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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


2. La guerra santa

4. I rapporti internazionali

Abbiamo detto che i fondamenti della politica internazionale islamica passano attraverso la concezione della guerra legale. Insistiamo sull'aggettivo «islamico», perché ci poniamo ovviamente in una prospettiva di lettura storica del passato dell'Islam. Attualmente, anche se la civiltà islamica non è superata e una cultura islamica, pur con i suoi aspetti anacronistici, è tuttora vissuta da larghi strati di popolazioni musulmane, i problemi internazionali del Pakistan o dell'Iran sono individuati dai singoli stati secondo la loro ottica nazionale. Anche il mondo arabo, che pure può sotto certi aspetti essere considerato una realtà globale, non fa eccezione a questa regola. La distinzione tra iracheno e algerino, ignota allo spirito dell'Islam, ha nel mondo moderno non solo una sua precisa ragion d'essere, ma una funzione che va al di là dell'equivalente acquisizione risorgimentale italiana, tanto per dare un esempio. Una possibile rottura, in senso progressista e non di alienazione, con il proprio passato non può che articolarsi secondo direttive nazionali, particolari, realisticamente legate a contesti specifici. Il che non esclude, proprio nella storia moderna del mondo islamico, il richiamo, spesso fortemente sentito dalle popolazioni interessate, a concetti universalistici, presentati formalmente come retaggio islamico. Intendiamo i vari movimenti panislamici o panarabi. L'equivoco tra internazionalismo nel senso progressista del termine e ecumenismo religioso-culturale va a tutto beneficio di un'interpretazione limitativa e reazionaria nella realtà dei fatti. Il recupero della propria cultura, o il rifiuto di negarla, non stanno nel riproporre o meno un califfato sia pure di tipo nuovo, quale potrebbe essere la supervisione degli sceriffi della Mecca sul mondo arabo, in una funzione coordinatrice eventualmente accettata a causa del prestigio religioso di quelli. Un tale coordinamento non si pone affatto nello spirito di guida illuminata e di garante di una legge canonica di fatto non più operante nei paesi che dovrebbero riconoscerne la superiorità ideale. Esso avrebbe il ben noto ruolo di supremazia politica, legata a un blocco piuttosto che a un altro, fautrice di certi interessi a favore di un ben determinato schieramento ideologico. Lo stato islamico è di fatto caduto, e con esso qualsiasi possibilità di ritorni nostalgici.

Quello che rimane anche attualmente di islamico è, come si diceva, un linguaggio religioso nella sostanza. Ed è fenomeno possibile in modo particolare nell'ambito islamico, vista la simbiosi innata nell'Islam tra fatto religioso e fatto sociale. È lo spessore storico che alcune forme di organizzazione o di lotta presentano per le masse ad esse interessate. E intendiamo con spessore storico non solo un qualche troppo superficiale riferimento a Saladino, per esempio, riconquistatore di Gerusalemme, curdo e non arabo, campione della più squisita ortodossia, «cavaliere antico» secondo i nostri schemi umanistici, e grande guerriero. Intendiamo più precisamente quella serie di riferimenti che ogni civiltà ha alle sue spalle e che si concretizzano in un codice etico di cui si perde la nozione culturale e che resta invece operante a livello inconscio. Questo vale evidentemente anche per la politica internazionale che gli stati arabi vanno conducendo, come sustrato etico-comportamentale attraverso cui si struttura il meccanismo del giudizio, positivo o negativo, a proposito dei fatti contingenti che il politico affronta in ogni campo.

Per tornare al nostro punto di riferimento, cioè alla prassi «internazionale» adottata dall'Islam nel corso dei secoli, dobbiamo dire che questo è un po' l'oggetto per eccellenza del nostro discorso. Un'eventuale affermazione di aggressività a carico dell'Islam non può che confrontarsi con le prove documentate. Ma anche qui è necessaria una precisazione. Una frantumazione effettiva del corpo dell'impero islamico si è prodotta ben presto nella storia. In pratica, dalla predicazione di Maometto fino al momento del primo reale sfaldamento passano circa tre secoli. Entità autonome o semiautonome si formano quindi subito, di preferenza alla periferia dell'impero. Eppure continua, secondo noi, a essere legittima un'espressione come quella di stato islamico, e lungo un arco di tempo ben più dilatato. Non è solo una questione formale di nominale riconoscimento dell'autorità califfale, o di un più oggettivo consolidamento delle forze interne sotto un'amministrazione straniera come potrebbe essere quella mongola. Si tratta invece della centralizzazione delle direttive in tema di «politica internazionale», valida anche per le entità di fatto autonome dal potere centrale. È vero che i sovrani della Persia orientale conducevano in proprio una loro guerra contro le popolazionidella Transoxiana, o che gli scontri tra una provincia e l'altra dell'impero non erano un fatto infrequente. Però la possibilità di dichiarare il gihād e di condurre una guerra che portasse a una modificazione effettiva dei confini dello stato islamico rimase a lungo di competenza del potere centrale. Gli «intellettuali» – intendo con questo termine i dotti in questioni giuridiche e nella legge canonica, ai quali spettava un potere decisionale nello stabilire se le condizioni oggettive per la legalità della guerra fossero o meno assicurate – erano pur sempre legati al potere centrale, e non potevano ipoteticamente organizzarsi in forme autonome regionali e risolvere una questione come quella della guerra santa in un'istanza decentrata. Quando il mondo islamico rinuncerà alla sua fittizia unità, e troveremo (XVI secolo) da una parte l'Impero Ottomano, dall'altra la Persia safavide, entrambi gli stati si riorganizzeranno sotto questo aspetto a simiglianza dell'epoca califfale. Ma quando, ancora, la prima penetrazione economica europea assumerà proporzioni piuttosto vistose a cavallo tra XVIII e XIX secolo, i due stati, nemici da sempre e in stato di endemico gihād l'uno rispetto all'altro con il pretesto dell'eterodossia persiana, convocheranno i propri dotti e solleciteranno una sentenza che impedisca tale gihād, assimilando l'eresia sciita a una diversa scuola giuridica, analoga alle molteplici da sempre ammesse in materia legale e cultuale, e dando al singolo piena libertà di scelta nel far riferimento a una piuttosto che a un'altra. E il gihād rimarrà precetto canonico nei confronti dell'Europa.

Analizziamo soltanto la componente meno intuibile della politica internazionale come la tradizione islamica l'ha codificata, e cioè la possibilità della convivenza. Questo può sembrare un paradosso, data l'esplicita teorizzazione della guerra santa: la contraddizione tra necessaria conquista del mondo per instaurarvi lo stato islamico e sopravvivenza di altri stati può sembrare insormontabile. L'Islam la supera storicisticamente: una guerra santa non è un'aggressione; il nemico deve essere avvertito, e in particolare gli si devono offrire serie garanzie nel caso in cui voglia convertirsi all'Islam (rispetto, incolumità e autonomia). La richiesta di un nominale riconoscimento dell'autorità del califfo come fatto politico-religioso, equivalente in pratica all'ammissione, da parte del nemico, della validità della concezione islamica e quindi dello stato islamico, è un Leitmotiv dei rapporti tra mondo islamico e impero bizantino. Non si vuoi certo idealizzare un anche troppo smentito disinteresse, da parte musulmana, ad aumentare le proprie entrate ottenendo nuovi sudditi tenuti a pagarle. Ma questo principio rimane valido in senso generale nelle regole comportamentali dei sovrani islamici, anche quando l'autorità califfale sarà ricordo del passato. La conquista islamica del mondo si pone perciò in costante adeguamento dei metodi necessari ad acquisire gli altri alla propria ideologia, e tra i metodi riconosciuti c'è anche – il paradosso è qui superato – l'ammissione di un'entità diversa, purché non antitetica, nel senso di ostile, aggressiva, pericolosa per la comunità islamica (comunità in questo caso piuttosto che stato islamico).

Riportandoci alla storia vicino-orientale più prossima a noi, il problema del mondo islamico non è stato quello della necessaria rassegnazione al fallimento della propria concezione ecumenica: questa poteva trovare altre forme per esprimersi o per giungere a esprimere, nello spirito, l'unità del mondo sotto l'unico sovrano legittimo cioè Dio. Non è stato il problema di interiorizzare un'esigenza che deve avere comunque per l'Islam uno sbocco operativo e concreto: interiorizzazione che è la soluzione di tipo cristiano al problema ecumenico che anche il Cristianesimo aveva di fronte. La convivenza era un fatto acquisito, non un elemento di rassegnazione. La sconfìtta a Poitiers non è l'inizio di un processo di frustrazione che continuerà nei secoli, e non è neppure la fissazione del confine tra i due blocchi come, temporaneamente, concederà l'Europa all'impero ottomano all'indomani della vittoria di Lepanto. Poitiers come Lepanto sono contemporaneamente un fatto politico, una sconfitta cioè, e uno scontato riconoscimento di quello che inizialmente abbiamo chiamato «il diverso da sé», con il diritto a vivere e a esprimersi che ad esso compete, pur nella volontà di sussumerlo nella propria realtà integrandolo in essa, sempre come diverso, ma interno e non esterno al proprio sistema. Lo scandalo, se così si può chiamare, che il mondo islamico subirà, non è legato quindi a una rinuncia a un integralismo sempre valido come aspirazione ideale. È anche in questo caso il fatto coloniale a essere scandaloso. La dominazione ottomana sul mondo arabo era anch'essa straniera e oppressiva, eppure non venne sentita come elemento alienante se non dopo la lezione coloniale, quando le esigenze nazionali diventarono ben più impellenti di un pur sempre ricorrente universalismo islamico.

Per la prima volta il mondo islamico, che pure aveva visto nel suo interno sovrani «infedeli» (è il caso dei mongoli, già citato), si sentì negato come tale, sentì rifiutarsi ogni mezzo di espressione e, per ricollegarci alle nostre osservazioni iniziali, sentì la costrizione e l'oppressione, prima ancora che sui fatti economico-politici, sui fatti sovrastrutturali. Così incomincia un nuovo ciclo di teorizzazione dei principi islamici che devono costituire l'asse portante di una società islamica giusta e moderna: teorizzazione che darà origine al modernismo islamico, la cui storia è strettamente legata alla storia politica del mondo islamico di quest'ultimo secolo, dal Maghreb fino al Pakistan e parzialmente all'Indonesia. Il codice etico, bagaglio culturale della propria civiltà, viene in qualche modo, nelle linee generali, esplicitato e adattato alle nuove esigenze, e trasformato in teoria globale. Il che, data la spinta di partenza per tale operazione, non può che causare la perdita di quegli elementi storicistici che erano stati la valvola di sicurezza della concezione islamica classica del mondo, a favore di un banale allineamento ai movimenti nazionalistici di cui l'Europa ottocentesca è stata maestra.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07