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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


1. Le occasioni e le cause reali

4. L’appello di Clermont

Nel marzo 1088 l’ex-priore di Cluny, Oddone di Lagery, veniva eletto papa. La sua era una posizione difficile: il partito della riforma, ch’egli guidava, era a un passo dalla vittoria mentre le fortune di Enrico IV declinavano a vista d’occhio; pure, focolai scismatici resistevano ancora e l’antipapa d’obbedienza imperiale Clemente III (Guiberto di Ravenna) era padrone della stessa Roma.

Nell’autunno del 1094 il papa iniziava un viaggio durante il quale toccava alcuni fra i centri principali dell’Italia centro-settentrionale e del sud-est francese. Intendeva serrare le fila dei suoi partigiani per la vittoria definitiva, attraverso una serie di concili che avrebbero chiarito una volta per tutte la situazione vuoi dogmatica, vuoi politica, vuoi disciplinare della Chiesa. Nel marzo 1095, a Piacenza, ricevette anche degli ambasciatori greci: è verosimile che trattasse con loro i problemi della riunificazione delle due Chiese con il relativo risanamento dello scisma del 1054, ma la tradizione, impadronitasi dell’episodio, vuole ch’essi gli abbiano chiesto anche aiuto contro i Turchi.

Comunque, nel novembre di quello stesso anno, Urbano II tenne a Clermont-Ferrand in Alvernia un nuovo concilio a chiusura del quale pronunziò quella famosa allocuzione con cui si suole aprire la storia delle crociate propriamente detta.

Non è possibile ricostruire il discorso pontificio: esso ci è tramandato in quattro distinte versioni da altrettanti cronisti, i quali scrivevano tutti qualche tempo dopo la conquista di Gerusalemme, allorché la crux peregrina era diventata carne e sangue della cristianità: naturale quindi che proiettassero nelle parole di Urbano quanto era accaduto poi, cercando di trasformare in un «manifesto» della crociata quel che era viceversa soltanto un’esortazione calda ma abbastanza generica al pellegrinaggio. Infatti le nostre quattro fonti sono d’accordo soprattutto sul fatto che il papa avrebbe deplorato le continue lotte fraticide tra cristiani e avrebbe suggerito loro il pellegrinaggio alla Terra Promessa come mezzo di purificazione dei peccati; volgendo i passi verso quella mèta, essi avrebbero potuto anche soccorrere la Chiesa orientale minacciata dagli infedeli (e questo argomento potrebbe essergli stato suggerito dall’ambasceria bizantina a Piacenza). Insomma, ci sembra chiaro che a Clermont non fu bandita alcuna «crociata» nel senso che a questo termine usiamo attribuire:  ad una conquista armata del Sepolcro probabilmente il papa non pensava neppure lontanamente. A lui premevano soprattutto due cose: primo, indicare alla feudalità europea – molta della quale si era compromessa ai suoi occhi abbracciando la causa imperiale – una peregrinatio paenitentialis che l’avrebbe ricondotta alla pace con la Chiesa, l’avrebbe liberata dai peccati e infine avrebbe dato un po’ di ristoro all’occidente da troppo tempo sconvolto; secondo (e ciò a nostro avviso già molto in sottordine), inviare all’imperatore di Costantinopoli – il quale usava assoldare guerrieri occidentali come mercenari da impiegare contro i Turchi in Anatolia – dei cavalieri che avrebbero contribuito con la loro opera a riallacciare i rapporti con la cristianità greca.

A questo punto è necessario mettere in guardia chi volesse interessarsi più a fondo di questi problemi, affinché non cada nella trappola tesagli dai cronisti occidentali: questi ultimi, per dimostrare la necessità oggettiva della crociata e sottolineare al tempo stesso la malvagità e l’ingratitudine dei Bizantini (i quali non mostrarono di gradire troppo lo scompiglio che i crociati causarono prima nell’ordinata compagine del loro impero, poi in tutta la politica orientale), si dettero a parlare senz’altro di esortazioni accorate dell’imperatore di Costantinopoli agli occidentali, di aspra politica dei Turchi nei confronti dei cristiani, di inaudite  sofferenze  patite  dai  pellegrini  e così via. C’è voluto tutto il rigore critico e filologico degli orientalisti moderni (pensiamo soprattutto a C. Cahen) per dimostrare che dietro questa visione delle cose, divenuta tradizionale e accettata da storici anche acuti, si celava un brulicare di malintesi e di più o meno premeditate distorsioni della realtà.

Quanto ad Alessio I Comneno, che allora regnava sulla città del Bosforo, egli aveva parecchi buoni motivi per andare d’accordo con i Turchi e quasi altrettanti per non fidarsi degli occidentali. La pressione selgiuchide gli aveva, è vero, strappato l’Anatolia: ma ben presto si era giunti ad una situazione di compromesso, anche perché i Turchi si erano dati a frazionare le loro forze in una miriade di staterelli in perpetua tensione fra loro, in mezzo ai quali la sapiente diplomazia bizantina aveva buon gioco. Viceversa fino dal 1081, anno in cui Alessio aveva preso il potere, i suoi rapporti con la Chiesa latina erano stati tesi: egli aveva appoggiato il suo collega d’occidente Enrico IV e il papato aveva da parte sua risposto invitando i Normanni di Roberto il Guiscardo a invadere l'impero dalla parte dell’Epiro. L’invasione era stata respinta grazie soprattutto all’aiuto dei grandi amici di Costantinopoli, i Veneziani: ma il solco dei rancori e delle recriminazioni non si era chiuso neppure dopo il riavvicinamento degli anni successivi, di cui l’ambasciata greca a Piacenza è un effetto.

Anche per ciò che riguarda il comportamento dei saraceni nei confronti dei cristiani bisogna sgombrare il campo da molte idee approssimative. Nelle terre sottomesse all’Islam i cristiani, salvo brevi e particolarissimi episodi dovuti a cause contingenti (per esempio la distruzione del Sepolcro voluta nel 1009 dal califfo del Cairo Hakim, eretico per lo stesso Islam), venivano rispettati: erano organizzati in comunità semiautonome, potevano esercitare una moderata libertà di culto ed erano obbligati solo al pagamento di certe tasse. Condizioni queste, sia detto per inciso, che i pochi musulmani adattatisi a vivere nelle terre riconquistate dai cristiani non si sognavano neppure. Oltre a ciò, lo scisma che dal secolo X in poi aveva diviso la comunità islamica in due tronconi, ligio l’uno al califfo di Baghdad e l’altro a quello del Cairo, aveva fatto sì che i principati siriaco-palestinesi, barcamenandosi fra l’una e l’altra obbedienza come spesso accade nelle zone di frontiera, avessero finito con l’essere di fatto indipendenti; ciò aveva ulteriormente favorito i cristiani locali, che erano numericamente forti e potevano quindi costituire un buon appoggio politico, il che suggeriva che era prudente trattarli con un certo riguardo.

Neppure l’arrivo dei Turchi selgiuchidi alla metà del secolo XI e lo stabilirsi della loro egemonia nell’area d’obbedienza al califfato di Baghdad dovette cambiare troppo le cose. Il dominio turco era in genere più rozzo e militaresco di quello arabo e i nuovi arrivati inoltre, neofiti dell’Islam, erano in quanto tali meno tolleranti: tuttavia non pare che le condizioni dei cristiani locali si aggravassero sostanzialmente.Vero è che verso il 1055 si verificarono episodi di particolare violenza a danno dei pellegrini occidentali, ma si è avuto troppa fretta ad attribuirli ai Turchi sulla quasi esclusiva base della coincidenza cronologica con i primi tempi del loro dominio: a Gerusalemme, le autorità musulmane consideravano protettore dei cristiani di ogni confessione l’imperatore di Bisanzio, e funzionari a lui fedeli sovrintendevano al Sepolcro e alla disciplina dei pellegrini. Si era all’indomani dello scisma del 1054: le chiese latine in Gerusalemme furono temporaneamente chiuse, ma la colpa non era dei Turchi i quali non si ingerivano nelle questioni interne delle varie comunità cristiane e neppure nei loro rapporti reciproci; l’ordine era venuto dal patriarca di Costantinopoli.

Vero è che l’entrata alla città e ai Luoghi Santi era condizionata al pagamento di certi diritti, ed è sicuro che ciò abbia originato frequenti abusi di potere; così come presso gli xenodochia (ospizi) gestiti da e per i Latini o al Sepolcro stesso le provocazioni e le vessazioni non dovevano essere cosa eccezionale: i dazi da pagare, i rischi, le lunghe attese facevano dei pellegrinaggi qualcosa di ben raramente simile a un viaggio di piacere. Ma la prova migliore che si trattava di condizioni ben lungi dall’essere insostenibili risiede nel fatto che nella seconda metà del secolo i pellegrinaggi andarono progressivamente moltiplicandosi.

Questa la situazione oggettiva. Non bisogna però dimenticare che in occidente quel che accadeva in Asia era in massima parte o ignoto o incomprensibile. Qui, poco o niente si sapeva delle comunità cristiane orientali e meno ancora dei rapporti fra Arabi e Bizantini, fra Turchi e Arabi e così via. Il pellegrino reduce dal suo viaggio aveva sempre la sua brava dose di pericoli, di disagi, di umiliazioni da raccontare a casa: e il responsabile di ciò era sempre e soltanto l’infedele, l’uomo «diverso», che le Chansons de Geste raffiguravano come un pagano, un adoratore di demoniaci idoli, un semi-demonio egli stesso. Il saraceno si prestava così assai bene alla parte del «nemico metafisico» che la società cristiana del tempo andava inquietamente cercando: fecero il resto la crisi non ancor superata delle strutture ecclesiastiche, la virulenza dei movimenti religioso-popolari con tutto il carico di problemi sociali che confusamente esprimevano, i predicatori che vivevano ai margini della gerarchia ecclesiastica e frequentavano le fiere e i santuari profetando la rigenerazione del mondo per ignem.

L’appello di Clermont fece repentinamente maturare tutti questi eterogenei elementi ben al di là dei propositi e delle stesse intenzioni pontificie: e una volta avviato, il movimento potè a stento restar contenuto negli argini delle moderatrici prescrizioni ecclesiastiche. La crociata nasceva così.

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Ultimo aggiornamento: 20/06/06