Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright

Didattica > Strumenti > Tolleranza e guerra santa nell'Islam > 3, 2

Strumenti

Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


3. Moderazione e fanatismo in seno alla comunità islamica

2. Il giusto cammino verso la perfezione

Abbiamo detto che nell'Islam la salvezza è fatto di competenza della comunità. La legge canonica, fissata attraverso la rivelazione e l'esegesi dei dotti, esplicita il cammino da seguire e garantisce, nei limiti di ognuno, la possibilità di metterla in pratica. La perfezione spirituale, il viaggio individuale dell'anima verso Dio, rimane, come è naturale, puro oggetto di sperimentazione individuale. L'Islam è stato troppo spesso rappresentato come religione legalitaria, che ha soffocato, o quanto meno non favorito, una vita spirituale che fosse ricca di stimoli e aprisse a esperienze nuove la ricerca dell'uomo. Nel suo aspetto religioso, in senso limitativo rispetto alla pluralità di valenze che esprime, l'Islam non differisce dalle altre religioni e da quelle monoteistiche in particolare. Siccome si è parlato anche di un'evoluzione storica interna al monoteismo, si può anzi affermare che l'Islam non conosce quella certa rigidezza cultuale-liturgica, che si trasformava in legge inoppugnabile, propria del Giudaismo antico-testamentario. Nessun fatto esterno può mettere in dubbio l'affermata fede del musulmano, foss'anche bere vino o mangiare cibi proibiti. Né la ricca produzione letteraria a tema religioso può permettere di misconoscere come l'interiorizzazione del fenomeno religioso, operata dal Cristianesimo, sia stata recepita dal credente musulmano. Il problema si pone in altri termini. Mentre il Vangelo assume agli occhi del cristiano, ma anche dell'occidentale areligioso (non del musulmano), l'aspetto di un libro religioso, nel senso che nei Vangeli si vede esposta una tematica che riguarda la vita dell'anima e i problemi dell'Oltre, il Corano fa a chi lo legge l'impressione di un testo normativo. Il primo ostacolo da superare è evidentemente l'esclusività del concetto di religione, come l'Occidente lo ha inteso, come il Cristianesimo lo ha indicato, pur nella temporalità della sua politica, in un fatto intimistico-individuale. Ma accanto a ciò funziona un pregiudizio ben più radicato e mistificatore, lo scetticismo circa la vera «spiritualità» di Maometto, la negazione della sua «religiosità» e, in particolare, della sua visione mistica della vita e della spinta verso l'Oltre che ne derivava. Se il Corano viene accettato come espressione del'iter religioso di un'anima, non solo le parti più escatologiche e profetiche, in senso tradizionale, del testo sacro, suonano religiose, ma anche quanto si traduce in analisi di fatti specifici o in precetto da eseguire. Anzi, proprio là dove il precetto è esplicato, la religiosità del profeta si trasforma in quel fatto sociale che è superamento del passato, cioè della considerazione soggettiva della situazione religiosa del singolo. Ma qui interviene l'altra difficoltà, a considerare «religioso» e «legalitario» come termini non antitetici. Il fatto è che la speculazione teologica si serve nell'Islam, per definire il proprio credo, del dato che noi consideriamo legale, mentre nel Cristianesimo essa conduce al dogma e al mistero.

Gli storici dell'Islam hanno spesso affermato che l'Islam ha perseguitato i suoi mistici, inaccettabili vista la struttura legalitaria che quella comunità si era data. Hanno anche affermato che il sorgere di un'esigenza mistica è in quel mondo conseguenza di un incontro con altre culture (cristiana o indiana) che hanno introdotto lo stimolo della ricerca individuale di Dio. Il problema degli influssi reciproci tra varie culture che vengono a contatto, o dello spontaneo sviluppo di fenomeni simili e paralleli, non rientra nell'ambito di questa trattazione. Parlare di acculturazione e di formazione di una civiltà islamica, costituita da componenti non necessariamente tutte «musulmane», sembra dare sufficiente spazio alla considerazione dell'apporto all'Islam di altre culture e di altre religioni. Ma il fatto stesso di definire mistica l'esperienza di Maometto, o di negarla come tale, rende implicitamente alquanto difficile sostenere che l'esigenza mistica non nasce con l'Islam, bensì deve attendere di esservi importata dall'esterno. In quale senso allora si può parlare di una persecuzione dell'Islam ortodosso nei confronti della mistica? Qui rientriamo nel tema della moderazione o del fanatismo. Rari sono gli esempi di processi veri e propri a carico di mistici. Ma qualcuno si è pur dato. La caratteristica che accomuna i casi di persecuzione è chiaramente individuabile: l'affermazione che una data via spirituale, intuita dal mistico, viene da questi propugnata come la via per eccellenza alla salvezza. In pratica si tratta di trasporre l'esperienza del singolo in termini validi per l'intera comunità. Nel qual caso l'alternativa alla legge canonica è teorizzata come uno dei mezzi più atti a raggiungere uno stadio avanzato nella via proposta. Si opera un passaggio logico tra idea di via alla perfezione ammissibile e compatibile con la legge in quanto fatto personale, e idea di via alla salvezza come fatto di competenza sociale e regola generale. È a questo punto che scatta la molla della repressione. Si può parlare di una spinta consapevole alla ribellione nei confronti dell'ordine costituito? È quanto sostengono molti musulmani persiani nostri contemporanei, che superano, definendosi mistici, l'anacronismo evidentemente da loro colto di una concezione religiosa là dove si afferma di appartenere alla civiltà, delle macchine.

Per il mistico, la legge esistente ed esplicita non conta; la sua vita spirituale prevarica la contingenza quotidiana, all'interno della quale le regole «moderne» sono le uniche valide. Inutile dire che attraverso tale atteggiamento non pochi elementi nazionalistici possono trovare una loro motivazione: primo fra tutti, nel caso citato, quello di considerarsi depositari fin dall'inizio di un potenziale di modernizzazione e di opposizione all'ordine canonico, non su altro fondato che sull'appartenenza a un'etnia diversa da quella araba o turca. Un'ovvia spiegazione della persecuzione del missionarismo mistico non può che essere quella secondo cui l'ortodossia islamica si è sentita attaccata nella sua classe dirigente e si è difesa con lo strumento più congeniale a un potere autoritario, cioè quello della repressione. C'è però un punto che deve essere sottolineato e che, ideologicamente, può costituire pretesto validissimo di giustificazione al potere. L'Islam propugna a chiare lettere la scelta, per giungere alla salvezza, di una via «senza eccessi» come via preferita da Dio e più consona all'abbandono alla sua volontà da parte del credente.

Niente di quanto l'uomo non può ragionevolmente fare è ben accetto a Dio. I detti del Profeta in proposito sono numerosissimi. La legge si pone come strumento offerto a tutti, senza priorità o gerarchia, nel senso che chi la esegue è, nei confronti di Dio, assolutamente sullo stesso piano di tutti gli altri membri della comunità. È, per usare una terminologia sicuramente impropria, ma chiarificatrice, un’«istanza democratica», che non ammette in linea teorica superiorità di un credente su di un altro, si trattasse pure di uno schiavo. Il che comporta molte delle peculiarità cui abbiamo accennato parlando della concezione del potere e del sovrano nella civiltà islamica. La via del mistico, la via della perfezione, che diventa via della salvezza, è nello spirito ugualitaria e pensabile per ogni credente? La legge non richiede che l'adesione di principio e una prassi che si esplichi nei fatti quotidiani. La via mistica postula il superamento di se stessi e chiede a ognuno uno sforzo che solo gli eletti possono compiere per riuscire. L'Uomo Perfetto, teorizzato dai mistici, è l'uomo libero, non solo dalle sue proprie passioni, ma dalle contingenze oggettive. La mistica fa entrare nell'Islam una concezione dell'aristocrazia del pensiero e della differenza tra gli uomini, relativamente al fatto religioso, che all'Islam coranico è ignota. Per assurdo, la repressione del potere diventa affermazione del principio che solo strumento valido per la salvezza è quello che equipara tutti gli uomini, senza favorirne alcuni e senza dare ad alcuni il privilegio di essere maestri di perfezione, privilegio che può essere riservato solo al Profeta. Questo fatto, che può apparire secondario, è un'ennesima spia della difficoltà di articolare un discorso di classe per quanto riguarda l'Islam. Un eventuale più preciso atteggiamento demagogico nell'operato del potere si può riscontrare in altri contesti, come nella repressione di eresie – cosa che vedremo –, non in un'azione che si pone come aderenza ai principi stessi dell'Islam, mai smentito o contestato come tale dai mistici stessi propugnatori del loro «metodo».

Al mistico che adotta una posizione del genere viene evidentemente mossa l'accusa di mancanza di moderazione, e di fanatismo: Hallāg, esempio di missionario del suo proprio metodo di incontro con Dio, e che si proclama Dio, viene messo a morte per il primo motivo. Lo si accusa di essere andato oltre i limiti con la sua affermazione, pur riscontrabile nell'esperienza di molti mistici che sono rimasti membri indisturbati della comunità islamica; ma la sua vera colpa è stata quella di «propagare i segreti», come dice il poeta persiano Hāfiz.

L'Islam propone anche al mistico, come al suo credente «comune», una via mediana. Nella perfetta e assoluta libertà di sperimentazione individuale di un rapporto di comunicazione con Dio, chiede un impegno nel mondo che si risolve nell'osservanza della legge, nella buona disposizione pratica a cogestire il fatto pubblico, e nella rinuncia a quegli eccessi contro la propria natura che possono essere fonte di squilibrio e far così perdere alla comunità l'apporto fattivo di un suo membro. Il bene pubblico interviene anche in questo caso a operare la discriminazione tra bene e male, non diversamente che nel comportamento politico e sociale del singolo.

Questo atteggiamento si riflette nella «regola» che la maggior parte dei mistici si sceglierà: quella della testimonianza. L'Uomo Perfetto può incontrare Dio e, tramite l'affinamento del suo spirito, riuscire a permanere in una continuità di comunicazione con Dio, tale che la sua personalità ne venga annullata e si possa identificare con l'oggetto della sua ricerca, ma, qualora decida di non rientrare nel suo stato umano, commette una mancanza, se non una colpa, nei confronti della comunità. Così egli non porta ad essa la sua testimonianza, che non è richiamo generalizzato a seguire il suo esempio, non è opera missionaria quindi, non è attestazione del suo puro Islam, del suo abbandono alla volontà divina che lo ha posto su questa terra e lo ha impegnato nei confronti della comunità a cui appartiene. L'esempio di Maometto, che, pur essendo il più vicino a Dio tra tutti gli uomini, si è dedicato alla comunità per darle una legge, per consacrarla alla verità e per prepararla alla sua missione ecumenica di portare il mondo intero all'ordine islamico, in osservanza alla volontà divina, è il punto di riferimento. L'interpretazione religiosa dell'aspetto legalitario dell'Islam è in questo modo tutt'altro che pretestuosa. Il fatto legalitario, che tanto colpisce la mentalità occidentale, diventa effettivamente fermento religioso, esplicazione per eccellenza della missione profetica e di chi si pone in posizione di imitazione dell'esperienza di Maometto. La sutura tra adesione al credo religioso, con personale sperimentazione del medesimo, e appartenenza a un ordine costituito, con accettazione del proprio campo di attività nella comunità dei fedeli, si crea automaticamente. Il rifiuto opposto all'eroismo e all'eccezione viene codificato in una regola che, pur prevedendo la perfezione, non ne fa strumento precipuo di salvezza.

Pur tuttavia, la condanna della legge, il superamento della religione come rivolta individuale, l'orgogliosa affermazione del proprio io, che si riconosce solo nella ricerca mai conclusa di Dio, si concentra nell'Islam in un campo ben determinato, che è quello della poesia lirica. Si potrebbe addirittura affermare che la poesia, nell'Islam, è traduzione letteraria delle aspirazioni mistiche «eterodosse», mai o quasi mai realizzate nella prassi, neppure da chi le canta. E parliamo di poesia islamica, in tutte le varie lingue che ne esprimono la cultura, dall'arabo al turco, al persiano, all'urdu.

Il fatto diventa uno «stile», attraverso il quale il poeta esprime la sua esigenza di individualità, enunciando «fanaticamente» il suo amore per Dio in forme che si prestano a interpretazioni omosessuali che sono esse stesse fonte di un altro topos comportamentale nella società islamica.

È un esempio di quanto si diceva affermando che l'Islam, nella sua molteplicità di valenze, ha la capacità di assorbire al suo interno anche la negazione o il superamento di una sua valenza stessa, considerata come assoluta. Nel processo di transfert generalizzato dell'esigenza in stile, e nell'assunzione dello stile a strumento espressivo dell'esigenza, l'eventuale elemento eterodosso viene naturalmente assorbito, reintegrato, reso funzionale all'ortodossia stessa, senza neppure la coscienza di una possibile alienazione: vivere il proprio sentimento religioso-poetico su un livello opposto a quello in cui si vive la propria vita quotidianamente islamica.

Affermare che si cerca l'ebbrezza nel vino o che si presceglie la religione di Zarathustra non turba il normale procedere della comunità. Le forme non sono essenziali, neppure nel culto, e i singoli credenti possono tranquillamente recitare i versi abnormi dei loro poeti sentendo in essi mero godimento estetico, espresso anch'esso, come tutto il resto, religiosamente, anche se in «stile» eretico.

© 2000
Reti Medievali
Ultimo aggiornamento: 14/02/07