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Agricoltura e società nel Medioevo

di Giovanni Cherubini

© 1972-2006 – Giovanni Cherubini


2. Gli uomini e lo spazio coltivato

1. Il regno della foresta e dell’incolto (V-X secolo)

«Silva infructuosa roncare…», «et per lungo in silva quanto runcare potueritis de terra bona…». Queste espressioni, relative a monasteri e contadini della pianura padana, sono, nel loro sgrammaticato latino, emblematiche di lunghi secoli del Medioevo rurale. C’è chi ha suggerito scherzosamente, per questa lunga fase della storia europea, battezzata in cento modi diversi, anche la qualifica di «età della colonizzazione». Ma prima vediamo quale fosse la situazione di partenza.

Nei primi secoli il paesaggio era dominato dalle foreste, che ricoprivano gran parte del continente. Nei paesi mediterranei, per la verità, il clima secco e il degradamento del suolo avevano in molti casi impedito che rinascessero i grandi boschi distrutti nell’antichità. Ma alcune zone della Spagna come il sud-ovest e l’Algarve, costituivano un’immensa pineta; in Italia il Piemonte era ricoperto di boschi; nella pianura padana una enorme foresta copriva, ad esempio, gran parte del territorio veronese, fra i fiumi Tartaro e Menago; «la palude, interrotta qua e là da fitte foreste, si stendeva uniforme su gran parte della frangia inferiore adiacente al Po…, conferendole un aspetto selvaggio» (V. Fumagalli). Il vero regno della foresta era comunque più a nord. Nella Gallia la conquista romana aveva dato il via a una intensa distruzione di foreste, soprattutto nella parte meridionale. Nelle regioni settentrionali, meno romanizzate, foreste ed economia forestale avevano alla fine dell’impero un ruolo molto importante. Più boscosa era alla stessa data la Germania. Tuttavia le foreste meglio studiate sono quelle dell’Inghilterra. Un fitto mantello ricopriva il Kent, il Sussex, l’Essex, l’East-Anglia. Gli alberi circondavano da presso anche la regione di Londra. Altre grandi distese esistevano un po’ ovunque.

Lontana dall’essere abbandonata a se stessa, la foresta, almeno nelle zone più vicine ai nuclei abitati, occupava nella vita del tempo un posto economico di rilievo. Gli uomini la vedevano in modo abbastanza diverso da noi. I pinastri erano considerati alberi da frutto. Le pine erano particolarmente adatte per accendere il fuoco e in Provenza si facevano seccare i semi che servivano come cibo. L’albero più pregiato era tuttavia la quercia, che forniva ottimo legname da costruzione e cibo per i maiali. Legno pregiato era anche quello del castagno, i cui frutti fornivano in molte regioni la base dell’alimentazione.

Nella foresta si potevano raccogliere i frutti, si poteva pescare negli stagni e cacciare la selvaggina. Lì si trovava il miele, unica sostanza edulcorante del tempo. Ma la foresta era soprattutto preziosa per il pascolo, particolarmente per quello dei maiali, ghiotti di faggiuole e di ghiande. La carne di maiale, il lardo soprattutto, era parte essenziale del nutrimento. Il legno infine, oltre che materiale da costruzione, era l’unica sorgente di calore contro il freddo invernale «che minacciava gli uomini nelle loro fragili capanne, spesso fatte solo di frasche intrecciate» (J. Dhondt). Studiare le fasi della colonizzazione agricola senza tener presenti le vicende del popolamento sarebbe procedimento discutibile. E in effetti la messa a coltura di nuove terre, cui si associa spesso la fondazione di nuovi villaggi, è da molti decenni uno dei metodi di cui gli studiosi si sono serviti per ipotizzare un incremento della popolazione a partire da un certo momento dell’alto Medioevo. Ma in quale secolo fissare il momento più basso? Negli ultimi secoli dell’impero, nel VI, nel VII o nell’VIII secolo? Manca una qualunque fonte che possa permettere di rispondere con precisione a questi quesiti. Tanto più è impossibile, per il lunghissimo periodo che va dall’agonia dell’impero alla fine del XIII o all’inizio del XIV secolo, stabilire fasi interne di durata relativamente breve (cinquanta, cento anni), durante le quali la tendenza generale si sia interrotta o accelerata. L’affermazione, ad esempio, che «un temporaneo incremento di popolazione si è senz’altro verificato tra il 750 e l’850» (G. Fourquin) e che «in seguito» si è avuto, almeno in certe zone, «un brusco arretramento», appare più un postulato che una certezza, almeno allo stato attuale della ricerca. Quale posto poi assegnare alla pandemia di peste del VI secolo, la «peste di Giustiniano», nelle vicende demografiche del continente? Lo stesso di quella del XIV secolo di cui parleremo più avanti? Tutto fa in effetti pensare che la sua incidenza sia stata notevole, anche se non disponiamo di dati numerici sull’entità delle vittime. Si può dunque supporre che il punto più basso nei livelli demografici sia da fissare proprio alla fine del VI secolo? Qualche studioso ha avanzato anche le sue ipotetiche cifre. Si capisce come su questo terreno gli errori, anche macroscopici, siano facili. Sarà perciò opportuno dare a queste cifre non altro che un significato di larghissima approssimazione.

Secondo lo storico americano Josiah Cox Russell la popolazione dell’Europa — parte orientale esclusa — sarebbe scesa da 25.600.000 abitanti intorno alla nascita di Cristo a 18.800.000 prima del 543 e a soli 14.700.000 abitanti dopo il 600. La boscosa Germania — nei confini dell’odierna repubblica federale — non avrebbe avuto, secondo Wilhelm Abel, nel VI secolo, cioè dopo le grandi migrazioni, più di 600.000-700.000 abitanti, con una densità di 2,4 o 2,8 individui per chilometro quadrato. Sempre secondo il Russell la popolazione europea sarebbe poi risalita a 22.600.000 abitanti intorno al 950. Sull’incremento concorda, a prescindere dalla sua vera entità, M. K. Bennett, anch’egli convinto, d’altra parte, della grave crisi demografica del tardo impero e dei primissimi secoli del Medioevo (la punta massima della popolazione sarebbe stata raggiunta verso la fine del II secolo, ma in Italia i sintomi di spopolamento sono precedenti, e di una penuria hominum si può forse parlare non solo nel tardo impero, ma già nel II secolo a.C. per il Mezzogiorno e per il Lazio, nel I sec. a.C. per il resto della penisola).

Al declino demografico si accompagnò una forte ruralizzazione della vita del continente — il discorso vale naturalmente per le zone effettivamente romanizzate e «urbanizzate» — e un marcato declino delle città, evidenziato, tra l’altro, dalla riduzione dell’anello murario e dall’allargarsi, al suo interno, di spazi disabitati e coltivati. «La terra diventava quasi l’unica fonte di sussistenza, guadagno e ricchezza» (P. J. Jones). Ma la decadenza era grave anche nelle campagne, per le quali le fonti documentano l’abbandono di centri abitati, l’avanzamento di agri deserti e di inculti, il che fa supporre un arretramento della migliore agricoltura romana verso forme più tipicamente medievali di agricoltura «estensiva» e la conversione, in certe zone, anche sotto l’influenza germanica, dell’agricoltura in pastorizia. Il diboscamento massivo, il pascolo sregolato sui latifondi creatisi dopo le guerre puniche, il declino della coltivazione e l’abbandono dei lavori idraulici romani provocarono in varie regioni italiane impaludamenti malarici.

Le popolazioni germaniche penetrate entro l’impero pare che dal punto di vista strettamente demografico abbiano poco contribuito, in un senso o nell’altro, a modificare la situazione. Esse rimasero un’esigua minoranza rispetto alla popolazione totale, soltanto il 5% secondo il Pirenne. La consistenza complessiva dei vari popoli invasori varia per la verità moltissimo nella valutazione dei vari studiosi, dimostrazione eloquente dell’assoluta impossibilità di arrivare a conclusioni sicure. Per i visigoti, ad esempio, si oscilla tra 70.000 e 500.000 persone, «ma un fatto è certo: questi popoli erano tutti poco numerosi». Tuttavia «la loro partenza fu sufficiente a vuotare quasi completamente intere zone della Germania» (G. Fourquin). Si deve d’altra parte aggiungere che neppure le loro stragi, sulle quali in passato si è forse un po’ esagerato, devono aver troppo inciso, in senso opposto, sulla situazione demografica dell’impero. Fin verso la fine del X secolo il paesaggio agrario dell’Europa è ancora, nel complesso, un «oceano di terre incolte» punteggiato da isolotti coltivati. Ciò non vuol dire che la prima ripresa demografica e la riduzione a coltura dello spazio boscoso o incolto sia andata ovunque di pari passo. Né va dimenticato che non identiche erano le condizioni di partenza fra le varie regioni. I pochi e isolati dati che gli studiosi hanno potuto mettere insieme fanno supporre in verità, già per il IX secolo, densità demografiche molto varie. All’inizio del secolo, otto parrocchie situate nella parte meridionale dell’attuale banlieu parigina sembrano suggerire che già a tale data la zona fosse molto fittamente popolata. Gli otto villaggi, vicinissimi ma non contigui, annoveravano 4100 abitanti, con una densità di circa 39 abitanti per kmq. Solo un po’ meno alta la densità nei dintorni di Saint-Omer: 34 abitanti per kmq. Ma questi dovevano essere livelli limite. Già molto rari dovevano essere i 20 abitanti per kmq che si incontravano nel Westergoo (Paesi Bassi) verso il 900. Più diffusa doveva essere una densità oscillante tra i 9 e i 12 abitanti. Queste erano le cifre per i dintorni di Lille nell’868-869, per i dintorni di Munster più tardi (inizio dell’XI secolo), per la Frisia e l'Oostergoo (Paesi Bassi) intorno al 900, per l’Inghilterra intera nel 1086 (ma la contea di Warvick, ad esempio, era completamente colonizzata nella sua parte meridionale e, al contrario, completamente coperta di boschi in quella settentrionale). Certe zone della Mosella o certe altre degli attuali Paesi Bassi non avevano forse raggiunto, invece, tra l’800 e il 900, densità superiori ai 4-5 abitanti per kmq. Addirittura fino al XII secolo la Brie orientale appariva un «deserto boschivo» fra la Champagne, punteggiata di centri abitati fin dall’epoca romana, e l’Ile de France, intensamente colonizzata.

Non si deve tuttavia credere che le foreste dell’alto Medioevo fossero sempre vigorose. Spesso erano anzi mal tenute, molto rade e rovinate, soprattutto quando sorgevano ai margini o in mezzo a zone più fittamente popolate, da uno sfruttamento disordinato. Per dimostrare come i bei fusti da lavoro fossero rari si cita spesso un’avventura di Sigieri di Saint-Denis (m. 1151). L’abate cercava dodici grosse travi per la costruzione della sua stupenda chiesa abbaziale. I carpentieri si meravigliarono che egli volesse cercarle nella grande foresta di Iveline, dominio del monastero, perché il sire di Chevreuse, che teneva in feudo dall’abbazia la metà del bosco, aveva fatto man bassa degli alberi per costruire le sue fortificazioni. Nonostante il consiglio di acquistare i tronchi nel Morvan, Sigieri non si dette per vinto e li trovò nei suoi possessi, ma si parlò di miracolo.

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UpUltimo aggiornamento: 26/06/06