere l'ordine interno e di garantire l'incolumità al sovrano non è l'esercito del gihād, cioè non è quello dello stato islamico in quanto tale. Una serie di contraddizioni, che i modernisti islamici hanno colto nella storia araba in particolare, vengono chiarite da una distinzione teorica come quella che stiamo formulando. La struttura interna dello stato può benissimo assumere nei confronti dei sudditi l'aspetto repressivo e intimidatorio di un qualsiasi regime non democratico nel senso etimologico del termine. Lo strumento oppressivo rispecchia in questo caso un governo autoritario, e il miglior esempio è quello del sultanato ottomano che ha i suoi pretoriani nei giannizzeri, ma il giudizio su questo punto non è automaticamente da estendere all'altra forma di organizzazione militare a cui è legato il gihād. Trasportato nella società araba attuale, il tutto si pone in termini ancora più precisi, anche se ammettere la cosa è difficile per un musulmano che voglia mostrarsi all'Occidente moderno e libero dai condizionamenti della propria religione.

L'esercito su basi moderne, cioè simili a quelle europee, nasce prima nell'impero ottomano e in Persia, poi in Egittto, seguito da altri paesi in contrasto con Costantinopoli, mentre il fatto coloniale facilita la conclusione di un processo di modernizzazione delle sue strutture. Che un tale esercito, inserito in una società politicamente tuttora ancorata a schemi di aggregazione sociale solo nominalmente superati, abbia ancora la funzione tradizionale di appoggio al leader di turno, è fatto anche troppo documentato per insistervi ulteriormente. Ma è altrettanto vero che in una lotta di liberazione nazionale il concetto di esercito a cui fare riferimento a livello di massa è pur sempre quello che si rifà ai canoni del gihād, l'unico a offrire reale rapporto con le masse e comprensione dei fini, e quello la cui base rappresenta, per definizione, tutte le componenti dell'umma, e ignora la stratificazione di classe precostituita che invece si dà, naturalmente, nei moderni eserciti del mondo arabo. Bisognerà attendere l'evoluzione che porterà con sé l'ultimo scontro tra mondo arabo e Israele, in particolare in Siria e in Egitto, per aggiornare la nostra analisi su questo punto specifico. Infatti, per la prima volta nella storia contemporanea del Vicino Oriente, si è prodotta stavolta una sutura tra elemento tecnicistico ed estraneo alla massa (esercito moderno) e gli slogan nazionalistici, in qualche. misura espressi con terminologia religioso-islamica (concetto a esempio di fidā’ī, votato al martirio come equivalente di «partigiano») che la massa può fare suoi. Un tale fatto potrebbe portare con sé una revisione, in campo politico e ideologico, di schemi spesso accettati dagli ambienti più o meno occidentalizzati che si pongono come classe dirigente, e mal recepiti o estranei alle masse che passivamente ne subiscono effetti in cui non trovano elementi per riconoscersi.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07