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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


2. La Terrasanta, conquista effimera

1. Il regno di Gerusalemme

All’indomani della conquista di Gerusalemme, Goffredo di Lorena fu eletto dai principi crociati Advocatus del Santo Sepolcro.

A quel punto, i Franchi avevano conquistato un’ampia zona della Siria settentrionale – a sud-est dell’Antitauro e intorno al bacino dell’Alto Eufrate –, la stretta fascia costiera siro-libanese, che peraltro non controllavano del tutto perché molte città del litorale erano ancora in mano saracena, e tendevano ad assicurarsi il bacino del Giordano. Al nord, già si erano create due signorie autonome: il principato di Antiochia in mano a Boemondo di Taranto e la contea di Edessa sotto Baldovino di Boulogne. Questi due principi si erano estraniati dall’impresa e si erano dati a organizzare i loro nuovi possessi: in fondo, erano venuti oltremare per questo. Gli altri, mano a mano che scendevano verso sud, cercavano di ritagliarsi ciascuno un dominio personale. Il sistema feudale, languente in Europa, si riproduceva in oriente e rendeva fin da principio impossibile l’instaurazione di un forte regno.

Ma perché, invece dell’incoronazione di un re, si ebbe la designazione di un Advocatus? I cronisti ne attribuiscono l’iniziativa al clero nel quale abbondavano i Normanni e gli amici personali di Boemondo: bisogna a questo punto ricordare che, durante la lotta per le investiture, il papato aveva sempre considerato i Normanni lo scudo della Chiesa. La giustificazione ufficiale fu che «non era opportuno cingere corona d’oro là dove il Cristo era stato coronato di spine»: ma in realtà si voleva con ciò sottintendere che il dominio eminente sulle nuove conquiste spettava alla Chiesa, com’è provato dal fatto che nel linguaggio giuridico del tempo il termine Advocatus designava tecnicamente il laico posto a cura e a difesa degli interessi temporali dei vari enti ecclesiastici. Del resto, l’abitudine d’infeudare le conquiste recenti alla Chiesa e riaverle da essa come vassalli per crearsi così un valido titolo legale di dominio era – lo abbiamo già visto – diffusa in quel tempo. Ma, mentre in Inghilterra e in Italia meridionale ciò era servito a creare dei solidi regni accentrati, a Gerusalemme accadeva il contrario: i vari capi, grandi o piccoli, intendevano restare il più possibile liberi da ipoteche sovrane. In Europa, la partenza di tanti feudatari alla volta dell’oriente era stata una liberazione per i re e aveva reso possibile il progresso di quelle che sarebbero poi diventate le grandi «monarchie nazionali»: ma in Terrasanta quella classe di falliti e di emarginati si trascinava dietro le vecchie tendenze anarcoidi e centrifughe. La nuova società franco-siriaca nasceva sotto il segno di strutture storicamente arretrate.

Anche la scelta di Goffredo è indicativa. Contro una tradizione edificante corroborata dalla leggenda epico-romanzesca e perpetuatasi, dal secolo XVI in poi, attraverso la poesia del Tasso, il «pio Buglione» non era mai stato il capo assoluto e incontrastato dei crociati. La crociata, anzi, non aveva mai avuto capi, e l’unico che vi aveva goduto di un’auctoritas universalmente riconosciuta era stato il Legato pontificio Ademaro immaturamente scomparso. Se però c’era uno che si era atteggiato a capo della spedizione, questi era non certo Goffredo, ma Raimondo di Tolosa che, gettando ricchezze e speranze nell’impresa, si era tagliato dietro le spalle i ponti con l’Europa e nei momenti cruciali aveva anche assunto atteggiamenti quasi messianici compiacendosi di apparire il difensore dei pauperes. Tra le sue file abbondavano i mistici, i visionari, ch’egli proteggeva: sua, o comunque del suo ambiente, era stata l’iniziativa d’inaugurare il culto della cosiddetta «Santa Lancia d’Antiochia» che – a parte il suo valore come reliquia, troppo scopertamente dubbio – aveva effettivamente donato ai crociati una sferzata d’entusiasmo effimero ma salutare.

Fu proprio a causa della sua forte personalità, del suo carattere indomito e violento, che quest’uomo di grande prestigio personale fu scartato;  inoltre se ne temevano forse i troppo stretti legami con l’imperatore di Bisanzio, derivanti in gran parte dall’odio comune per i Normanni. Gli si preferì Goffredo, un uomo finito e già seriamente infermo,; che le fonti – parte il lorenese Alberto d’Aix, inventore del suo «culto» – sono d’accordo nel descrivere buon soldato, ma principe debole e irresoluto. Comunque stessero le cose, egli rimaneva il solo grande feudatario crociato disponibile una volta scartato Raimondo – giacché Boemondo e Baldovino non intendevano mischiarsi nelle cose di Gerusalemme; il conte di Fiandra e il duca di Normandia, da parte loro, avevano sciolto il voto e ambivano solo rientrare in patria.

Mentre quindi Raimondo cercava di conquistarsi in feudo la città di Tripoli – cosa che riuscì solo più tardi (1109) al suo erede Bertrando – Goffredo si dava alla difesa militare del Sepolcro, secondo le competenze che il titolo di Advocatus gli accordava, lasciando che fosse il patriarca latino di Gerusalemme Daiberto a governare. Ma quando il duca di Lorena morì (18 luglio del 1100) fu impossibile impedire che i suoi fedeli chiamassero a succedergli il fratello Baldovino: tempra ben altrimenti positiva, questi lasciò la contea di Edessa al cugino e accorse nella Città Santa, domò le resistenze, cinse la corona di re di Gerusalemme e con un’opera energica e al tempo stesso accorta riuscì non solo a tenere a freno i suoi vassalli diretti, ma anche a costringere il principe d’Antiochia e i conti di Edessa e di Tripoli a giurargli fedeltà, mentre caldeggiava d’altro canto la ripresa economica delle terre conquistate e guidava la completa conquista del litorale e il ristabilimento della sicurezza lungo le strade di pellegrinaggio e le carovaniere fino ad allora dominio incontrastato dei predoni e dei ribelli saraceni, sì che le comunicazioni tra il mare e l’entroterra e fra le varie città cristiane erano rese quasi impossibili.

Dal regno di Baldovino I (1100-1118) a quello di Baldovino IV (1174-1185), gli stati franco-siriaci si presentarono come una triade (la contea provenzale di Tripoli, il principato normanno di Antiochia, il regno stesso: escludiamo Edessa, che cadde nel 1146) di grandi signorie sotto il formale dominio eminente della corona gerosolimitana; ma ad Antiochia si faceva sentire forte la influenza dell’imperatore di Costantinopoli che non aveva mai rinunziato alla città e considerava quella di Beomondo un’usurpazione. Naturalmente ciascuno dei tre sovrani aveva i propri vassalli, e quelli del re – soprattutto i feudatari del Giordano – erano particolarmente riottosi e difficili da controllare. Anche se per tutto il XII secolo il trono di Gerusalemme resse, le frequenti contese familiari e l’insubordinazione dei nobili preparavano l’anarchia che avrebbe dominato incontrastata negli anni a venire e che avrebbe affrettato la rovina dei Franchi.

Né mancavano i problemi sociali: i crociati, al loro arrivo in Terrasanta, erano assai pochi e il loro numero si era ulteriormente ridotto perché molti, sciolto il voto sulla pietra del Sepolcro, avevano fatto ritorno in Europa. La minoranza franca si era dunque trovata in una terra ostile; inoltre le stragi indiscriminate nei primi tempi della conquista avevano spazzato musulmani ed ebrei (i pochi superstiti si erano affrettati a rifugiarsi in terra islamica) recidendo alla base la vita economica delle ricche città litoranee quali Acri, Tiro, Tripoli, Beirut, Sidone, la cui prosperità risiedeva appunto nell’operosità di quella borghesia di mercanti e di artigiani. Restavano, è vero, gli indigeni cristiani: libanesi, siriani, al nord anche greci e armeni; essi medesimi erano però guardati con sospetto dai nuovi padroni che li trovavano troppo simili ai saraceni, tacendo poi il fatto che le loro stesse attività perdevano di efficacia economica se tagliate fuori dal contatto con i grandi mercati saraceni quali Aleppo, Damasco, Mossul. Migliore era forse la situazione della campagna, dove il contadinato in gran parte musulmano non fu fatto oggetto delle stragi che si erano verificate entro la cerchia muraria delle città conquistate, e dove i feudatari – forse perché più aperti a comprendere le esigenze rurali, simili a quelle dei loro vecchi possessi europei, che non i problemi complessi della società urbana orientale ch’era loro estranea – si affrettarono a rimettere in piedi un minimo di strutture produttive. Al vuoto creatosi nelle città si cominciò a rimediare dopo che, con la conquista di Tiro del 1124, tutta la costa siriaco-libano-palestinese fu in mano ai Franchi. S’inaugurò allora una politica di tolleranza che indusse molti borghesi musulmani a stabilirsi di nuovo in quelle città che – chiunque ne fosse il padrone – restavano importanti perché erano i porti delle carovaniere provenienti, attraverso Siria e Mesopotamia, dalla Persia e dall’oriente estremo. Anche le colonie commerciali latine, createsi nel frattempo, contribuivano a riempire il vuoto demografico: di ciò riparleremo.

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UpUltimo aggiornamento: 20/06/06