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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


3. Moderazione e fanatismo in seno alla comunità islamica

1. La definizione dei termini

Dice il Corano: «Dolce è Iddio con i Suoi servi; dona la Sua provvidenza a chi vuole, ed Egli è il Forte, il Possente. Chi desidera il campo arato dell'Altra vita, glie ne daremo, in abbondanza, e chi desidera il campo arato del mondo, glie ne daremo, ma dell'altro non ne avrà parte alcuna» (XLII, 19-20). L'attributo di Dio che il traduttore rende con «dolce», e che in altri contesti coranici suoi essere espresso con «indulgente», rappresenta in sintesi un concetto che possiamo chiamare di moderazione. Come sempre nell'Islam, la funzione è attribuita dapprima a Dio, che la rappresenta al suo livello massimo, quindi, mediamente e sul piano a questi congeniale, viene affidata all'uomo, o per meglio dire alla comunità dei fedeli. Una «dolce indulgenza» comporta per la comunità la moderazione nelle proprie espressioni, della quale ci vogliamo qui occupare. Moderazione si può chiamare l'atteggiamento psicologico che l'Islam determina nei suoi aderenti, in quella particolare presa di coscienza dei propri limiti che spinge l'uomo a occuparsi della terra senza le frustrazioni derivanti dal porsi l'irraggiungibile ideale dell'Uomo-Dio. L'abbiamo già detto. Ma moderazione è anche il realismo politico dei primi tempi dell'Islam, o di alcuni atteggiamenti politici dell'attuale schieramento arabo nei confronti della «questione mediorientale»: schieramento che vede in prima fila gli Arabi di Palestina, depositari da lunghi secoli della formula di convivenza anch'essa già segnalata. Ci si può obiettare che tale fatto non concerne direttamente una trattazione dedicata a una problematica islamica. Vista la peculiarità dell'Islam, ma vista soprattutto la difficoltà di districare, nell'attuale atteggiamento socio-politico arabo, le linee che si rifanno più o meno consciamente a un passato islamico, e differenziando quanto, in tale tematica, è mutuato dall'Occidente, uno dei metri di giudizio più validi ci sembra quello di riconoscere a posteriori certe costanti in consonanza con la tradizione islamica, senza avere la pretesa di sostenere che la motivazione di fondo di certe scelte attuali si configuri analoga a quanto era valido nel passato. In questo caso saremmo in pieno tradizionalismo, e in una mera imitazione del passato; saremmo cioè di fronte proprio a quei limiti che il mondo arabo attuale intende superare, e che l'avanguardia intellettuale islamica, in termini più o meno corretti, ha voluto rimettere in discussione a partire dalla fine del secolo scorso. Si tratta di quel complesso movimento culturale, religioso e, entro certi limiti, politico, che è il modernismo islamico, e che non è ancora del tutto superato, ne concluso. Che le motivazioni siano diverse, ed espresse diversamente che nel passato, è garanzia di realismo politico, cioè di oggettiva moderazione; e qui, secondo noi, entra in gioco quel codice etico che è islamico nei suoi presupposti e che è patrimonio delle masse nella misura in cui il comportamento di queste ultime si può ad esso riallacciare e nella misura in cui tale comportamento rimarrebbe inspiegabile se non si facesse puntuale riferimento proprio allo spirito che quella concezione etica qualifica.

Però c'è anche una moderazione che interviene nell'individuo, che funziona all'interno dell'io: moderazione anch'essa condizionata, legata a quanto si è detto, non libera scelta di atteggiamento di fronte alla realtà. È questa particolare moderazione che determina il tipo di rapporto che si instaura in seno a una comunità tra i singoli ad essa aderenti.

A questa moderazione, alla dolce indulgenza che a imitazione di Dio il musulmano deve avere (o non ha) nei confronti dei suoi simili, cioè degli altri musulmani, è legato il problema del fanatismo. Di un fanatismo esterno al mondo islamico, un poco si è detto paragonando quest'ultimo all'Europa. Di un fanatismo interno allo stato islamico, entità composita nella quale a pieno diritto rientrano presenze istituzionalizzate che musulmane non sono, si è anche parlato. Rimane invece da vedere proprio la dinamica interna della comunità islamica, di quell'umma che è società e comunità religiosa nel contempo. Sarebbe come dire che, dell'Europa che si presenta nel Medioevo o in epoca coloniale come un complesso omogeneo rispetto alla «politica esterna» che conduce globalmente, si volessero poi evidenziare le diversità interne, polarizzando il discorso, nel paragone che stiamo conducendo, sui comportamenti delle varie comunità cristiane e poi ancora sull'atteggiamento reciproco dei correligionari nel loro vivere sociale. Non vorremmo infatti che, parlandone in termini troppo specifici, il problema del fanatismo interno all'Islam venisse considerato problema islamico e non già punto dolente di qualsiasi società, e in particolare di ogni società religiosa, per quanto ecumenico possa presentarsi il suo credo. Il termine «fanatismo» non esiste nel Corano. Un tale concetto, così come noi lo intendiamo, non compare neppure nella storia classica dell'Islam. La fede cieca di cui tanto si parla in Europa a proposito del mondo musulmano è fatto ben diverso da quello che porta con sé un'Inquisizione o, per essere più aderenti al fatto squisitamente religioso, a una ricerca del martirio come personale innalzamento dello spirito. Se Islam è cosciente e volontario abbandono alla volontà divina, questo significa che la volontà di Dio non è subita, ma attivamente accolta in senso tutt'altro che fatalistico. Il valore del martirio che può essere sbocco individuale della guerra santa non è omologabile al senso del martirio cristiano dei primi secoli. Il martire combattente testimonia la sua fede a Dio, non alla massa degli infedeli. La sua morte gli è di vantaggio individuale, visto che il paradiso gli è garantito, non comporta un beneficio missionario per la comunità. La comunità, attraverso il sacrificio del martire, viene sollevata dall'adempimento di un dovere, e il suo potenziale religioso non ne viene automaticamente rafforzato.

La fede cieca è quindi assoluta fede su un punto che abbiamo più volte ricordato, il monoteismo trascendente più puro. Il singolo non viene impegnato fideisticamente su nient'altro, in termini così rigidi.

Che cos'è dunque il fanatismo nella storia dell'Islam? I teologi lo esprimono con un concetto a noi molto estraneo, quello dell'«esagerazione». L'elemento di esagerazione, in un qualsiasi contesto religioso, diventa sinonimo di fanatismo, cioè di deterioramento di una giusta posizione nei confronti di Dio e della comunità. Nell'esagerazione, la comunità si sente attaccata e trascinata nel pericolo. Tale condizione viene definita sia per quanto riguarda l'atteggiamento religioso personale (caso per eccellenza quello dei mistici), sia per quanto comporta un'organizzazione difforme all'interno della comunità, vedi l'eresia come fatto paradigmatico in questo senso. Moderazione e fanatismo vengono a esprimere, con segno positivo e con segno negativo, l'atteggiamento religioso: del musulmano, e per estensione il metro di giudizio della comunità dei fedeli per accettare o espellere, per dare garanzia o tenere sotto controllo i suoi membri.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07