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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


3. Moderazione e fanatismo in seno alla comunità islamica

3. La dinamica dell'opposizione

A giudicare dalla situazione contemporanea, nel mondo influenzato dalla cultura islamica quello dell'opposizione è ruolo assai specifico. Invece di assistere a grandi movimenti o a formazioni partitiche che contrappongano programmi e metodologie all'establishment, qualunque esso sia, vediamo, piuttosto una serie di prese di posizioni intorno alle quali si può anche, episodicamente, andar coagulando una qualche forma organizzata, che funziona da opposizione all'interno delle istanze su cui poggiano i regimi al potere; istanze che possono assumere l'aspetto di un partito (l'Unione Socialista Araba) o di un movimento (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Si è già detto della sostanziale incomprensione del processo di delega nella tradizione islamica; qui va aggiunto, senza voler identificare negli attuali stati vicino-orientali il risultato meccanico di tradizione islamica più eredità coloniale, che anche il parlamentarismo libanese si muove in direzioni alquanto dissimili da quelle a noi consuete, e che non si può ridurre tale diversità a mero fatto formale. Vogliamo comunque sottolineare che il problema dell'opposizione, del suo ruolo e della sua organizzazione, rimane aperto non solo a livello di comprensione (è il caso dello storico nel suo lavoro di denuncia dei fatti), ma anche a livello politico; con ciò intendendosi sia l'uomo politico europeo che, non trovando nell'interlocutore una struttura corrispondente alla sua, manca degli strumenti analitici necessari per individuarlo in altri contesti, sia l'uomo politico orientale, incerto di fronte alla necessità di omologare la struttura politica in cui operare alle strutture che adottano i suoi stessi punti di partenza a livello internazionale. Non è quindi soltanto il caso dell'opposizione che si rifà alla teoria marxista e annessa formulazione leninista del partito, le cui difficoltà oggettive nell'area vicino-orientale sono talmente evidenti da rendere inutile ogni insistenza in proposito la cosa vale per ogni opposizione politica nel senso più ampio, anche democratico-liberale, del termine.

La genesi di una vita politica moderna e progressiva nel mondo vicino-orientale sembra soffrire di condizionamenti che non sono rapportabili tutti alla dominazione coloniale o al sottosviluppo che ampiamente da questa trae origine. Abbiamo detto della peculiarità dell'esercito in ambito arabo-islamico, ma un discorso analogo si potrebbe fare circa la concezione della repubblica nella stessa area, con una conseguente (o preliminare?) problematica di giudizio sui poteri dello stato, sulla loro divisione, e sulle loro prerogative. Neanche là dove il modello è stato più esplicito, e quindi più vicina una possibilità di adeguamento (è il caso dell'Algeria), neanche là persuade la lettura fatta in loco delle formule di governo dell'ex-madrepatria. Non è un giudizio qualitativo che stiamo qui esprimendo, bensì un tentativo di approccio alla questione dello stato e del potere, nel mondo arabo in particolare, tale da portare a individuare, nei vari paesi, alcune costanti, a prima vista di freno o addirittura di reazione, nella loro dipendenza dalla tradizione storica e culturale, vista nel suo aspetto complessivo e unitario, al di là delle peculiarità specifiche nazionali. Riproponiamo in altri termini il tema dell'integralismo, che è stato fattore distintivo della civiltà islamica, applicato alla realtà contemporanea di quei paesi e di quei popoli che tale civiltà hanno elaborato ed espresso. In questo caso ci sembra plausibile considerare l'elemento «integralismo» come fatto costante, emergente nella peculiarità delle singole situazioni, nazionali e statuali. Parlare in termini di costante e di fattore emergente non deve però far supporre che questo discorso neghi automaticamente fattori e costanti nazionali, proprie cioè di ogni entità statuale che si sia riconosciuta come tale o che lotti per ottenere tale riconoscimento. Diciamo di più: considerare come «regionali» le differenze esistenti all'interno del mondo islamico ci sembra limitativo, e profondamente contraddetto dai dati di fatto. Sarebbe solo riportare a una posizione di comodo per l'Europa il giudizio sulla storia mediorientale, vista secondo moduli di sviluppo europei e nostri tipici soprattutto per quanto riguarda il processo di liberazione nazionale, che là è affermazione di individualità, di specificità e di unità in senso ben diverso dal processo, poniamo, del Risorgimento italiano, e anche da quel processo di unificazione che l'Europa sta attualmente compiendo nelle sue strutture economiche e che sottintende in pratica un aregionalismo dei vari stati europei rapportato a un'unità paneuropea, per quanto composita. Dal momento, insomma, che ci occupiamo in particolare di eredità islamica e di storia dell'Islam, la prospettiva entro cui vedere il fenomeno dell'opposizione non può che essere condizionata da queste linee direttrici.

Che cosa è dunque stata l'opposizione in terra d'Islam, e quale è stato il suo rapporto con il potere costituito?

Nell'interclassismo propugnato dall'Islam, nel superamento a priori della lotta di classe attraverso l'istituzionalizzazione di funzioni cui a livello sociale corrispondevano categorie di persone, in quanto tali aperte alle varie classi, l'opposizione nelle sue motivazioni esplicite non poteva esprimersi apertamente come lotta sociale. Non è casuale che la lotta di classe, che pure trova momenti di particolare evidenza nel mondo arabo contemporaneo, venga teorizzata solo da minoranze intellettuali, spesso troppo europeizzate per vivere il processo delle modifiche di struttura degli stati arabi dall'interno, e con tutte le contraddizioni offerte dalla loro realtà.

Per questo, la teorizzazione rimane nella maggior parte dei casi a livello di slogan, o è un massimalismo riproducente con esemplificazioni diverse contesti che sono nella sostanza estranei al mondo vicino-orientale. Ne nasce evidentemente una difficoltà di analisi, puntuale per discordanza tra l'oggettività di un metodo e una collezione di dati che non presenta che carattere soggettivo, tanto è legata alla visione condizionata di chi intende intraprendere l'analisi stessa. Quando diciamo condizionata parliamo sia dell'alienazione prodotta dal colonialismo (nella quale una forma di oggettività è riscontrabile, dato che tale alienazione è fattore comune alla società da analizzare nel suo complesso), sia della particolare recezione del fatto culturale europeo, troppo usato come strumento di mimetismo, nonostante la buona fede di fondo, per diventare comprensione di un metodo.

Una difficoltà di analisi è evidente anche per la storia classica dell'Islam, quando ci si volga a individuare i rapporti economici e quindi a esprimere in termini di interessi di classe i fatti occorsi, per la peculiarità del materiale storico a disposizione, quasi sempre commissionato dall'establishment al potere, per la mancanza di una presenza orientale determinante negli studi storici di questo tipo, e per la difficoltà di adattare schemi più vasti e interpretazioni di ordine generale (quali la teoria del modo di produzione asiatico) a un'area che sosteniamo essere stata culturalmente unitaria ma che certo presentava differenziazioni sostanziali nel sistema amministrativo ed economico. Ci troviamo così di fronte a un'unica tipologia di opposizione, rappresentata dai fenomeni religioso-politici che genericamente possono andare sotto il nome di movimenti ereticali, ma che sottintendono ben altro che dissensi teologici. Che l'eresia in seno all'Islam non presenti soltanto un aspetto teologico, è chiaro quando si faccia riferimento alla peculiare situazione della religione islamica nei confronti del potere temporale. Primo punto da acquisire è quindi la pretesa, pressoché scontata da parte di chiunque si ponga in una situazione di opposizione, di mutare il vertice dello stato, il califfo o più genericamente il sovrano. È in pratica la richiesta costante dell'opposizione: avocare a sé il potere esecutivo. Eccetto rare occasioni, spesso mitizzate dalle moderne interpretazioni storiche, l'opposizione non pretende ne prevede un cambiamento alla radice del sistema, non ne mette cioè in crisi le basi. L'opposizione, perciò, si pone sempre e comunque nell'ambito dell'umma, si considera portatrice della vera lettura del testo rivelato, e assume il privilegio di rappresentare l'Islam nella sua purezza primitiva e nel suo divenire storico.

Come conseguenza a livello ideologico, queste autodefinizioni limitano la portata di ogni potenziale movimento di opposizione ed escludono una possibilità rivoluzionaria, nel significato marxista del termine, come eventuale sbocco per realizzare i propri obiettivi.

Rimane cioè confermata la teoria secondo la quale il sovrano è unico perché Dio è uno solo, il sovrano rappresenta Dio sul piano umano, e la legge del Corano e dell'umma porterebbe, se correttamente applicata, allo stato perfetto, alla giustizia sociale e alla felicità in terra.

L'oggettività dell'ingiustizia e degli squilibri viene attribuita a un fatto di cattiva gestione del potere, cioè a una cattiva esecuzione delle norme stabilite dal Profeta attraverso la rivelazione da lui avuta. Normale quindi l'accentuazione degli sforzi tesi a ottenere un mutamento al vertice per risolvere il problema, e conseguente e logica anche l'importanza attribuita al leader nell'ipotetico movimento d'opposizione. O per meglio dire, il fondatore del movimento si arroga spesso il diritto di essere il nuovo legislatore, colui che è destinato a portare la giustizia sociale, il depositario della formula adatta a creare in terra il regno perfetto e l'ordine previsto da Dio.

Predominanza, insomma, nella storia dei sommovimenti islamici, di impostazioni verticistiche, attraverso una propaganda volta a conquistare consensi al capo, paragonato nella sua qualifica o a un sovrano legislatore, o – tendenza estremistica – a un nuovo profeta. L'importanza del capo e la sua quasi indiscussa autorità non sono invalidate neppure in quei movimenti a carico dei quali l'ortodossia lancia l'accusa di comunismo dei beni e delle donne, intendendo con questo che rivendicazioni sociali o nuove forme di aggregazione sociale sono spesso processi alle intenzioni da parte del potere, piuttosto che documentati programmi dell'opposizione stessa. Il personalismo nell'opposizione determina anche un'altra forma di equivoco, e cioè la facilità di adottare slogans «populistici» o demagogici, suscettibili di apparire invece come asserzioni di principio per una svolta nei rapporti e negli equilibri sociali esistenti.

Se il procedimento iniziale, a grandi linee, è generalmente simile, diversa può essere la formula proposta per ottenere il potere, cioè per sostituire il sovrano e instaurare il nuovo regno; e diverso può essere l’iter che renderà il movimento un movimento di massa o un movimento di élite.

Il primo punto – formula per arrivare al potere – si riassume in una proclamazione di legalità della guerra santa contro il regime in vigore, cosa che puntualmente farà anche il regime nella sua opera di repressione. Rientriamo in questo caso nella tematica del gihād, interno e non esterno all'Islam. E la «guerra santa» è veramente tale proprio internamente al mondo islamico, piuttosto che quando è condotta verso l'esterno, sebbene, come si è detto, l'esercito usato per combattere l'eretico avesse ben poco la fisionomia di una forza di conquista e svolgesse ruoli puramente polizieschi.

Il che non significa attribuire una positività scontata all'opposizione e ai suoi tentativi armati. La storia islamica – è un fatto – non ha al suo attivo esperienze che abbiano mutato sostanzialmente la struttura dello stato e del potere, quando siano giunte a sconfiggere il regime che avevano di fronte. Il passaggio dal califfato ommiade a quello abbaside, prodottosi attraverso un ampio gioco di consensi e di appoggi a un movimento organizzato e con un leader di grande prestigio, e culminato in un intervento armato, rimane nell'Islam un cambio di guardia all'interno della famiglia che detiene il potere, un ampliamento della base su cui esso si fonda (a favore di arabi o non arabi residenti nelle zone orientali del califfato, la Persia in particolare), uno spostamento verso Est dell'asse del califfato, un'ostentazione di pietas, nella realtà dei fatti pretesto perché la «rivoluzione» possa essere considerata legale e rendere effettiva la presa del potere da parte del nuovo califfo.

Se si considera un altro movimento di opposizione e di massa quale è la cosiddetta setta ismailita degli Assassini, il riscontro con le costanti che abbiamo espresso è immediato: esaltazione del capo, tentativo di impadronirsi del potere esecutivo, gestione interna verticistica, mancanza di partecipazione della base alle scelte fondamentali, potenziale demagogico insito nella stessa struttura del movimento. Un elemento che è pure fattore costante è solo, nel caso degli Assassini, più appariscente che altrove: è la coesistenza di un intenso fatto esoterico con l'appello, apparentemente a tutti rivolto, ad aprire un «nuovo ciclo» nella storia islamica.

Il fatto esoterico può esprimersi variamente: esso si racchiude per lo più nell'iter spirituale del leader, che da sovrano-legislatore passa a considerarsi profeta e depositario di una nuova interpretazione della rivelazione, o addirittura – gradino superiore – ricettacolo di quella particella divina che collega l'umanità a Dio, e che sola permette a chi la possiede di garantire correttamente l'esecuzione in terra della volontà divina. Un tale iter viene, a seconda dei casi, o attribuito dal basso, o imposto dal leader quale condizione per accettare un determinato individuo come suo seguace. Il fatto esoterico si può anche concretizzare in una distinzione qualitativa tra chi detiene la verità assoluta e chi non può che concepire una verità relativa. A quest'ultimo il compito di condurre la lotta, qualora essa sia necessaria, e di allestire gli strumenti adatti e indispensabili alla conquista del potere; ai primi il diritto di mantenere nel proprio ambito la conoscenza stessa acquisita, e di strumentalizzare la categoria inferiore. A un'aristocrazia del pensiero corrisponde più o meno una mano d'opera che non conosce il fine ultimo della sua prestazione.

In tal modo, mentre nella prassi quotidiana dell'opposizione il potere riconosciuto come ortodosso può apparire autoritario e antiugualitario, nell'esplicazione dell'ideologia religiosa che accompagna, se non tutti, i più consistenti movimenti di opposizione in seno all'Islam, o per lo meno quelli che hanno avuto un'effettiva possibilità di condurre verifiche, la situazione si presenta capovolta: è l'ortodossia a proclamare l'uguaglianza di tutti i credenti di fronte alla legge, di fronte alla verità e di fronte alla salvezza.

Si riapre così il problema del fanatismo «interno». Il punto più chiaro è quello che concerne il fanatismo ideologico, il fanatismo che si esprime con il termine «esagerazione», nel senso che già s'è detto. Lasciamo definire ai testi che cosa sia, in termini dottrinali, una tale «esagerazione». Vediamo piuttosto se è possibile fissare una tipologia del fanatismo musulmano a raggio d'azione interno. Il punto di riferimento torna a essere la legge canonica, intesa come strumento collettivo di salvezza. Fanatismo è quanto si pone in forma alternativa alla legge, come superamento di essa, ma senza che sia mai posto in forse il presupposto di base della legge stessa, la rivelazione di Maometto, e la trascendenza divina. Qualsiasi attacco alla lettera della legge contiene tuttavia oggettivamente un rischio di miscredenza che sarà l'arma per eccellenza del regime nella sua opera di repressione. Ogni proposizione diversa da quella canonica, e non semplice interpretazione di questa, oggettivamente esprime, nelle via via diverse condizioni storiche, una volontà di superare quella medianità e quella fissazione dei limiti umani su cui la tradizione islamica ha tanto insistito, facendone una delle espressioni più genuinamente umanistiche della sua civiltà. Fanatismo, quindi, nella ricerca di strumenti e di situazioni che stanno « al di là del limite », che interferiscono, per così dire, con una sfera che non è di competenza dell'uomo. E al di là del limite è anzitutto il leader, inteso come realtà che prescinde dal resto dell'umanità e che è per questo automaticamente esclusa dalle limitazioni, legge compresa, cui sono sottoposte le altre creature. Superumanità del leader e superamento obiettivo della legge canonica sono i due poli entro i quali si articola il fanatismo islamico. Osserviamo che si tratta pur sempre di un fanatismo spersonalizzato, cioè attribuibile a un movimento, e per estensione a una comunità, diverso dal fanatismo mistico che trova il suo spazio nell'anima del mistico stesso, e che non trascende la sua persona, non può cioè essere sperimentato da altri che non abbia conosciuto un iter simile al suo. Ci troviamo insomma, ancora una volta, all'interno della tematica, più volte espressa, della socialità dell'Islam.

Ma se distinzione tra esagerazione e squilibrio, tra califfo o sovrano legittimo e capo carismatico era, nella tradizione, distinzione precisa tra ortodossia ed eresia, il mondo contemporaneo assiste a una contaminazione reciproca tra ortodossia e concetto di capo carismatico, tra esasperazione e ricerca storica di verità. È anche qui il risultato di una rottura culturale e ideologica di cui il colonialismo porta la responsabilità. È, per così dire, inserire un elemento di esoterismo nella legalità esplicita dell'Islam, esoterismo che può trovare rifugio anche nel ruolo del leader.

Il «nasserismo» non è di per sé forma abnorme nella società islamica; non è neppure una semplice forma di «culto della personalità». Non vogliamo certo parlare del nasserismo come di un movimento politico-religioso, vogliamo soltanto prospettare la comprensione di certi fenomeni contemporanei in una chiave culturale più strettamente aderente ai dati storico-sociali della civiltà in cui si producono, anche quando questi si propongono in concreto, e ideologicamente, come superamento della loro propria tradizione.

L'altro aspetto peculiare di un fanatismo islamico è la costanza di certi slogans. Se c'è difficoltà a individuare sotto un dato movimento le spinte economiche che lo possono aver determinato, meno complesso è, nella maggior parte dei casi, enucleare alcune rivendicazioni sociali, alcune richieste che chiamiamo sociali perché non si concretizzano in programmi o parole d'ordine che fanno intuire una proposta globale di rinnovamento economico. Richieste che, genericamente, gli eresiografi musulmani concentrano nella formula «credevano nella proprietà comune dei beni e delle donne», il che, visto l'accostamento, e visto che il secondo elemento è quello maggiormente posto in evidenza, impone di per sé una certa prudenza nel vedere in molti moti ereticali una qualche preannunciata forma di comunismo. Tanto più che la legge islamica e la consuetudine beduina, mantenuta nell'Islam se non altro come spunto teorico, prevede che la terra, o meglio il pascolo e le acque, siano inalienabili, e appartengano comunitariamente all'umma, che ne determina l'uso e lo sfruttamento. Per cui questo «comunismo dei beni» dovrebbe essere suffragato da ben altre puntualizzazioni per permettere una qualsivoglia ipotesi concreta.

Il fatto di slogans si può riassumere in fatto terminologico: una terminologia che diventa modello generalizzato, e che ; adotterà una serie di immagini fisse per esprimersi. La simbologia della luce (il raggio del sole riflesso nello specchio) permette la formulazione della «divinità» del leader; l'inno all'ebbrezza positiva causata dal vino sottintende la rottura del vincolo con la legge. Giungiamo così a un'obiettiva confluenza del fanatismo mistico, eretizzante nei concetti, e dell'eresia religioso-politica, misticheggiante nelle forme: misticismo ed eresia coagulati entrambi, per così dire, nell'anacreontismo blasfemo del fatto letterario, cui si è accennato. Rimane un punto: la relazione tra potere e opposizione, al di fuori del fatto letterario spesso solo stilistico, quando l'opposizione si arma e il potere reprime.

L'ortodossia, cioè il potere costituito, agisce nei confronti dell'opposizione in modi ben distinti quando si tratta di controbatterne l'ideologia e quando si tratta di difendere le proprie posizioni acquisite.

Nella mancanza di dogmi e nella soggettività delle forme cultuali sta il punto di forza dell'ortodossia. Soltanto quando la missione profetica di Maometto viene giudicata superata, e quando si parla di una possibile «incarnazione» dell'elemento divino nell'uomo, l'ortodossia respinge chi sostiene tali dottrine, considerandolo apostata. È un fatto, evidentemente, a lungo strumentalizzato nel tempo, per permettere a uno stato di attaccarne un altro, anch'esso musulmano, dopo la rottura dell'unità ideale rappresentata dal califfato.

Le guerre di confine tra Impero Ottomano e Persia safavide (XVI secolo e segg.) si esprimono come lotta tra ortodossia ed eterodossia fino al momento in cui, di fronte al pericolo europeo, l'eterodossia viene assimilata a una scuola giuridica legale, con facoltà di formulare i suoi principi di giudizio e i suoi strumenti di analisi anche in difformità di vedute con altra scuola canonica. Ma, in linea di principio, la maggioranza – che è poi quanto abbiamo finora chiamato ortodossia – e il potere costituito hanno sempre accolto e citato una tradizione riferita al Profeta, secondo la quale egli avrebbe sollecitato, all'interno della sua comunità, la divergenza di opinioni, e addirittura la divisione dell'Islam in sette, senza che ne venisse pregiudicata l'unità di fondo. Se questo atteggiamento è la grande risposta non fanatica al fanatismo minoritario e di opposizione, la difficoltà di articolare il dissenso all'interno del mondo islamico è ancora più evidente, una volta constatata l'impossibilità di esprimere tale dissenso in un linguaggio e in una tematica che non sia religiosa. Solo nella rottura degli schemi e nell'alternativa globale al sistema, alle sue implicazioni e ai suoi elementi di base, cioè in pratica uscendo dall'Islam, l'opposizione avrebbe trovato un suo spazio autonomo e vitale. Nella storia dell'Islam, invece, il dissenso è sempre articolato secondo moduli che a lungo andare diventano funzionali alla stessa maggioranza, che liberalmente li accetta come espressione della diversità di opinione e non come fattore atto a mettere in crisi la sua posizione di forza.

Anche dove l'opposizione si è fatta maggioranza e ha preso il potere, come in Persia dal XVI secolo, (ma bisogna tener presente che ben prima del Cinquecento il mondo islamico conosce entità più o meno periferiche gestite da «eretici»), il risultato, si tratti di politica statuale o di codice etico, o ancora di sistema economico, non presenta difformità alcuna rispetto agli stati e ai regimi ortodossi contemporanei. Se le «rivoluzioni», nell'Islam, sono state condotte in nome del sovrano perfetto, questi è rimasto, nei fatti, un concetto puro, tant'è vero che sarà proprio l'eterodossia a far teorizzare l'impossibilità storica di vedere attuato il regno perfetto attraverso il sovrano perfetto, trasferendosi la realizzazione di tale ideale alla fine dei tempi, con l'avvento del Messia. Paradossalmente, nel concreto, è l'eterodossia a porsi su posizioni rinunciatarie nei confronti della giustizia sociale, che rimane invece aspirazione sempre valida e postulata, come eventuale e possibile, dall'ortodossia.

Nell'assorbimento dell'opposizione nel sistema, da parte della maggioranza, si pone anche la difficoltà di leggere attraverso gli slogans la consistenza di quelle rivendicazioni sociali che pure non si possono sempre negare.

Rimane evidentemente il problema di fondo più volte sollevato: attraverso quale dinamica e con che strumenti si è espressa dunque la lotta di classe nell'Islam? Non si può rispondere che con una serie di ipotesi la cui validità non è per niente confermata, e che comunque escono dal nostro tema specifico. Se non in un punto, che vogliamo invece mettere in risalto, anche se rimane esso stesso una domanda: l'opzione socialista di alcuni stati arabi, che si rifà a schemi e concetti tradizionali il cui spessore storico-culturale è rappresentato dalla civiltà islamica, socialismo islamico, in una situazione che prevede il potenziamento tecnico e industriale dei paesi stessi (con la conseguente trasposizione delle disuguaglianze sociali sul piano della lotta di classe tipica), ha forse risolto il problema che sta a monte, e cioè quello dell'incompatibilità tra Islam e articolazione, in una democrazia parlamentare, del potere? È forse la via per esplicitare anche o soprattutto in un contesto «religioso» gli squilibri socio-economici?

Se così fosse, e non si trattasse di una pura espressione di compromesso sul piano formale, avremmo forse una qualche indicazione che ci permetterebbe di individuare a ritroso nella storia dell'Islam gli elementi di quella dinamica di lotta sociale che ci risultano ancora troppo ambigui e confusi per poterli sistematizzare in una teoria complessiva.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07