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Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


2. La Terrasanta, conquista effimera

3. Mercanti e colonie commerciali

«Iliade di baroni, Odissea di mercanti»: con questa efficace definizione è stato colto il nucleo della diversa forma mentis secondo la quale la crociata fu sentita nel mondo delle armi e in quello dei traffici.

La possibilità di aprirsi uno sbocco nel Mediterraneo orientale non fu immediatamente colta in tutta la sua importanza dagli armatori e dai marinai occidentali. Tra le città marinare di allora, l’unica che potesse permettersi dei traffici internazionali era Venezia, dato che qualche altra presenza negli scali per esempio bizantini – alludiamo ad Amalfi – non era in grado di farle concorrenza e volgeva del resto rapidamente alla decadenza.

I Veneziani, oscillando fra l’ossequio formale e l’accorto appoggio politico, si erano ingraziati gli imperatori di Bisanzio e con la loro fiducia non avevano rivali nell’Adriatico, nello Ionio, nell’Egeo, dove il problema dei corsari saraceni praticamente non esisteva. Un trattato del 1082, ch’era in effetti un premio per l’appoggio prestato alle armi bizantine in occasione dell’offensiva di Roberto il Guiscardo in Epiro, consentiva loro di commerciare senza impacci daziari in tutto il territorio dell’impero e di tenere nella capitale e in altre città fiorenti colonie con relativi fondaci. Inoltre era abbastanza frequente per loro toccare città come Antiochia, Laodicea e la stessa Alessandria. I prodotti orientali che, con sicurezza già almeno dal secolo X, affluivano in quantità sia pur limitata in Europa, giungevano prevalentemente a Venezia e di là venivano inoltrati soprattutto per la via fluviale del Po.

Diversa era stata, fino al secolo XI, la condizione di Genova e di Pisa, il cui autonomo sviluppo era stato impacciato prima dai Longobardi e poi dalle strutture feudali franche. Oltre a questo, il Tirreno era stato teatro delle incursioni piratesche arabe che il sostegno delle potenze marinare infedeli in Sardegna, in Sicilia e nell’Africa settentrionale rendeva continue e virulente.

L’affermarsi progressivo delle città tirreniche sul mare procedette quindi di pari passo con le lotte contro gli infedeli: e c’è da dire che, se è vero che tali lotte avevano significato un momento caratteristicamente espansionistico al livello politico-economico, è anche vero che i motivi religiosi vi si mischiavano naturalmente in un mondo nel quale il linguaggio della fede era praticamente l’unico a disposizione di chi volesse esprimere qualunque tipo di tensione, di sensazione, di necessità o di volontà. La cattedrale di Pisa fu iniziata all’indomani dell’assalto del porto di Palermo (1063), con i proventi di quel saccheggio; ventiquattro anni dopo, il vessillo vermiglio di Pisa garriva sulle torri di al-Mahdiah, città corsara al nord del golfo di Gabes, e un anonimo Carmen in Victoria Pisanorum celebrava la conquista come fatta nel nome di Dio e dell’Apostolo Pietro. Toni non dissimili si trovano nelle fonti genovesi di poco posteriori (in Caffaro soprattutto), e per il loro carattere hanno permesso ad alcuni nostri studiosi di definire «precrociate» tali imprese.

Certo è che nel Mediterraneo avvenivano tali cose mentre in Spagna si attuava la Reconquista e mentre i pellegrinaggi al Santo Sepolcro si intensificavano: tutto pareva convergere verso la spedizione a Gerusalemme. Ma quando i primi contingenti cominciarono a partire per la Terrasanta, né a Genova né a Pisa se ne registrarono echi. Le due città erano in gravi travagli interni (si trattava in entrambi i casi della nascita del movimento comunale) e d’altra parte gli scopi dell’impresa proclamata a Clermont non erano chiari.

Genova si mosse per prima, pare su diretta sollecitazione papale, con due spedizioni navali nel 1097 e nel 1099, la seconda delle quali aiutò i crociati a costruire gli ordigni d’assedio che servirono per la presa di Gerusalemme. Seguì Pisa, con una flotta che giunse a Laodicea nel settembre del 1099; da allora, per i primi due decenni del secolo, si ebbe un ininterrotto seguito di spedizioni delle due città che furono determinanti nella conquista del litorale siro-babilonese. Venezia, da parte sua, guardò all’inizio con diffidenza alla nuova situazione che minacciava il monopolio dei suoi traffici orientali e che era sempre più malvista dalla sua grande alleata, la corte di Bisanzio: si ha notizia, addirittura, di scontri fra navi veneziane e navi pisane. Ma alla fine dovette prevalere l’idea che, dal momento che la nuova situazione creatasi nel Mediterraneo orientale era irreversibile, diventava necessario parteciparvi. Da allora i Veneziani, pur non perdendo di vista il fatto che il centro dei loro traffici era e restava Bisanzio, né tralasciando di curare i rapporti con i mercati egiziani, intervennero al pari delle altre città marinare in Terrasanta; più tardi, si aggiunse anche la concorrenza provenzale e catalana.

Nell’opera dei marinai italiani in appoggio alla crociata è necessario distinguere due aspetti. Dapprima, l’assalto e la conquista delle città saracene venne da parte loro considerato solo un buon affare immediato: ne conseguivano saccheggi e massacri spietati, da cui si tornava carichi di bottino e anche di reliquie lasciandosi alle spalle delle vere città morte. Nel contempo, però, si strappavano ai signori feudali franchi dei privilegi di commercio che furono fatti valere più tardi, quando si cominciò a sfruttare la situazione in modo più illuminato. A quel punto, si fondarono le vere e proprie colonie commerciali, piccoli comuni all’interno delle città economicamente più importanti. Si otteneva l’uso di un quartiere o almeno d’una strada e piazza con tutte le installazioni necessarie a una vita sociale autonoma: chiesa, fontana, forno, botteghe, fondachi, portici e case di abitazione. Nel corso del XII e del XIII secolo in Gerusalemme e in tutte le città più importanti della Terrasanta – Antiochia, Tripoli, Acri, Tiro, Giaffa e così via – si ebbero così una piccola Venezia, una piccola Pisa, una piccola Genova, ciascuna governata dai propri magistrati («consoli» o «baiuli») inviati dalla madrepatria o scelti dai coloni stessi. I rapporti di queste colonie con l’autorità feudale franca erano – a quanto risulta dalle leggi d’oltremare, le Assises de Jérusalem – improntati alla massima indipendenza delle prime rispetto alla seconda, e sappiamo che perfino il clero che serviva presso i coloni tendeva a non considerarsi legato all’episcopato franco ma piuttosto al vescovo della madrepatria. Meno chiari sono i rapporti, appunto, tra madrepatria e colonie, che talvolta sembrano assai stretti mentre talaltra si assiste addirittura alla rispettiva assunzione di linee politiche opposte.

Il contributo di questi nuclei di mercanti latini allo sviluppo dell’oltremare cristiano, al riallacciamento dei contatti con l’entroterra asiatico e alla rinascita economica dell’occidente fu assai ampio, ma ampi furono anche gli inconvenienti. Già la debole compagine statale del regno di Gerusalemme soffrì molto per la presenza delle colonie latine che godevano di privilegi troppo larghi – concessi quando lo sviluppo delle cose era imprevedibile – e che spesso sconvolgevano le città con le loro lotte civili che riproducevano le inimicizie dell’occidente. Oltre a ciò, la presenza dei mercanti era infida in periodo di guerra perché essi, dato il loro mestiere, tenevano molto all’amicizia dei potentati musulmani e si acconciavano spesso alla funzione di spie nei confronti dei loro fratelli in Cristo; né si deve passare sotto silenzio che erano mercanti cristiani a fornire ai saraceni, nonostante i divieti comunali e le scomuniche della Chiesa, certe merci di cui il mondo islamico scarseggiava e che erano fondamentali per la guerra, quali il legname, la pece, il ferro, le armi.

Infine, così come l’interesse mercantile aveva facilitato l’instaurarsi dei principati franchi, il superamento di tale interesse ne affrettò la caduta. Le piazze commerciali siro-palestinesi erano buone, ma non ottime: le spezie, per esempio, giungevano in maggior quantità e più a buon mercato ai porti saraceni di Damietta e d’Alessandria, dove non c’era pericolo che il flusso delle merci venisse intralciato o interrotto in periodo di crociata. Di qui l’interesse dei mercanti per i centri del delta del Nilo, ch’essi cercavano di sfruttare direttamente: sia tentando di persuadere i crociati a conquistarli sia – visto che ciò non era possibile – trasferendosi di preferenza là e abbandonando al suo destino l’economia della Terrasanta. Al Nilo si volsero soprattutto le attenzioni veneziane mentre Genova guardava con crescente interesse alle sponde del Mar Nero dal quale – soprattutto dopo le grandi conquiste mongole del Duecento – era possibile allacciarsi alla «via della seta» e all’Asia profonda. Solo i Pisani, il respiro della cui politica si faceva sempre più corto, rimanevano ancorati ai mediocri orizzonti palestinesi: e ciò fu, in misura non piccola, causa e al tempo stesso effetto della loro decadenza (la battaglia della Meloria, 1284, segnò com’è noto il tracollo della potenza politica pisana: se ne noti la quasi assoluta contemporaneità rispetto alla finale liquidazione del regno di Gerusalemme, 1291).

Né per i mercanti l’esaurirsi progressivo del movimento crociato fu un male: al contrario, esso coincise con un enorme allargarsi dei vecchi orizzonti commerciali, fino all’India e alla Cina, i cui tesori erano prima attingibili solo attraverso la mediazione degli empori musulmani. E insieme ai viaggiatori presero ad avviarsi i missionari, sì che l’ampliamento del nome cristiano, che non si era ottenuto con la spada, si ottenne invece con i contatti lucrosi dovuti alla ragione di mercatura. Senza Marco Polo non ci sarebbe stato Giovanni di Montecorvino.

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UpUltimo aggiornamento: 20/06/06