Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright

Didattica > Strumenti > Il movimento crociato > 3, 3

Strumenti

Il movimento crociato

di Franco Cardini

© 1972-2006 – Franco Cardini


3. Agonia di un ideale

3. Ancora qualche tentativo

Il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone (1309) assorbì la Chiesa in problemi essenzialmente interni: restavano quasi unici, a pretendere un nuovo massiccio intervento contro i musulmani, i cavalieri dell’Ospedale che si erano trasferiti a Rodi e stavano divenendo una potenza marinara, nonché il re di Cipro al quale interessava soprattutto il blocco economico. Difatti, se la Curia pontifìcia avesse sancito la definitiva inagibilità dei porti saraceni per i mercanti cristiani, Famagosta sarebbe divenuta automaticamente il centro di smistamento delle merci orientali verso l’Europa e il primo emporio del Mediterraneo. Pretese del genere incontravano però, inutile dirlo, la ferma resistenza delle repubbliche marinare e soprattutto di Venezia.

Ma nella seconda metà del secolo le prospettive cambiarono assai. La crisi economica, sociale e demografica si era fatta lentamente strada in occidente per scoppiare poi in tutta la sua gravità in occasione dell’epidemia; in Francia, la guerra dei Cent’Anni e le ipoteche della corona francese sulla Curia rendevano sempre meno consigliabile al papa la dimora avignonese contro la quale si levavano alte le proteste di tanti fedeli.

Il ritorno a Roma non era però concepibile senza una pacificazione all’interno della cristianità tormentata da guerre e da ogni tipo di conflitto; e la crociata sembrava una volta di più l’unico ideale adatto a riportare la concordia nell’Europa cattolica e a proiettare la violenza al di fuori di essa, dirigendola a uno scopo sentito come opera salutare. In questo senso i mistici che la predicavano con zelo ed entusiasmo – si pensi a santa Caterina da Siena – la consideravano prima di tutto un mezzo per affratellare nuovamente i cristiani e per eliminare le lotte fratricide. La crociata avrebbe dovuto essere «l’ultima delle guerre» e concludersi con l’instaurazione perpetua della pace e della giustizia. Guerra nel metodo era, insomma, «antiguerra» negli scopi.

Al contrario di quanto si sperava, il rientro del papa nella tradizionale sede di Pietro segnò nella vita della Chiesa l’inizio d’un periodo di nuove incertezze e di più accanite lotte destinato a durare oltre settantanni: al Grande Scisma d’occidente (1378-1417), chiuso col concilio di Costanza, seguì dopo un ventennio il Piccolo Scisma (1439-1449) in cui si riproponevano i grandi problemi relativi al rapporto fra papa e concilio e alla struttura in capite della gerarchia ecclesiastica.

Eppure, si profilava all’orizzonte un pericolo quale non aveva mai prima d’allora minacciato l’Europa. Una nuova tribù turca, l’ottomana, si era insediata in Anatolia all’inizio del secolo e, sfruttando i conflitti endemici che travagliavano i piccoli sultanati della penisola, era andata espandendo il suo potere in direzione di Bisanzio. L’impero greco, restaurato nel 1261 dopo la parentesi di cinquantasette anni dovuta all’occupazione latina, non era più che l’ombra di se stesso, angustiato per giunta da guerre civili continue.

Nel 1354 i Turchi occupavano Gallipoli, sulla sponda europea dei Dardanelli; nel ‘62 la vittoria ottomana di Adrianopoli, mentre spezzava le mire espansionistiche serbe, completava l’aggiramento di Costantinopoli. Sarebbe ormai bastata una piccola stretta.

Era dal tempo dell’invasione mongola, a metà Duecento, che l’Europa non subiva più minacce sul suo stesso territorio. Le crociate non erano mai state determinate dal bisogno di respingere un’offensiva, né i mori di Spagna avevano mai più dato segno di voler passare i Pirenei dopo l’VIII secolo. Adesso però l’avanzata ottomana metteva in pericolo tutto il corso inferiore del Danubio, i Balcani, l’Ungheria. Una crociata organizzatasi in gran fretta subì nel 1396, a Nicopoli, una tremenda sconfitta in gran parte dovuta anche all’imprudenza della cavalleria francese. Vero è che pochi anni dopo (battaglia di Ankara, 1402) gli Ottomani parvero travolti dalla furia di Tamerlano: ma è anche vero che la stella del grande conquistatore tartaro tramontò rapidamente com’era sorta e il suo sterminato impero asiatico si frantumò dopo la sua morte (1405). Viceversa gli Ottomani, fiaccati ma non schiacciati dalla sconfitta, ben presto si riebbero e presero ad espandersi verso Tracia, Bulgaria e Macedonia mentre nel contempo strangolavano lentamente l’impero bizantino in pratica ridotto alla sola capitale.

Furono ancora una volta i papi a farsi centro delle iniziative tendenti a rintuzzare l’offensiva musulmana. Ciò era molto importante per loro, in quanto li riproponeva quasi automaticamente alla guida dell’occidente e allontanava il problema delle rivalità fra gli stati europei, intervenendo nelle quali Roma era costretta a mettere di continuo in gioco il suo prestigio e in discussione la sua auctoritas. Inoltre vi era il miraggio dell’unificazione della Chiesa latina con quella greca, che i pontefici intendevano imporre all’imperatore di Bisanzio come conditio sine qua non per l’intervento delle potenze cattoliche sul Bosforo. Ciò costituiva, dal punto di vista del sovrano greco, un prezzo abbastanza modico se si trattava di salvare la corona: nel 1437 Giovanni VIII Paleologo venne difatti in Europa per visitare personalmente le corti d’occidente, e nel 1439 l’unione veniva solennemente proclamata al concilio di Firenze, nella chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Fedele agli impegni assunti, papa Eugenio IV bandiva nel 1443 la crociata. Ma l’appello del pontefice, mentre sollevò un’ondata di speranze nei paesi danubiano-balcanici, lasciò freddo il resto d’Europa. La guerra dei Cent’Anni non era ancora terminata; l’imperatore Federico III d’Asburgo non si fidava degli Ungheresi (che sarebbero stati i maggiori beneficiari d’una crociata vittoriosa) né del papa, e teneva una politica ambigua fra Corte papale e vescovi scismatici riuniti a Basilea; in Italia la nuova potenza impiantatasi nel meridione, l’Aragonese, concentrava su di sé l’attenzione degli altri stati; inoltre né Genova, né Venezia, né Firenze, che iniziava allora ad occuparsi dei traffici marittimi in oriente, avevano alcuna intenzione di rovinare i propri interessi impegnandosi apertamente a contrastare il sultano.

Restava Costantinopoli, sola con la sua paura: ma anche lì, l’opinione pubblica era tutt’altro che monolitica. Intanto c’era una forte corrente turcofila, alimentata dai motivi più eterogenei: il tornaconto economico, il timore di mali peggiori, il desiderio d’un potere comunque stabile, il rancore contro la dinastia regnante. Vi si aggiungeva lo stesso clero e soprattutto i monaci, araldi da sempre dell’odio contro i Latini; la Chiesa greca scorgeva chiaramente, e non a torto, che il compromesso accettato a Firenze era in realtà una capitolazione che risolveva i problemi dogmatici, teologici, liturgici e disciplinari a totale e unilaterale vantaggio delle tesi romane e a scapito della tradizione ortodossa. Un’occupazione ottomana, passate che fossero le tribolazioni dei primi tempi, avrebbe lasciato libertà alla Chiesa greca secondo le tradizioni tollerantistiche musulmane che i Turchi, pur nella loro rozzezza, non avevano motivo di mettere da parte: la «liberazione» latina, viceversa, avrebbe coinciso con la fine dell’autocefalìa. Meglio dunque, si diceva a voce sempre più alta, il turbante ottomano che la tiara romana.

L’aiuto militare dell’occidente, del resto, non si mostrava troppo efficace. Nel 1444, a Varna, i crociati subirono una sconfitta paragonabile a quella di Nicopoli di mezzo secolo prima. Nel 1453 il giovane sultano Maometto II, dopo un memorabile assedio, s’impadroniva di Costantinopoli ponendo fine al millenario impero del Bosforo.

L’eco sollevata dalla notizia che la «Seconda Roma» era caduta preda degli Ottomani provocò un’ondata di sgomento. Niccolò V, in una bolla emanata il 30 settembre di quell’anno, tornava ai simboli apocalittici: Maometto era il dragone rosso della visione giovannea, il vessillifero dell’Anticristo. In Francia, con la rioccupazione francese della Normandia e della Guienna, la guerra dei Cent’Anni era ormai in via di esaurimento; in Italia la pace di Lodi segnava nel 1454 la fine della guerra per la successione al ducato di Milano e le parti in causa additavano nell’avanzata turca la ragione del loro accordo, anche se i motivi reali erano un po’ diversi. Difatti la caduta di Costantinopoli nuoceva soprattutto agli interessi commerciali veneziani: Francesco Sforza temeva però che la corona francese – adesso che era liberata dalla pressione militare dell’Inghilterra – rivendicasse l’eredità viscontea di Milano, dal momento che i Visconti erano imparentati con gli Orléans.

Una serie di contingenze sembravano quindi rendere possibile uno sforzo unitario dell’Europa cristiana, al quale si dichiaravano disposti soprattutto Alfonso d’Aragona re di Napoli e il duca Filippo di Borgogna. Ma in realtà anche queste speranze si rivelarono ben presto fallaci: la crescente potenza borgognona preoccupava Francia e impero, mentre in Italia Veneziani e Fiorentini si contendevano il favore del sultano per cercare di soppiantarsi vicendevolmente nei mercati d’oriente; le forze cattoliche, insomma, avevano ben altro a cui pensare. L’ultimo grande paladino della crociata, Pio II Piccolomini, convocava nel 1459 a Mantova un congresso per discutere con i principi cristiani i particolari della spedizione: il fatto che tale solenne assise andasse quasi deserta fornì la misura del disinteresse europeo per la questione e della generale tendenza a disimpegnarsi.

Non si trattava solo di calcolo politico né d’insensibilità religiosa: la diplomazia occidentale aveva preso atto che i Turchi erano una potenza politica come tutte le altre, che si poteva combattere ma con la quale ci si poteva anche accordare con reciproca utilità. Alla base di ciò vi era, fra l’altro, un mutamento abbastanza importante delle categorie mentali usate nell’ambito della società cristiana. La nuova cultura umanistica aveva recuperato alcuni valori irenistici propri del cristianesimo primitivo, corroborati dall’ideale della renovatio saeculi del quale si faceva il perno d’un nuovo sentire ecumenico. Nel De Pace Fidei Nicolò Cusano estendeva fino ai Turchi e ai pagani tutti la speranza di fraternità e di rinnovamento; e nel 1461 lo stesso Pio II, che pur doveva morire di lì a tre anni col sogno della crociata nel cuore, redigeva una strana Epistola a Maometto sul cui significato fervono ancora le discussioni, ma che esprimeva comunque un’ammirazione profonda per il sultano e giungeva ad augurargli audacemente la conquista del mondo a patto che si convertisse. Questo profondo desiderio di pace e d’incontro di tutti i popoli in un cristianesimo rinnovato, più intimo, più aderente alla lettera e allo spirito evangelici, doveva trovare di lì a poco il più lucido e commovente interprete in Erasmo da Rotterdam. Si potrebbe pensare che a sorreggere l’ideale della guerra contro i Turchi restava comunque l’incentivo economico. Ma ci si sbaglierebbe. Non tanto perché, intendiamoci, si poteva benissimo commerciare con i Turchi, dal momento che se ciò è vero, è vero anche che se certi empori fossero stati totalmente in mano cristiana i vantaggi che i mercanti occidentali avrebbero potuto trarne sarebbero stati assai maggiori di quanto non furono dovendo fare i conti con le pastoie e gli arbitri delle autorità ottomane. Il fatto principale era un altro: il bacino orientale del Mediterraneo stava diventando sempre meno importante come nodo di collegamento fra Asia ed Europa. La circumnavigazione dell’Africa, compiuta a opera dei Portoghesi, faceva affluire sui loro mercati i prodotti orientali a prezzi di concorrenza mentre le coste egiziane e siro-palestinesi, a causa della cattiva amministrazione mamelucca, perdevano quasi del tutto importanza e la stessa Costantinopoli – ormai divenuta Istanbul – decadeva. La scoperta dell’America fece il resto: da centro del mondo commerciale, l’asse Venezia-Istanbul-Alessandria si trovava sbalzata alla periferia orientale dei traffici, il cui epicentro si spostava invece sulle coste atlantiche facendo la fortuna dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra.

Che cosa restava dunque della crociata, che aveva riempito di sé tanta parte della storia basso-medievale? Poco più che il ricordo, rinverdito magari talvolta da particolari contingenze che sembravano resuscitare i vecchi ideali ma che si rivelavano immancabilmente fuochi di paglia: la lunga contesa contro i corsari barbareschi nel Mediterraneo, la battaglia di Lepanto del 1571, la liberazione di Vienna dall’assedio turco nel 1683 grazie a Giovanni Sobietzki fecero ancora una volta lampeggiare la secolare contesa fra croce e mezzaluna sollevando effimeri entusiasmi. Ma era, naturalmente, illusione.

© 2000
Reti Medievali
UpUltimo aggiornamento: 20/06/06