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Agricoltura e società nel Medioevo

di Giovanni Cherubini

© 1972-2006 – Giovanni Cherubini


1. Caratteri generali dell'agricoltura medievale

2. Debolezze e «scoperte» dell'agricoltura

I successi o gli insuccessi dell’agricoltura sono connessi – nel Medioevo molto più di ora – alle condizioni dell'ambiente naturale: clima e natura del suolo. Due diversi tipi di rilievo dividono grosso modo il continente lungo una linea est-ovest. La maggior parte della Spagna, la Francia sud-orientale, la Svizzera, la maggior parte dell’Italia – eccettuata la Valpadana – la Grecia, la penisola balcanica al di sotto dei Carpazi ed escluso il bacino danubiano comprendono regioni montagnose o generalmente al di sopra dei 500 metri sul livello del mare. Al nord, invece, a partire dall’Inghilterra meridionale e dalle coste occidentali della Francia, si stendono fino agli Urali e al Caucaso vasti bassopiani, raramente al di sopra dei 200 metri. Su entrambe le zone la media annua delle precipitazioni si situa tra 500 e 1000 millimetri. Uniformità questa, tuttavia, solo apparente. Le precipitazioni sono infatti utili all’agricoltura solo se adeguatamente distribuite nel corso dell’annata, ciò che avviene solo nella grande pianura europea. I venti prevalenti nell’Europa occidentale, che spirano da occidente, vi portano aria addolcita dall’influenza dell’Atlantico e contribuiscono a rendere eccezionalmente mite il clima della regione. Nella grande pianura la piovosità è regolarmente distribuita, le estati sono piovose, la temperatura moderata. La piovosità del quadrimestre giugno-settembre si aggira sui 230 millimetri a Londra e sui 250 millimetri a Berlino. Singolare contrasto con i 130 millimetri di Roma o i soli 60 di Lisbona nello stesso periodo dell’anno. Le regioni meridionali, tagliate fuori dall’influenza climatica dell’Atlantico, durante la stagione estiva mostrano un regime pluviometrico completamente diverso da quello delle pianure del nord. Nell’Italia peninsulare e lungo la costa dalmata la piovosità si accentua in due stagioni, quella autunnale e quella primaverile. Mano a mano che si scende in ambiente più francamente mediterraneo, le estati sono sempre più secche. La siccità estiva domina anche nella penisola iberica, sebbene la media delle precipitazioni vari notevolmente passando dal nord-ovest atlantico al sud-est mediterraneo.

Anche la natura del suolo nelle varie zone d’Europa risente delle diverse condizioni climatiche oltre che delle diverse condizioni orografiche. Nelle regioni mediterranee i terreni sono leggeri e generalmente secchi. Dato che il clima è caldo, l’evaporazione dell’acqua superficiale è particolarmente forte, così che il contenuto minerale del suolo non può essere disciolto. Sui ripidi pendii, invece, il rapido deflusso delle acque provoca un dannoso processo di erosione. Al nord, le «terre brune» della grande pianura europea sono sufficientemente profonde, pianeggianti e più ricche di humus. Con una opportuna aggiunta di sali minerali risultano molto adatte a una coltivazione intensiva. A oriente, nelle «terre nere» della Russia, ricche, oltre che di humus, anche di calcio, il suolo è naturalmente fertile.

Su questi terreni così diversi domina nel Medioevo una agricoltura di carattere spesso «estensivo», nonostante diversità notevoli tra zona e zona. Probabilmente in nessun settore della vita medievale come in quello agricolo una delle tipiche caratteristiche della mentalità del tempo, cioè l’orrore della novità, ha agito con maggiore forza antiprogressista. Innovare doveva apparire talvolta una mostruosità, un peccato. Per molti secoli il Medioevo occidentale non ha avuto nessun trattato tecnico, perché l’elite culturale giudicava tali cose indegne di essere scritte. Ancora all’inizio del XII secolo il monaco tedesco Teofilo, pur autore di un’opera intitolata Diversarum artium Schedula, si preoccupa più di dimostrare che l’abilità di un tecnico è dono di Dio che di istruire artigiani e contadini. Diverso invece (ma siamo all’inizio del XIV secolo) l’atteggiamento del bolognese Pier de’ Crescenzi, che con il suo Liber ruralium commodorum si riallaccia alla illustre tradizione degli agronomi romani.

Le conseguenze del mediocre equipaggiamento tecnico si fanno sentire in primo luogo nel settore agricolo. La terra è avara perché gli uomini sono incapaci di trarne tutto il profitto possibile. L’attrezzatura è rudimentale, le arature, poco profonde, la terra lavorata male. L’aratro antico, a vomere simmetrico di legno temperato al fuoco o rivestito di ferro, adatto ai suoli superficiali e accidentati delle regioni mediterranee, persiste a lungo anche dove la sua funzionalità è chiaramente discutibile. Senza dubbio la comparsa e la diffusione dell’aratro a vomere dissimmetrico e a versoio, con l’avantreno mobile, munito di ruote, tirato da un attacco più vigoroso, rappresentò per le pianure europee un notevole progresso. Tuttavia i tentativi di miglioramento dell’aratura sembrano identificarsi più con una ripetizione del lavoro nel corso dell’annata agricola che con un perfezionamento degli attrezzi. Si diffonde poco a poco in certe regioni, al più tardi intorno al XII secolo, l’abitudine di arare due volte la parte di terra lasciata annualmente a riposo. Più comunemente tuttavia l’aratura, doveva essere fatta una sola volta prima della semina. Che essa fosse talora molto superficiale risulta anche da una miniatura inglese della prima metà del Trecento, dove si vede che le zolle venivano frantumate a mano con una mazza.

La terra, scavata, rimossa malamente, avrebbe potuto ricostituirsi solo con l’impiego ripetuto di sostanze fertilizzanti. Ma l’agricoltura medievale rivela, anche per questo aspetto, la sua arretratezza. Il concime più conosciuto e utilizzato era naturalmente il letame. E quello di capre o suini che vivevano nella foresta, dei greggi che pascolavano la maggior parte del tempo all’aria aperta, andava in gran parte perduto. Per i grossi capi risulta che molto spesso le comunità agricole non erano in grado di nutrirne un gran numero. In certe zone più intensamente popolate e coltivate si può chiaramente notare poi, negli ultimi secoli del Medioevo, un conflitto aperto tra agricoltura e allevamento brado del bestiame. Ma in qualche caso ciò non significava necessariamente una più bassa disponibilità di letame per le terre a cultura. In Toscana anzi, ma probabilmente anche altrove in Italia, i proprietari fondiari cittadini intervenivano con i loro capitali anche nella dotazione di bestiame da lavoro dell’azienda rurale o comunque, magari a dure condizioni, ne favorivano l’acquisto da parte dei contadini. Stabulati in un apposito ambiente della casa rurale, o in una vicina capanna, due buoi o un paio di vacche, un’asina, dieci o quindici pecore potevano talvolta fornire un concime sempre insufficiente, ma comunque interamente utilizzabile. Conseguenza di tutte queste deficienze organiche dell’agricoltura medievale è che la terra, lavorata male e poco arricchita, tende di regola a esaurirsi presto ed è necessario lasciarla riposare perché si ricostituisca.

Ma è opportuno precisare subito che anche il Medioevo ebbe le sue scoperte e conobbe dei progressi. Il più notevole riguarda proprio la parte di terra da lasciare ogni anno a riposo, la sostituzione cioè della rotazione biennale con la rotazione triennale. Nel sistema di rotazione biennale, l’unico conosciuto dai romani, circa metà della terra veniva seminata con cereali d’autunno, mentre l’altra metà veniva lasciata a riposo («maggese»). Il secondo anno le funzioni tra le due porzioni si invertivano. Nella rotazione triennale la superficie arabile era invece divisa in tre parti. Una di queste veniva seminata in autunno con frumento e segala. Nella primavera successiva veniva seminata invece la seconda porzione con avena, orzo, piselli, ceci, lenticchie o fave. La terza porzione di terra arabile era lasciata a maggese. Nell’anno successivo la prima porzione veniva seminata con colture primaverili, la seconda rimaneva a maggese, la terza riceveva grani d’autunno. Quando, a partire almeno dal XII secolo, si cominciò, sia nella rotazione biennale che in quella triennale, ad arare due volte il maggese invece che una come si era fatto nell’VIII-X secolo alla fine di giugno, per eliminarne meglio le erbe e aumentarne la fertilità, la rotazione triennale vide crescere la sua produttività. Lynn White calcola, in modo chiaro ma un po’ astratto, che dei contadini che avessero da coltivare 600 acri a rotazione biennale e arassero due volte il maggese, avrebbero arato ogni anno 900 acri (300 + 600) per soli 300 messi a coltura. Utilizzando invece gli stessi 600 acri a rotazione triennale e arando due volte il maggese, essi avrebbero arato ogni anno 800 acri (200 + 200 + 400) per 400 di seminativo. L’incremento della produzione, con la nuova rotazione, sarebbe già stato di un terzo. Ma dato che il mutamento riduceva 100 acri di aratura ogni anno, si sarebbero potuti aggiungere, senza lavoro ulteriore, 75 acri (25 + 25 + 50), nel caso che ci si fosse potuta procurare con la bonifica o il diboscamento nuova terra da seminare. Gli stessi contadini sarebbero stati così in grado di coltivare, in luogo di 600, 675 acri dei quali 450 seminativi. Rispetto ai 300 della rotazione biennale il vantaggio del nuovo sistema sarebbe stato del 50%.

Fra i molti vantaggi della nuova rotazione c’era quello della facilitazione data ai nuovi dissodamenti, all’abbattimento delle foreste o al prosciugamento dei terreni paludosi. Un altro, forse non meno notevole, fu, nella grande pianura europea, la sostituzione del cavallo al bue nel lavoro dei campi. Il primo, già migliorato nelle razze per l’uso militare che ne faceva l’aristocrazia, era allora nettamente più forte e resistente del secondo, le cui razze erano molto lontane dal perfezionamento e raffinamento raggiunto più tardi. Mentre il bue consuma erba, il cavallo consuma avena e solo la rotazione triennale – l’avena è una coltura primaverile – permetteva di produrre la biada necessaria per i cavalli.

Altre notevoli innovazioni di quella che è ormai consuetudine fra gli studiosi chiamare una vera e propria «rivoluzione agricola» riguardarono il miglioramento della trazione animale, che rese più efficace l’unione dell’aratro. Per il cavallo, al pettorale che soffocava la bestia togliendole forza, venne sostituito il collare di spalla. Per il bue entrò nell’uso il giogo frontale. Lo sforzo diventa così molto più efficace, la forza di trazione ne risulta enormemente accresciuta. Inoltre l’uso, che ora (X-XI secolo) si diffonde, di ferrare gli zoccoli del cavallo ne rende più sicuro e più spedito il passo.

Per calcolare l’incidenza economica di una «scoperta» è necessario studiarne l’espansione geografica. Da Plinio veniamo solo a sapere che nel I secolo la coltura dei cereali di primavera era eccezionale nella regione di Treviri. Poi la rotazione triennale compare improvvisamente alla fine dell’VIII secolo, con notizie databili al 763, 783, 800. Data la povertà della documentazione non si può affermare, naturalmente, con assoluta sicurezza che essa non fosse già abbastanza diffusa nella Gallia del VII, del VI o anche del V secolo, al tempo dell’impero, quando si ebbero anche altre innovazioni tecniche. D’altra parte, ancora in pieno Trecento, la rotazione triennale era lontana dall’esser diventata generale anche nelle zone pianeggianti dell’Europa – Inghilterra, Francia a nord della Loira, Germania, parte dei Paesi Bassi – che si presentavano come il terreno ideale per le loro condizioni climatiche. Troppo alto è sempre il peso dei fattori demografici, economici, o anche genericamente «culturali», perché si possa tutto ricondurre alle caratteristiche dell’ambiente naturale. Ciò non toglie che nelle regioni mediterranee furono in primo luogo le condizioni climatiche e la minore fertilità del suolo a rendere impossibile l’adozione del nuovo sistema e a mantenervi, sostanzialmente inalterata, la rotazione biennale dell’antichità. Nell’arretrata e conservativa Sardegna gli stessi termini di aradorias e di agrile, di vecchia tradizione romana, sono una spia sicura dell’antichità del sistema.

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UpUltimo aggiornamento: 26/06/06