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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


1. Le occasioni e le cause reali

5. La crociata dei «Pauperes Christi»…

La tradizione assegna, nella genesi della crociata, una gran parte all’opera di Pietro d’Amiens detto «l’Eremita». Il personaggio è sicuramente storico, date le molte testimonianze in proposito: ma ben presto la leggenda e l’epica si sono impadronite del suo nome facendone assurgere la figura a una fama ben superiore al ruolo ch’egli ebbe negli avvenimenti del suo tempo.

Pietro era un predicatore vagante, un propheta, come si diceva allora: l’apposizione «eremita» non ci dice con chiarezza quale ruolo rivestisse in seno alla Chiesa, né si può escludere che fosse addirittura un laico. Godeva certo fama di santità e si era reso celebre, qualche tempo prima, per aver promosso un movimento salvazionista tra i cui scopi c’era fra l’altro quello della redenzione delle meretrici: e difatti uno stuolo di mulierculae lo accompagnerà sempre, secondo i cronisti, nei suoi spostamenti. Verso la fine del 1095 cominciò a predicare il pellegrinaggio cominciando dal Berry, non lontano cioè da Clermont; si spostò poi verso l’Orleanese e di là puntò sulla Champagne e sulla Lorena, due tra le zone più densamente popolate, e quindi più ricche di contrasti sociali, del tempo. Lo troviamo, il Sabato Santo dell’anno seguente, predicare a Colonia dove si teneva una fiera pasquale assai rinomata. Non erano certo male scelti né il tempo – la festa della Resurrezione, la più adatta a parlare di Gerusalemme – né il luogo giacché da Colonia, teatro nel 1074 d’una rivolta cittadina contro il vescovo che ne era anche il signore temporale, si era propagato alle altre città renane il movimento comunale.

Pietro non tardò a trovare emuli e seguaci: segnaliamo un prete, Gottschalk, e un cavaliere non privo di qualità militari, Gualtieri detto «Senza Averi», il che ne designa bene la condizione, chiarendo – in parte almeno – i moventi del suo entusiasmo. La tecnica della loro propaganda era semplice ma efficace: descrizione dei Luoghi Santi e delle tribolazioni dei pellegrini, esecrazione dei saraceni cui faceva seguito quella degli ebrei «nemici di Gesù», esibizione di reliquie e spesso di lettere – i famosi excitatoria – che s’immaginavano scritte da grandi del presente o del passato o addirittura cadute dal Cielo o consegnate da Divini Messaggeri a qualche pellegrino. Ma soprattutto l’evocazione di Gerusalemme, della Terra Promissionis: non solo della Gerusalemme Terrestre, quella ben calata nella storia e nella geografia, ma di quella Celeste dell’Apocalisse, la capitale del Regno di Dio, la mèta ultima del Millennio dopo l’assalto dell’Anticristo. E fatalmente la Gerusalemme alla cui volta muovere i passi assumeva i contorni della seconda, il pellegrinaggio si trasformava nel ritorno alla Casa del Padre. Un messaggio del genere, per confuso che fosse, era potentemente e profondamente evocativo. Vi prestavano orecchio i cascami della gerarchia feudale, quei poveri cavalieri che non erano riusciti a trovare la fortuna mischiandosi alle lotte dei grandi; i chierici e gli agitatori religiosi che – dopo aver fino a qualche anno prima sollevato le genti di tutta Europa contro i vescovi corrotti, il clero simoniaco e concubinario, i nobili che rifiutavano di osservare la disciplina della tregua Dei – si trovavano respinti nell’ombra della Chiesa ufficiale la quale, riformatasi sotto la spinta degli ideali gregoriani, ambiva ormai chiaramente a stabilire un ordine rigidamente ancorato alle direttive papali e ben lungi dalle libertà evangeliche che aveva lasciato trapelare negli anni della lotta; gli umili abituati a spostarsi di terra in terra in cerca di suoli da dissodare o di lavoro nelle manifatture cittadine. Nel 1077, a Cambrai, si era avuta una rivolta di tessitori guidati dal prete Ramihrdus contro il vescovo simoniaco; in Fiandra, il famoso Tanchelmo aveva fatto della predicazione contro la ricchezza e la rapacità dei prelati il nucleo della sua rivolta religiosa; ora i postumi di questa confusa turbolenza sociale sboccavano nella crociata, e vi si univano i poveri abituati a peregrinare accattonando per i quali il pellegrinaggio era una dimensione esistenziale; e ancora i contadini rifugiatisi nelle città la cui aria «rendeva liberi» per sottrarsi alle obbligazioni feudali (un altro mito storiografico, quello del «servo fuggitivo», che non manca di addentellati con la realtà) ma che non sempre riuscivano a inserirsi felicemente nell’ambiente urbano.


I primi gruppi «crociati» partirono dunque così, a ondate, male armati e privi di un’organizzazione sia pur embrionale. La più parte di essi si sciolse, in circostanze spesso tragiche, dopo aver risalito alla rinfusa le valli del Reno e del Danubio saccheggiando le campagne, assalendone le città e massacrandone le comunità giudaiche là prosperanti sotto la protezione dei vescovi: i prelati che si opponevano a questa barbarie venivano a loro volta aggrediti.

Alcuni storici (R. Grousset), forse ingannati dalle innegabili somiglianze esteriori, hanno cercato di paragonare queste esplosioni di violenza alle cosiddette jacqueries, le rivolte armate dei contadini contro i nobili e le città nella Francia trecentesca. Ma il paragone non regge proprio perché nelle jacqueries il carattere antiborghese è, con quello antifeudale, evidente e prevalente, mentre le azioni della «crociata popolare» sono catalizzate quasi esclusivamente contro l’alto clero e gli ebrei (che erano i prestatori di denaro dei vescovi). Si ha in altri termini l’impressione che i massacri, indebolendo l’autorità vescovile e sgombrando il terreno dai rivali della borghesia già avviata alle operazioni finanziarie, abbiano favorito gli interessi di quest’ultima: e non a caso, al tempo della prima crociata e anche nel secolo successivo, vediamo i borghesi scendere in campo al fianco dei «crociati» contro i vescovi e partecipare ai massacri di ebrei. Comunque sia, i malanni compiuti da questi strani pellegrini – che giustificheranno la pur superficiale visione voltairiana della crociata come «sacca» della delinquenza europea – non potevano essere tollerati dagli stessi principi cattolici: al massacro si rispose col massacro. I pochi che giunsero a Costantinopoli, dove non si astennero dal combinare i soliti guai, furono precipitosamente fatti passare in terra turca, e là il primo impatto con gli infedeli li ridusse letteralmente a pezzi: vecchi, malati, donne e bambini, che costituivano magna pars della spedizione, non furono risparmiati. I superstiti, fra cui Pietro d’Amiens sopravvissuto a se stesso, riguadagnarono Costantinopoli da dove ripresero il pellegrinaggio qualche tempo dopo al seguito delle milizie baronali.

È chiaro che la piega assunta dagli avvenimenti non aveva mancato, già sul nascere, di turbare profondamente Urbano II la cui massima preoccupazione restava il riordinamento della Chiesa uscita debole e lacera dalla lotta per le investiture. Le direttive papali contro le partenze indiscriminate per il pellegrinaggio – si stabiliva che i chierici dovessero ottenere l’assenso dei superiori gerarchici, le persone sposate quello del coniuge – dimostrano chiaramente che il pontefice si preoccupava che l’ordine sociale non fosse sconvolto e che le novità rientrassero nell’alveo della tradizione. Che del resto i semplici fedeli partissero – magari indebolendo la fazione ecclesiastica mentre l’imperatore non era ancor del tutto debellato – non poteva essere soverchiamente apprezzato dalla Curia. Ci si rivolgeva invece insistentemente ai principi, incitandoli a partire. Essi avrebbero potuto affrontare convenientemente i Turchi e avrebbero intanto liberato l’occidente dalla loro ingombrante presenza.

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UpUltimo aggiornamento: 20/06/06