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Tolleranza e guerra santa nell'Islam

di Biancamaria Scarcia Amoretti

© 1974-2007 – Biancamaria Scarcia Amoretti


3. Moderazione e fanatismo in seno alla comunità islamica

4. L'estremismo d'importazione

L'attualità ci induce a considerare una situazione piuttosto abnorme nella storia del Vicino Oriente e dell'Islam.

Mentre la Chiesa cattolica si premura di mantenere e consolidare i suoi contatti con gli arabi, mentre il problema delle fonti di energia esercita la sua pressione sugli stati europei per cui il rapporto con l'altra sponda del Mediterraneo è fatto vitale, assistiamo a un'intensificazione, da parte arabo-islamica, di prese di posizione nazionalistiche, antieuropee, in qualche caso decisamente ostili a un dialogo con l'Occidente.

L'Oriente della classicità, persuaso dell'unitarietà dell'universo, pronto a considerare come proprio interlocutore l'avversario cristiano, per convertirlo o comunque per offrirgli un posto all'interno del mondo islamico, sembra rapidamente sfumare. I motivi di fondo sono talmente ovvii da non necessitare di alcuna precisazione. Un paese colonizzato non può che nutrire, nel migliore dei casi, ostilità e diffidenza nei confronti del colonizzatore. Ogni violenza è maestra di altra violenza, esplicata magari in forme diverse, ma pur sempre dirette a uno scopo similare. Ciò che forse è meno ovvio sono gli elementi ideologici, culturali e religiosi attraverso cui l'ostilità si esprime; nuovo è il processo di revisione attuatesi all'interno del mondo islamico, preso come un complesso in qualche modo unitario, che ha convinto gli arabi della validità degli elementi di cui si parlava.

Primo fatto motore di tale processo è la considerazione offerta all'Islam dai pensatori musulmani a cavallo del secolo scorso e del Novecento. La lezione europea di analisi scientifica e di esegesi dei fatti porta il dotto musulmano che è a contatto con la cultura occidentale a volersi qualificare e definire nei confronti delle altre culture. Ma siamo ben lontani dalle polemiche sulla religione perfetta di epoca medievale, quando l'integrazione a livello sociale e culturale era tale da non creare, almeno in seno all'Islam, nessuna frattura tra teoria e prassi. Al nazionalismo europeo che si traduce nel colonialismo, nell'imposizione linguistica, nella preminenza tecnica che diventa strumento di oppressione, si oppone un nazionalismo che è arabo in alcune forme statuali e ideali, ma che è, prima che arabo, islamico. L'espressione può sembrare scandalosa. Noi la usiamo in senso negativo prima di tutto, e in secondo luogo in polemica con chi dimentica che nella storia vicino-orientale l'arabizzazione è stata conclusione di un processo e non un fatto originario, per cui se un tempo era discutibile che si potesse parlare di unitarietà dinanzi a un fenomeno in atto, oggi il problema dei singoli nazionalismi si pone di nuovo come un processo in formazione, mentre il punto di partenza storico-culturale rimane proprio quella unitarietà islamica, in senso lato, di cui si è ripetutamente parlato.

Il Medio e Vicino Oriente, nel momento in cui perde nella realtà dei fatti la sua indipendenza economica e politica, comincia a rivolgere alla propria tradizione un'attenzione ben diversa da quella che si era mantenuta nei secoli di dominazione ottomana e che aveva come meta un fatto essenzialmente pratico-normativo: il concetto di legge nell'Islam, motivante in linea di massima ogni ricerca sul passato. Questa nuova attenzione ha invece uno scopo puramente teorico, che consiste nel ritrovare, nella storia e nei principi, elementi che permettano di sentirsi adeguati se non superiori al colonizzatore. Essendo però concetti e storia europea il termine imprescindibile di confronto – concetti e storia appercepiti in una prospettiva ideale estranea all'Europa non per scelta da parte musulmana ma come risultato del processo di alienazione reciproca tra le due civiltà compiutosi nel tempo – le possibilità di analisi dell'Islam da parte musulmana risultavano inficiate in partenza. Alla violenza europea si contrappone così una tolleranza musulmana puntualmente smentita nei fatti, se per tolleranza si intende anche quel liberalismo democratico-parlamentare a cui l'Europa non può non far riferimento in un contesto del genere. Al fanatismo religioso cristiano si oppone la moderazione dell'Islam, anch'essa incompresa in questi termini dall'Europa che vede il mondo islamico monoliticamente ancorato alla propria religione, niente affatto disposto a permettere al suo interno un'attività missionaria, ed esclusivo nel suo teorico privilegiare l’umma islamica come unica formula realmente valida di organizzazione sociale. Alle guerre europee di espansione l'Islam oppone la sua concezione del gihād come guerra legale e come guerra difensiva, senza però estenderne esplicitamente l'area semantica fino a includervi la guerra di liberazione nazionale, che parte dell'Europa ha pur vissuto. A una crescente consapevolezza del legame tra evoluzione storica e lotta di classe, l'Islam oppone la sua secolare quiete sociale e il suo interclassismo, soluzione ampiamente provata di contrasti e squilibri all'interno dei vari regimi, che non mette per questo in discussione il sistema generale di organizzazione socio-economica.

E gli esempi potrebbero continuare. Ci troviamo in tal modo di fronte a un circolo vizioso. L'intervento dell'Europa interrompe un processo interno, crea una frattura tra passato e presente, senza fornire gli strumenti per superarla positivamente, e apre un processo di revisione dell'Islam da parte dei musulmani stessi, processo che si concretizza in quel movimento politico-religioso che, in Occidente, va sotto il nome di «modernismo». I termini con i quali l'Islam viene definito, diffusi in terra d'Islam, diventano in qualche modo la critica per eccellenza dell'Islam, il nuovo punto di partenza per riaffermare la propria tradizione, ma anche per negare, qualora sia il caso, la patente religiosa, ed entrare di pieno diritto nella cultura moderna intesa nel suo aspetto laico e democratico. Il ripensamento imposto dal colonialismo all'Islam diventa per i musulmani la storicizzazione della propria sconfitta, in base alla quale misurarsi e programmarsi per recuperare una posizione dignitosa nel mondo. Che questa non sia però la storicizzazione necessaria e adatta al Vicino Oriente, è fatto ampiamente dimostrato dalle situazioni concrete dei vari paesi arabi e non arabi, comunque eredi della civiltà islamica. La difficoltà di escogitare formule politiche adeguate, di trovare coesione interna, di ottenere consensi di massa e partecipazioni di massa alle scelte programmatiche dei vari regimi, di instaurare una giustizia sociale in modo coerente e in tempi possibili, sono la spia meno equivoca della sfasatura esistente nell'impostazione della revisione critica della propria storia. Il modernismo islamico ha funzionato come elemento coagulante di tale processo, ed è responsabile di molti dei fallimenti subiti. Come si diceva all'inizio, un fatto culturale e di sovrastruttura diventa strumento di mediazione per l'espressione, nel nostro caso erronea, di situazioni economiche e di equilibri politici. Inoltre, il colonialismo prima e l'imperialismo poi intervengono a utilizzare a proprio vantaggio quella stessa sovrastruttura che avrebbe dovuto aprire un processo critico e scatenare una lotta di liberazione all'interno del paese e più in generale dell'area geografico-culturale che continua a essere oggetto di sfruttamento. Ma a livello culturale c'è ancora di più: la responsabilità dell'incomprensione, dalla storia attribuita all'Europa nella stragrande maggioranza dei casi, scivola sulle spalle dell'Oriente colonizzato, vittima di quel falso storico che abbiamo a grandi tratti delineato.

Quel fanatismo che non era stato appannaggio dell'Islam, per lo meno nei termini pensati dall'Europa, fa la sua apparizione per il tramite di una cultura europea solo superficialmente assorbita, presentata come espressione di un colonialismo vittorioso, e più o meno consapevolmente ritenuta modello valido per un futuro adeguamento tecnico-scientifico necessario a ogni eventuale ripresa politica e culturale.

Diventano quindi meno assurdi gli schemi di giudizio che l'Occidente ben conosce e che non sono stati messi che raramente in discussione, a livello di opinione pubblica, fino alla guerra arabo-israeliana del '67. Primitivismo, incultura, violenza, spirito aggressivo, fanatismo etnico-religioso, sono un po' il Leitmotiv della propaganda israeliana, la quale non solo trova un Occidente più che ben disposto a credervi e a considerarla, come effettivamente è, un'ennesima espressione della superiorità europea nei confronti dell'Oriente e in particolare dell'Oriente musulmano, ma anche un Oriente puntualmente pronto a confermare le accuse, nella contingenza dei fatti: smentendo una tradizione storica che ignora l'epurazione in grande stile, all'occidentale appunto, degli ebrei; accogliendo moderni e altrettanto occidentali aspetti della via terroristica al riscatto nazionale e sociale; prescindendo, nell'immagine offerta di se stesso, dalla sua condizione attuale di condizionamento e di effettiva mancanza di autonomia nei confronti dell'imperialismo internazionale. Laddove, invece, soltanto una corretta presentazione della propria visione ideale così come essa si è realizzata nella storia, e un'aperta denuncia, anche all'interno, della difficoltà di recuperare uno spazio culturale e politico, potrebbero riproporre all'Europa e all'Occidente in generale un'ennesima occasione di comprensione.

Non è nostra intenzione tracciare un quadro pessimistico. Pur nella contraddittorietà di molti atteggiamenti politici e non solo politici degli stati arabi e più in generale vicino-orientali, alcune opzioni di fondo possono ricondurre a un'integrazione fra tradizione e modernizzazione, senza passare per assurdi schematismi di rigetto della tradizione stessa (per esempio il purismo linguistico, astorico e non funzionale, proposto da esponenti anche di sinistra dichiarata in Persia o in Turchia), e senza ritornare (è evidentemente alla Libia di un Gheddafi che qui si pensa) all'assurdità di metodi allo stesso Islam classico ignoti come prassi quotidiana, e validi solo come elemento allusivo all'interno di un codice etico ben più aderente nell'insieme alle reali esigenze della comunità islamica di quanto le singole norme cui oggi si vuoi fare riferimento possano suggerire. Dove però sia il purismo anarabo turco e persiano, sia il recupero protoarabo della Libia sono fatti di nazionalismo, ancora una volta, all'occidentale. E dove la volontà di ricostruire correttamente la propria immagine da presentare all'Occidente, ma prima ancora a se stessi per ritrovarsi e riconoscersi, e la necessità di adottare in concreto sistemi nuovi per esprimere le nuove esigenze e per superare le difficoltà oggettive, che fanno la storia contemporanea del Terzo Mondo in generale, si uniscono forse soltanto nel movimento di resistenza palestinese. Non tocca a noi dire come e quanto le analisi e le realizzazioni ottenute avrebbero potuto seguire vie diverse e trovare anche collocazioni diverse: in questa sede ci compete esclusivamente un giudizio in relazione con la tematica della nostra indagine.

La questione palestinese esprime nella sua complessità non solo le contraddizioni che comporta una colonizzazione, ma anche le difficoltà che sono proprie di tutta la zona arabofona, in questo caso acuite ed esplicitate al massimo grado. L'alternanza tra fondamentalismo e istanze democratiche, il problematico rapporto tra masse e vertice, la necessaria ma ancora approssimativa formulazione del ruolo dell'intellighenzia e dell'intellettuale nei confronti delle masse, il tradizionale prestigio esercitato dai leaders a scapito di una più massiccia partecipazione di base, l'acculturazione agli schemi politici europei, non sempre accompagnata da una reale comprensione e del fenomeno europeo e del proprio ritardo storico, fanno sì che tale questione possa apparire in termini estremamente mistificati agli occhi dell'Occidente, e risultare incomprensibile anche là dove la problematica circa il diritto alla guerra di liberazione nazionale e all'autodeterminazione dovrebbe produrre un risultato scontato.

Però, a chi voglia vedere nelle sue componenti la complessità della questione, questa si presenta in certo modo paradigmatica per il mondo arabo. Se la guerra di liberazione è strumento di coagulo e di politicizzazione delle masse, in forma più vistosa di quanto ciò si direbbe in altra situazione, e la cosa è già per questo un successo, la necessità di documentare il proprio diritto storico ad affermarsi come nazione apre in maniera netta il processo di autoanalisi di cui si parlava. È evidente che la tematica del modernismo islamico, generica e quasi esclusivamente teorica, è di per sé superata nel momento in cui si va alla ricerca e all'individuazione di quegli elementi che all'interno della cultura islamica sono stati fattore individuante nel corso dei secoli. Non è affatto la scoperta di un'etnia in un'area che poco è sensibile a problemi di razza, e non è neanche una rivendicazione di particolarismo regionale troppo facilmente riassumibile nella peculiarità della Palestina come terra di incontro di tre religioni, ne ricognizione di una qualsivo-glia diversità nell'ambito della civiltà islamica. Tutti questi elementi sarebbero ancora marginali qualora venissero invocati per un'individuazione nazionale.

L'interesse del processo in atto nei protagonisti del caso palestinese sta invece, a parer nostro, nella precisa coscienza di essere stati essi parte di un tutto all'interno del quale peculiarità e differenziazioni erano sentite come fatto positivo e non di contrasto, e che, come partecipi di questo tutto, l'eventuale atto di accusa ai principi che costituivano la base dell'intera costruzione sia di loro esclusiva competenza, come dovrebbe esserlo nei riguardi di ogni altra entità arabo-islamica. Ciò posto, ne consegue che la specificità che da diritto all'affermazione nazionale risale al momento in cui le componenti del tutto prendono coscienza della propria individualità: guerra contro i turchi, in primo luogo, opposizione al mandato britannico e alla colonizzazione sionista poi. Ultimo atto di tale processo è l'insistenza posta nel considerarsi parte del mondo arabo senza però identificarsi con esso nel suo complesso, rifiutando in altri termini un'eventuale assimilazione in un qualsiasi stato arabo, teoricamente possibile data, la comunanza linguistica e culturale, ma coscientemente rifiutata come paventato ritorno astorico a una situazione non più corrispondente alla realtà attuale: considerare cioè come ancora esistente e vitale quel «tutto» dalle cui rovine è sorto il mondo arabo di oggi. La probabilità di una sutura tra passato, religione, tecnica e ideologia progressista ( o socialista? ) sembra affiorare pur nella disperazione di una situazione apparentemente insolubile, almeno a breve termine.

E nell'estensione di una ricerca di questo tipo, in un'impostazione che come questa preveda il superamento del passato senza rinnegare l'omogeneo legame con la realtà attuale, in un progressivo affermarsi dell'autonomia economica e dell'iniziativa politica, sta anche, fondamentale, il rifiuto di ogni fanatismo interno e di ogni estremismo di importazione.

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Ultimo aggiornamento: 14/02/07