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Agricoltura e società nel Medioevo

di Giovanni Cherubini

© 1972-2006 – Giovanni Cherubini


1. Caratteri generali dell'agricoltura medievale

3. Il ruolo delle carestie e il mito dell’autarchia

Le vicende climatiche, una siccità eccezionale o una eccessiva piovosità o un freddo troppo intenso, le sempre possibili variazioni insomma del clima che di regola si registra in una determinata regione, rendevano un’agricoltura scarsamente tecnicizzata e rudimentale come quella del Medioevo preda continua dei capricci della natura. La carestia, dati i bassissimi rendimenti della semente, era una presenza ricorrente, anche perché il sistema di circolazione dei cereali era spesso difficoltoso, mentre le capacità di conservazione delle scorte negli anni di più alta produttività erano molto ridotte.

Sulle carestie medievali, nonostante il continuo avanzamento della ricerca, le nostre conoscenze sono in verità ancora approssimative. In ogni modo «gli annali carolingi registrano accuratamente le epidemie, le carestie e le epizoozie e parlano di questi mali più spesso che delle battaglie» (J. Dhondt). Pare tuttavia che i progressi agricoli abbiano diradato, dopo il primo terzo dell’XI secolo e per più di duecento anni, le grandi carestie generali. Nondimeno l’irregolarità dei raccolti, connessa indissolubilmente all’agricoltura del tempo, nei secoli XI e XII «portava qua e là la penuria, e turbe di affamati, in cerca di soccorsi alimentari, premevano periodicamente alla porta dei monasteri ». Per queste comunità « l’elemosina aveva carattere istituzionale» e assolveva nel contempo «ad una regolare funzione, economica» (G. Duby). I monaci di Saint-Benoît-sur-Loire nutrivano annualmente da cinquecento a settecento mendicanti. Il grandissimo monastero di Cluny divideva ogni anno, all’inizio della Quaresima, duecentocinquanta maiali salati fra sedicimila poveri. È significativo che per la parte opposta dell’Europa, cioè per un territorio meno densamente popolato di molte regioni occidentali o meridionali e ricco di cereali, la Cronaca di Novgorod registri, per il XII e XIII secolo, copiose notizie sugli alti prezzi dei cereali, sui cattivi raccolti, sull’insufficienza dell’approvvigionamento, sulle carestie ricorrenti.

Si capisce come il mito dell’autarchia e dell’autosufficienza domini il mondo rurale. Certamente, e lo si è osservato (J. Le Goff), nelle grandi proprietà – in pieno Medioevo – il mito dell’autarchia non è solo la conseguenza di una precisa realtà economica e di una società continuamente sull’orlo della catastrofe alimentare, ma anche di una precisa forma mentis. Ricorrere all’esterno, non produrre tutto ciò di cui si ha bisogno non è solo, per la classe signorile, una dimostrazione di debolezza, ma è anche, soprattutto, un disonore. Nel caso delle proprietà monastiche evitare qualsiasi contatto con l’esterno è conseguenza diretta dell’ideale spirituale della solitudine, essendo l’isolamento economico condizione della purezza spirituale. Ma tutto questo è assai meno valido, ad esempio, per le campagne toscane del Tre-Quattrocento, per una regione cioè largamente servita dalle più intense correnti commerciali del tempo e perciò teoricamente in grado – e in pratica questo avveniva – di far affluire grano dall’estero. Eppure nelle campagne toscane di quest’età il contadino, il «mezzadro», vuole nel suo podere in primo luogo il grano di cui sfamarsi, poi, un gradino più sotto, il vino, poi l’olio, poi, se possibile, qualche pecora, qualche maiale, polli e piccioni. E quel che è più significativo, questo desiderio, lontano dall’essere combattuto dai proprietari cittadini delle terre su cui i mezzadri lavorano, viene da loro programmaticamente incoraggiato. Infatti la borghesia cittadina, sui cui ideali mercantili, sulle cui capacità affaristiche si sono scritte tante pagine brillanti e precise, mira in fondo ancora, non troppo diversamente dal signore laico o ecclesiastico di qualche secolo prima, all’autosufficienza, alla sicurezza alimentare.

Per cogliere questo lato fondamentale della vita medievale non ricorreremo a esempi eccellenti già fatti da altri. Ci accontentiamo di rimandare ancora una volta a tarde fonti toscane, di una regione cioè all’avanguardia nell’Europa tre-quattrocentesca. Si leggano in questa chiave le molte novelle del Sacchetti che parlano di solenni mangiate, di commensali che, posti intorno a un unico «tagliere», fanno a gara per mangiare più in fretta del compagno onde riservarsi una parte più consistente. Si leggano svariati episodi di quella raccolta divertentissima che sono i Motti e facezie del piovano Arlotto. Quel buon arnese del piovano, un cuore generoso in fondo, deve continuamente provvedere a famiglie di contadini che non hanno grano in casa, che non hanno, qualche volta, neppure un pezzo di pane con cui mettersi a tavola.

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UpUltimo aggiornamento: 26/06/06