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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


1. Le occasioni e le cause reali

3. L’opera della Chiesa

Naturalmente la protezione accordata ai pellegrini, ai costruttori di cattedrali, ai combattenti della Reconquista, non era fine a se stessa: era, al contrario, parte di una strategia complessa e serrata.

La società ecclesiastica del secolo XI era in pieno fermento: all’opera degli imperatori sassoni e franconi, che avevano potentemente contribuito a moralizzarla ma che al tempo stesso l’avevano troppo strettamente legata al carro del potere laico, era seguito un movimento di riforma che aveva il suo centro nell’opera di teologi, canonisti, prelati e mistici il cui ambiente iniziale era stato quello lorenese ma il cui solido nucleo era comunque, una volta ancora, Cluny.

Approfittando della minor età dell’imperatore Enrico IV, i riformatori erano passati all’offensiva nella seconda metà del secolo:  mentre inauguravano una politica anche dogmaticamente parlando assai rigida – che doveva condurre nel 1054 allo «scisma d’oriente» –, lavoravano a tagliare i legami di subordinazione all’autorità laica proclamandone col concilio del 1059 l’incompetenza a intervenire nell’elezione del pontefice romano e cercando di minare l’istituzione dei vescovi-conti che, voluta da Ottone I, aveva trasformato i capi delle diocesi in funzionari imperiali.  Nella  «lotta  delle  investiture»  che  ne seguì e che ebbe come protagonisti il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV (lotta nella quale, è bene ricordarlo, molti vescovi presero le parti imperiali, mentre il clero regolare si schierò in blocco dalla parte del pontefice) la Curia romana ebbe modo di elaborare ulteriormente la dottrina della supremazia del pontefice romano fino a postularne la superiorità rispetto agli stessi re:  si era agli ideali teocratici che ponevano il vescovo di Roma guida e sovrano, dopo Dio, della cristianità tutta.

Il programma egemonico dei riformatori ecclesiastici era ben articolato e utilizzava con accortezza una pluralità di strumenti:  primo fra tutti, l’appoggio ai movimenti religioso-popolari a base laica che, come la «pataria» soprattutto nel Milanese, si proponevano di risanare i costumi corrotti del clero; o che, come le «leghe di pace» in Francia, si organizzavano militarmente contro i feudatari che avessero osato infrangere la tregua o la pax Dei. Ai capi di questi gruppi, che spesso eleggevano la povertà e il combattimento a caratteristiche  specifiche,  il papa accordava il vexillum Sancti Petri: la bandiera, cioè, simbolo della particolare predilezione  dell’Apostolo  ma anche dei doveri vassallatici di fedeltà che colui che riceveva il vexillum veniva a contrarre nei confronti della Santa Sede (la bandiera era uno degli elementi consueti nelle investiture feudali).

Né tale onore si riservava solo ai capi-partito fedeli. C’era una gran quantità di conquistatori che non desideravano niente di meglio, per crearsi un titolo giuridico tale da permettere loro di possedere a buon diritto quanto avevano conquistato con la forza delle armi, che dichiararsi fideles del Principe degli Apostoli. E concedendo il suo vessillo a Guglielmo di Normandia che invadeva l’Inghilterra, agli Altavilla che dilagavano nel meridione d’Italia, ai principi castigliani e aragonesi che strappavano lembo dietro lembo ai mori la terra di Spagna, il papa legittimava sì quanto altrimenti sarebbe stato un puro atto di violenza, ma al tempo stesso si presentava ai potenti e ai popoli come signore feudale di quanti accettando le sue insegne gli prestavano omaggio e come sovrano eminente delle loro terre.

Potrà sembrare strano che il vescovo di Roma, a cui molti prelati negavano ancora o a malapena accordavano la supremazia sulla cristianità per le cose spirituali, ambisse tanto ad affermarla per le cose terrene che meno direttamente lo toccavano. Ma era la fatale logica della lotta per le investiture che da contrasto su alcuni punti precisi si era andata sempre più trasformando in scontro fra due poteri ecumenici dei quali uno, l’imperatore romano-germanico, era tradizionalmente considerato il capo in temporalibus della cristianità ma partecipava al tempo stesso di un quid di sacrale che faceva anche di lui un rex et sacerdos, David e Melchisedech insieme secondo gli ideali carolingi e ottoniani. La chiave per comprendere il feroce contrasto fra le due massime autorità ecumeniche medievali sta certamente nei loro conflitti di potere e di competenza: ma sta anche, e ben più profondamente, nella loro radicale simiglianza, nella loro fallita complementarità. Non esisteva una sfera religiosa e una laica, un mondo sacro e uno profano: si viveva in «una sola società, cioè la Chiesa, dove tutto si amalgama», come si sarebbe espresso di lì a qualche decennio Ottone di Frisinga.

Ed ecco che assistiamo, verso la fine del secolo, a un fenomeno ben strano: un pontefice che, arrogandosi le prerogative di guida anche in temporalibus dei cristiani, li chiama alla guerra oltremare; questa, almeno, è la visione tradizionale dei fatti. Esaminiamo quanto di vero ci sia in essa.

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UpUltimo aggiornamento: 20/06/06