Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright

Didattica > Strumenti > Il movimento crociato > 3, 2

Strumenti

Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


3. Agonia di un ideale

2. La reazione dell’opinione pubblica

Da quanto abbiamo detto sopra non si deve pensare che la Curia romana abbia in qualche modo sconfessato mai, ufficialmente, l’ideale della crociata in Terrasanta. Ciò non poteva accadere, dal momento che su quell’ideale appunto si basavano le stesse posteriori costruzioni teologiche e canonistiche, l’apparato dei voti e delle decime, la giustificazione delle crociate volte contro i nemici del papato a qualunque livello: perché, insomma, la crociata era per i pontefici un modo di porsi non solo spiritualmente ma anche temporalmente – vorremmo dire militarmente – a capo dell’Europa.

Accadde però che, per reazione agli abusi e ai sofismi che in suo nome si commettevano e si sostenevano, la crociata (come tale, quindi in tutti i sensi e comunque si manifestasse) divenisse il bersaglio polemico di ogni sorta di oppositori della politica pontificia e di danneggiati da essa.

In un primo tempo, al sorgere di questo atteggiamento critico non fu estranea la delusione per i rovesci militari seguiti al miracoloso successo della prima crociata. La mentalità religiosa dell’epoca era permeata dall’idea di un’immanente giustizia di Dio (si pensi alle ordalie): in questo quadro la vittoria e la sconfitta in battaglia acquistavano il valore di altrettanti signa divini di approvazione o di disapprovazione, e ci si chiedeva come fosse mai possibile che il Signore abbandonasse proprio coloro che combattevano in Suo nome. Le spiegazioni di ciò erano varie: la colpa veniva gettata ora sui prelati mondani, ora sui principi prevaricatori, ora sui pellegrini che dimentichi della loro santa opera continuavano a peccare. In questo senso le sconfitte erano altrettante punizioni e al tempo stesso prove che il Cielo imponeva ai suoi figli. Faceva però la sua comparsa anche l’interrogativo angoscioso se la crociata fosse davvero voluta da Dio.

Salimbene da Parma riferisce che nel 1251, mentre Luigi IX era prigioniero dei saraceni, in Francia era impossibile raccogliere elemosine per la crociata poiché la gente mostrava nei confronti di essa il più violento disprezzo e diceva che Maometto era più potente di Cristo. Il buon frate si scandalizza per quelle bestemmie: in realtà passa però sotto silenzio la disperata delusione che è facile leggere sotto l’amara violenza delle invettive di cui parla; e «dimentica» altresì che i francescani e i domenicani che chiedevano elemosine per la crociata in quella Francia il cui re era in mano degli infedeli, non intendevano affatto organizzare una nuova spedizione per liberarlo. Tale questua era difatti a beneficio della «crociata» contro lo scomunicato Corrado IV di Svevia: mentre il più santo fra i re cristiani giaceva in catene, la Curia faceva accattare pro Christi nomine danaro da destinare alla crociata contro un cristiano!

Episodi del genere non erano del resto nuovi: la poesia trobadorica abbonda d’invettive contro Roma che lascia Gerusalemme nell’obbrobrio per scannare i cristiani, e la propaganda ghibellina aveva buon gioco nel ripetere – in buona o in mala fede – queste accuse.

D’altro canto, la resistenza e la diffidenza che ormai erano provocate dalla predicazione per la crociata si alimentavano anche di motivi economici precisi. Le decime e le elemosine imposte dalla Chiesa, gestite spesso da collettori senza scrupoli oppure concesse ai sovrani territoriali o appaltate a rapaci banchieri, avevano finito col provocare un moto crescente d’insofferenza: Lutero, all’alba del Cinquecento, raccoglierà frutti i cui semi erano stati sparsi da secoli. E alla classe mercantile in ascesa le proibizioni papali in materia di commercio con gli infedeli nuocevano non poco, così come nuoceva loro la stasi dei traffici e l’aumento dei prezzi delle merci orientali in tempo di «guerra guerreggiata» fra crociati e saraceni. Siccome spesso i mercanti – e soprattutto quelli delle città marinare – erano in rapporti d’affari e d’amicizia politica con la Curia, noi li sorprendiamo chiedere e ottenere di frequente – a peso d’oro, beninteso – lettere di deroga che permettessero loro di commerciare anche durante i periodi nei quali la cristianità cercava d’imporre il «blocco economico» nei confronti degli infedeli. Con premesse del genere, è facile immaginare l’efficacia di questi tentativi!

La verità era che la crociata non interessava più a nessuno. Nata da una società semimobile alla disperata ricerca di sbocchi, non serviva più ad una società urbana ormai stabilizzata come quella due-trecentesca, nella quale il motivo fondamentale del mettersi in viaggio era l’accudire ai propri affari, che avevano appunto bisogno di pace per svilupparsi.

Il Duecento conobbe una gran quantità di predicatori e di teorici della crociata; nella seconda metà del secolo gli scritti sul modo di recuperare la Terrasanta divennero anzi un genere letterario assai diffuso; ma si trattava di voci inascoltate.

Eppure, Gerusalemme aveva ancora chi la sognava. Non, si badi bene, quella terrestre, bensì quella celeste, confusa con la prima in una nebulosa ma violenta aspettazione escatologica. Il Nuovo Regno, la Gerusalemme Celeste, erano già stati le componenti d’un mito egualitario durante la prima crociata: lo furono ancora di più nel Due e nel Trecento, secoli profondamente toccati dalle speranze nel «Millennio». Dalla «crociata degli innocenti» del 1212 a quella detta dei pastoureaux che aveva percorso la Francia nel 1251 ai movimenti flagellanti del 1260 alle ondate pauperistiche del 1309 e del 1320, e poi attraverso i torbidi religiosi che accompagnarono la crisi economico-sociale trecentesca e la Peste Nera del 1347-1350 fino al movimento dei «Bianchi» sulle soglie del Quattrocento: è un seguito di avvenimenti spesso eterogenei fra loro, talvolta pacifici talvolta violenti – vere e proprie rivolte contro la società urbana che si appuntavano soprattutto sui ricchi, i preti, gli ebrei – ma dotati sempre di due fondamentali caratteristiche. Primo, l’essere espressione di un disagio tanto più forte quanto più si scendevano i gradini della scala sociale per giungere agli sfruttati della città e della campagna, quelli che vivevano ai margini d’un mondo del quale solo le fatiche, ma non il benessere li riguardavano, gli «esclusi». Secondo, il parlar un linguaggio di redenzione anche sociale – quello millenaristico, appunto – che tanti contatti anche esteriori aveva con le «crociate popolari» dei secoli precedenti e che soprattutto, dietro il mito della riconquista di Gerusalemme e della fine dei tempi, maturava l’ideale vigoroso anche se ambiguamente espresso d’un regno di giustizia.

© 2000
Reti Medievali
UpUltimo aggiornamento: 20/06/06