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Agricoltura e società nel Medioevo

di Giovanni Cherubini

© 1972-2006 – Giovanni Cherubini


2. Gli uomini e lo spazio coltivato

8. La commercializzazione dei prodotti agricoli

I prodotti agricoli conoscono, a partire dall’XI secolo, una crescente commercializzazione e non pare che per questo aspetto la crisi del XIV secolo rappresenti una vera inversione di tendenza anche se ancora non è possibile calcolarne, su scala continentale, le influenze su eventuali mutamenti nei prodotti oggetto di scambio e sul loro volume, stabilire cioè se lo scambio dei prodotti si adeguò semplicemente alla loro più ridotta produzione e alla loro più ridotta richiesta da parte di una popolazione meno numerosa o se, viceversa, vi furono mutamenti ulteriori. Per i cereali, ingrediente principale dell’alimentazione, pare comunque certo che il punto massimo sia da situare intorno al 1300, cioè al culmine dell’espansione demografica. La lunga tendenza dei prezzi, salvo impennate durante le cattive annate, dimostrerebbe in seguito una diminuzione della richiesta. Già dopo la prima grave crisi del 1315-1317 si registra un primo sensibile calo temporaneo sia in Inghilterra che nell’Ile de France.

Dopo un nuovo generale rialzo che dura fin verso il 1370, il calo dei prezzi dei cereali panificabili, molto forte, pare diventare generale: 63% in Inghilterra, 76% a Francoforte, 59% a Cracovia. Anche in Alsazia, salvo un incremento lievissimo per l’avena, i prezzi calano nettamente nella seconda metà del Trecento rispetto alla prima metà: il frumento da 96 denari a 74, la segala da 95 a 56, l’orzo da 50 a 24. Il fenomeno non avrebbe invece toccato l’Italia settentrionale, dove l’indice del prezzo del frumento continua a salire: 106,8 nella prima mela del secolo, 112,2 nella seconda metà. Aumento molto lieve e in singolare contrasto con i forti incrementi registrabili nei centocinquant’anni precedenti, ma tuttavia sfasato rispetto al resto dell’Europa occidentale. Almeno per l’economia lombarda è del resto aperta la discussione se essa, nelle difficoltà del Trecento, non costituisca «un’eccezione alla regola» (G. Miani) [1]. Per certe regioni l’andamento del prezzo della terra conferma perfettamente le tendenze al ribasso dopo un secolare incremento. In Danimarca, fatto uguale a 100 il prezzo del 1334-1339, si scende a 60 nel 1340-1345, si risale a 65,7 nel 1350-1369, si precipita a 37,1 nel 1370-1389. In Svezia, fatto uguale a 100 il prezzo del 1278-1304, si raggiunge la punta altissima di 314 nel 1318-1349, per scendere poi a 303 nel 1350-1359, a 225 nel 1360-1379, a 149 nel 1400-1409. Concomitanti paiono, secondo recenti ricerche, i risultati per una città toscana. A Pistoia l’affitto di uno «staioro» di terra aveva reso staia 1,50 di grano nel 1201-1225, staia 2,30 nel 1226-1250, staia 2,67 nel 1251-1275, staia 2,50 per il periodo 1276-1350, ma con il 1351-1375 si cala a 1,60 e si scende a 1,50 nel 1376-1400, a 1,40 nel 1401-1425.

L’estensione del mercato e le distanze tra zone di approvvigionamento e zone di consumo erano spesso notevolissime. Fra i trasporti, quello per mare, totale o parziale, costituiva per i cereali quello di gran lunga più importante, perché più facile e meno costoso. Per questa ragione città marinare con un misero entroterra — è in Italia il caso di Genova — erano di regola meglio approvvigionate e più al sicuro dalla fame di quanto non lo fossero i centri dell’interno circondati da campagne intensamente coltivate. In ogni modo il volume degli scambi era strettamente determinato dalla densità demografica della zona importatrice, dal suo grado di «urbanizzazione», cioè dalla percentuale di popolazione non addetta ai lavori agricoli e concentrata in città o nei centri maggiori del territorio. Dati i bassi rendimenti della terra, anche un vasto territorio poteva essere lontano dall’autosufficienza anche in annate di raccolto normale.

Talvolta discutibili, i calcoli che sono stati fatti sono tuttavia utili per dare un’idea delle capacità di assorbimento di derrate alimentari da parte dei centri urbani e delle possibilità di approvvigionamento delle campagne circostanti. L’approvvigionamento di Opole, nella Slesia, all’inizio del Duecento, sarebbe dipeso dalla produzione cerealicola proveniente da sessanta villaggi di dieci aziende ciascuno, che fornivano al mercato il 10-11% della loro produzione. Tra regioni fortemente urbanizzate e popolate, esportatrici di prodotti industriali, di capitali e di servizi, e regioni produttrici di derrate alimentari e di materie prime si vennero in molti casi a costituire veri e propri legami di natura «coloniale». Così in genere avvenne tra le grandi città dell’Italia centro-settentrionale, come Venezia, Genova, Firenze da un lato, la Sicilia, la Puglia, la penisola balcanica, i porti del Mar Nero dall’altro. I fiorentini, il cui contado, pur intensamente coltivato e puntigliosamente organizzato dai proprietari cittadini, era nella prima metà del Trecento nettamente insufficiente ai bisogni anche nelle annate normali, spendevano negli anni di carestia, per l’acquisto di cereali, somme notevolissime, nell’ordine di varie decine di migliaia di fiorini.

I caratteri dell’agricoltura medievale e gli assillanti bisogni alimentari esigevano che i cereali fossero sempre al centro delle coltivazioni e che a loro soprattutto si rivolgessero anche le richieste del mercato internazionale. L’aspetto delle campagne tendeva perciò a uniformarsi più di quanto non permettessero clima e natura del suolo. Rarissima è, di regola, la monocultura specializzata. Coltivazioni più particolari come quelle orticole occupano gli spazi immediatamente a ridosso delle città ed entrano anzi negli spazi vuoti all’interno delle mura. Del tutto eccezionale, dettata insieme dalla natura e dalla relativa facilità per la cittadinanza di approvvigionarsi di grano, è, per fare un esempio, la situazione sul ripido versante marino delle montagne alle spalle di Genova. Situazione morfologica e dolcezza del clima destinano la riviera alle colture del vino e dell’olio e vi impediscono la coltura granaria. Qualcosa di simile avveniva sul Garda, sulle cui rive i grandi proprietari delle città più vicine concentravano i loro oliveti. Se non per una vera coltura specializzata alcune zone si distinguevano tuttavia per alcune colture preponderanti. Tali i vini francesi, le cui vicende e le cui fortune sono ben note. Ma l’espressione di «coltura preponderante» usata da Guy Fourquin va ulteriormente precisata. Neppure in una zona di grandi vigneti come l’Ile de France la vite ha mai occupato più del 10 o 20% del suolo coltivato. La nudità delle terre è del resto notevole anche in una zona di coltura promiscua come la Toscana nel XIV e XV secolo. Su dodici zone-campione del contado fiorentino all’inizio del Quattrocento, in sette grano e biade — queste ultime con percentuali mai superiori a dieci — costituivano più del 50% del reddito dominicale nelle terre di proprietà cittadina. In due altre zone superavano il 40%. Il vino è sempre presente con percentuali consistenti e anzi in tre zone superava il valore del grano e delle biade messi insieme. Molto meno importante la raccolta dell’olio, superiore al 10% dei raccolti solo in quattro zone-campione e in una sola superiore al 20%. Le colture cerealicole seguivano più di ogni altra la distribuzione degli abitati, spesso spingendosi in zone troppo alte e poco adatte. La vite, in Italia, cercava di seguire i cereali il più da presso possibile, ma finiva per concentrarsi in prevalenza nelle zone più vicine alle città, più «umanizzate» e meglio servite dagli investimenti dei capitali cittadini. Qualcosa di simile risulta per il territorio aretino all’inizio del Quattrocento. Fino a un miglio e mezzo dalle mura cittadine le terre coperte di viti — di regola su campi a grano — giungevano al 33,6% del totale. Da qui a cinque miglia dalle mura la percentuale scendeva invece al 14,8. La comparsa del bosco, sconosciuto nella prima zona, andava in questa seconda fascia a completo detrimento della coltura viticola mentre il lavorativo nudo vedeva anzi crescere leggermente la percentuale occupata.

Certo solo il clima, oltre che particolari vicende storiche, potevano rendere così diverse, pur in questo comune predominio dei cereali, gran parte delle colture mediterranee da quelle dell’Europa centro-settentrionale. Grazie agli arabi furono importanti in Sicilia gli agrumi, il fico d’India, la palma da datteri, il lazzeruolo o azzeruolo, i bagigli, la susina piccola (celeca), il carrube, il ribes, lo zibibbo, lo zucchero, il «cubèle» (nome volgare di una specie di pepe), la mora prugnola di macchia, il pistacchio, il sesamo. Alcuni fiori, o anche alcune piante officinali, si diffusero poi in tutto l’Occidente. Gli stessi agrumi risalirono tutta la penisola e alcune specie giunsero fino al lago di Garda. In ogni modo, accanto al suo grano, la Sicilia inviava sui mercati europei, non diversamente del resto dalla Spagna, anche questi prodotti del Mediterraneo. E non sempre la stessa frutta era destinata alle tavole. L’agricoltura arabo-sicula dette infatti origine a notevoli specialità anche nel settore profumiero. Il bergamotto e il fiore d’arancio dettero vita con le loro essenze odorose al profumo di bergamotto e alla famosa «acqua nanfa», di cui parlano tante fonti letterarie.

[1] Di diverso significato pare invece la marcata ascesa del prezzo delle derrate alimentari registrata da Ciro Manca per il mercato di Cagliari nella seconda metà del Trecento. L’ascesa sarebbe riconducibile alla particolare situazione politico-militare della Sardegna, alle asprezze della guerra terrestre e marittima fra aragonesi, genovesi e isolani.

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UpUltimo aggiornamento: 26/06/06