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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


1. Le occasioni e le cause reali

6. … e quella dei baroni

Nell’estate del 1096 cominciarono a muoversi i primi contingenti guidati da alcuni tra i nomi più prestigiosi della cristianità del tempo. Partì Ugo di Vermandois fratello del re di Francia, attraversando l’Italia fino a Bari e lì passando il canale d’Otranto per giungere a Costantinopoli in ottobre; Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, lasciò con i fratelli Eustachio e Baldovino le sue terre in agosto, e seguendo il corso del Danubio giunse sul Bosforo a Natale.

Poco dopo la Pasqua arrivava laggiù Boemondo d’Altavilla, principe di Taranto e figlio di Roberto il Guiscardo; non molto più tardi, attraverso l’Italia settentrionale e il litorale balcanico dell’Adriatico, giunse Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, col quale viaggiava il Legato pontificio Ademaro vescovo di Le Puy. Ultimi arrivarono Roberto conte di Fiandra, Roberto duca di Normandia (figlio di Guglielmo il Conquistatore) e suo cognato Stefano conte di Blois e Chartres. L’imperatore bizantino Alessio non fu certo felice di vedere nelle sue terre una tale quantità di «Franchi» – così Greci, Turchi e Arabi chiamavano gli Europei d’occidente –, tanto più che né il loro comportamento era disciplinato né chiare le loro intenzioni. Li colmò di onori e di doni, ma fece loro intendere di considerarli mercenari al suo servizio, costringendoli a giurargli fedeltà e trasferendoli poi precipitosamente al di là del «Braccio di San Giorgio», sulla sponda asiatica, in modo che non potessero concentrarsi nella o attorno alla sua capitale.

Così, nel giugno 1097 – d’estate: non si sarebbe potuto trovare stagione meno propizia – le truppe feudali e quel che restava dei pauperes si misero in marcia attraverso la penisola anatolica e, dopo due anni di peripezie e di sofferenze, giunsero a espugnare la città di Gerusalemme il 15 luglio 1099: la popolazione saracena ed ebraica venne quasi  totalmente massacrata.

Non crediamo necessario dedicare spazio alla narrazione delle vicende che condussero alla presa della Città Santa, poiché esse sono anche manualisticamente note. C’interessa semmai fare alcune osservazioni più atte, crediamo, a chiarire le idee.

Innanzitutto diciamo qualcosa a proposito della composizione sociale di quelle schiere, partendo dai capi. Si ripete troppo spesso che il nerbo della crociata fu costituito dai piccoli cavalieri, soprattutto coloro ai quali la indivisibilità del «feudo franco» impediva di entrare in possesso di una parte del patrimonio avito e che quindi erano costretti a cercar fortuna ingaggiando la spada al servizio di un signore. Naturalmente, il seguito dei grandi baroni poteva essere formato anche da gente di questo tipo; ma non si può fare a meno di notare che alla crociata partecipò essenzialmente la più alta feudalità europea, e per giunta quella nelle cui terre si verificava lo sviluppo demografico, sociale ed economico più netto: Fiandra, Lorena, Provenza. Perché al rigoglioso progresso dei sudditi corrispose l’allontanamento dei sovrani? Certo non furono i primi a provocare direttamente la crisi dei secondi – giacché di crisi si tratta –: non ancora, almeno. Purtuttavia il rapporto c’è, e non di pura coincidenza. La crociata mise a nudo non una malattia nel, bensì del sistema feudale.

Assillati da sempre più difficili rapporti con le loro città, largamente incapaci a comprendere in che direzione si stessero sviluppando le cose, questi potenti baroni avevano pure ciascuno il loro immediato e concreto motivo per cambiare aria. Goffredo di Lorena era oppresso dall’ipoteca del suo pesante passato politico (era stato fra i sostenitori più accesi di Enrico IV): la sua, più o meno scopertamente, era una peregrinalo paenitentialis. Roberto di Normandia era in urto col fratello Guglielmo II re d’Inghilterra e non poteva sostenerne la pressione. Raimondo di Tolosa era incalzato da Guglielmo IX duca d’Aquitania che vantava diritti sui suoi feudi. Boemondo d’Altavilla, infine, era stato emarginato in Italia meridionale dal fratellastro Ruggero Bursa e dallo zio Ruggero di Sicilia, né aveva speranza di recuperare la perduta preminenza.

Al seguito dei principi, alcuni dei quali – come il conte di Tolosa – avevano fatto voto di non tornare più in patria (e anche ciò è indicativo), marciavano parecchi dei loro vassalli; non mancava chi aveva condotto la famiglia con sé. Ma gli eserciti medievali non erano composti di soli combattenti: vi era sempre una certa quantità di accoliti di vario genere, mercanti, artigiani, chierici e così via; né bisogna dimenticare che la crociata era un pellegrinaggio prima ancora che una spedizione militare e che le schiere baronali avevano raccolto per strada i residui – in numero probabilmente non trascurabile – delle precedenti spedizioni pauperistiche.

Sarebbe interessante poter sapere qualcosa sul numero effettivo dei pellegrini; ma purtroppo ciò è impossibile, e le congetture avanzate al riguardo, per ingegnose che siano, sono tutte insicure e arbitrarie. Le uniche fonti che potrebbero in ciò aiutarci, le cronache, offrono talvolta dati quantitativi: si tratta però sempre di cifre generiche, approssimative nel migliore dei casi, ma solitamente iperboliche o soggette a schemi simbolici. Fonti d’altro genere mancano quasi del tutto. Oggi gli studiosi tendono a valutare che i crociati fossero una decina di migliaia, in rapporto di un cavaliere ogni dieci pedites: ma anche su questi dati si ha ragione di essere scettici per parecchi motivi. Intanto, le fonti si occupano principalmente dei capi e dei guerrieri, e noi ignoriamo quale rapporto numerico vi fosse tra combattenti e non. Poi, partendo dal numero dei superstiti che giunsero in Terrasanta – argomento sul quale possediamo qualche dato quantitativo in più – è comunque impossibile dedurre qualsiasi cosa sul numero di quelli che partirono dall’Europa perché sappiamo con certezza che, lungo la strada, molti si aggregavano alla spedizione e molti l’abbandonavano; a prescindere, ovviamente, dai caduti.

Il più affascinante fra i problemi sollevati dalla prima crociata resta comunque quello del suo successo finale. I cristiani erano armati in modo inadatto sia alle condizioni ambientali e climatiche dei luoghi nei quali erano costretti a operare, sia al sistema di combattimento abituale ai Turchi, che consisteva in rapidi spostamenti e in massiccio impiego della cavalleria leggera e degli arcieri; non conoscevano i luoghi che attraversavano, né l’uso delle guide greche o indigene si rivelò felice;  le loro cognizioni di poliorcetica erano nettamente inferiori al bisogno, tanto che Gerusalemme fu conquistata grazie in parte al casuale intervento di una flotta genovese provvista di maestri abili nella costruzione di ordigni d’assedio. Né si deve dimenticare gli odii e le rivalità che dividevano principi e popoli e che spesso avevano sospinto l’impresa sull’orlo del fallimento, soprattutto quando – dopo la morte del Legato pontificio Ademaro – venne a mancare il mediatore rispettato.

Giovò certamente loro la sorpresa: i saraceni che occupavano l’Anatolia e la Siria (dilaniati essi stessi dai conflitti intestini e frazionati in molteplici staterelli) non si attendevano un’offensiva tanto repentina e caparbia, e tardarono a rendersi conto di quanto stava accadendo. I crociati ebbero inoltre la fortuna di trovare sul loro cammino comunità cristiane – armene, libanesi, siriane monofisite – che furono ben liete di aiutare dei fratelli in Cristo, anche se poi ebbero ampie ragioni di pentirsi delle scelte fatte e di rimpiangere il dominio saraceno. Sarebbe però un grave errore trascurare la fede, l’entusiasmo religioso, l’attesa messianica di quegli uomini, la loro sensibilità – acuita forse dai patimenti – che li faceva vivere in un’atmosfera tesa, densa di prodigi che i cronisti puntualmente riferiscono e che sarebbe  un errore attribuire sbrigativamente al «genere letterario» epico o agiografico, come hanno fatto troppi storici i cui sforzi sembrano essere stati tesi non tanto a comprendere le intime ragioni delle cose quanto piuttosto a «demitizzarle» usando magari gli argomenti frusti di un grossolano razionalismo che oggi ormai gli studiosi migliori – non sordi alle necessità di porre la storia in rapporto fecondo con le scienze umane – si sono fortunatamente lasciati alle spalle.

Così, il superamento delle gravi difficoltà fu determinato probabilmente da una fortunata coincidenza di fattori, molti dei quali imponderabili; ma fu anche il risultato della fede, della volontà, dell’eroismo, valori tutti da non dimenticare nel momento stesso in cui si sottolineano i motivi sociali, politici ed economici che determinarono l’esperienza crociata.

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UpUltimo aggiornamento: 20/06/06