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La predicazione nell'età comunale

di Carlo Delcorno

© 1974-2005 – Carlo Delcorno


14. Il primo monumento della predicazione volgare: il «corpus» delle prediche di fra Giordano da Pisa

L'uso del volgare nella predicazione ai laici dovette essere fin dal XIII secolo frequente soprattutto in Toscana, ma solo all'inizio del Trecento, a Firenze, per iniziativa di alcuni uditori, viene conservata una vastissima raccolta di prediche (circa 700), tenute in varie chiese e piazze fiorentine, ma soprattutto in Santa Maria Novella, da fra Giordano da Pisa (1260-1311). Preso l'abito domenicano nel convento di Santa Caterina in Pisa, egli aveva percorso le tappe obbligate del dotto domenicano: dopo gli studi a Bologna e a Parigi, aveva a sua volta insegnato nelle scuole domenicane della Provincia Romana (Siena, Perugia, Viterbo). Nel 1302 approda al convento di Santa Maria Novella e viene affiancato come lector al maestro Remigio de' Girolami. Giordano non si dedica solo all'insegnamento, ma con un'energia eccezionale si dà alla predicazione, intensa soprattutto dal 1303 al 1305. Egli si rivolge al gran pubblico che si accalca per ascoltarlo sulle piazze della città, ma cura in special modo quei gruppi di laici che si raccolgono nelle numerose confraternite affiliate a Santa Maria Novella. Tra questi laici vanno cercati i raccoglitori (certo più d'uno) dei sermoni giordaniani; a loro è riservata una serie triennale di collazioni vespertine sui primi capitoli del Genesi, secondo un programma di grande ambizione, se si pensa che il commento del primo libro della Scrittura è appannaggio del magister, e che tutto sommato costituisce una rarità nell'esegesi contemporanea. Sfortunatamente possediamo solo il primo e il terzo ciclo sul Genesi, essendo smarrito quello tenuto nel 1305-1306.

La cultura di fra Giordano è vasta e tutt'altro che comune. Accanto agli autori più noti alla tradizione omiletica (Agostino, Gerolamo, Gregorio Magno, san Bernardo, Giovanni Grisostomo e Giovanni Damasceno, Boezio, lo pseudo Dionigi), egli cita con precisione ed esplicitamente Aristotile «il sommo filosofo e il re de' filosofi» (v. TESTO N. 18c), di cui conosce, probabilmente attraverso i commentari di Tommaso d'Aquino, la Fisica, la Metafisica, la Politica, soprattutto l'Etica Nicomachea, un libro che rinnova completamente le coordinate morali del Basso Medioevo. Frate Tommaso d'Aquino, «quel savio uomo», è ricordato solo una volta con ammirazione e affetto da Giordano, in una conversazione su san Paolo tenuta a pochi suoi fedelissimi; ma tutta la sua predicazione si ispira alle idee tomiste, insegnate ufficialmente nelle scuole domenicane già dalla fine del XIII secolo. Come il suo diretto superiore, Remigio de' Girolami, egli persegue l'opera di divulgazione delle dottrine di san Tommaso, già iniziata una generazione precedente da Aldobrandino Cavalcanti. Soprattutto nel ciclo di prediche sul Credo tenute nella quaresima del 1304-1305 [1], e nel citato ciclo sul Genesi, fra Giordano raggiunge una notevole capacità di espressione filosofica. Non a torto dantisti della classe di un Barbi, di un Maggini, di un Sapegno, hanno spesso commentato passi della Commedia e del Convivio con citazioni dalle prediche di fra Giordano. Vi è la stessa aria di famiglia: non che tra i due vi sia un vero e preciso contatto, ma le idee, a volte le espressioni e le immagini, sono le stesse, attinte a una identica cultura. Giordano non fu insensibile alla letteratura profana: conosce Vegezio, la cui strategia viene allegoricamente adattata alle battaglie dell'anima; cita Orosio, le Metamorfosi di Ovidio, definito «pessimo pagano» e «omo carnale e vizioso». Le sirene, i centauri, Ercole, Atlante, Ulisse e Circe fanno una fugace apparizione nelle sue prediche, naturalmente interpretati in chiave allegorica. Non mancano riferimenti alla letteratura in volgare: Giordano cita il Serventese del Maestro di tutte le arti di Ruggieri Apugliese, un giullare senese; dimostra di avere una certa conoscenza dei romanzi [2], anche se ostenta verso di essi disprezzo affermando che «sono tutti favola e poca verità ci ha». Sembra che egli abbia avuto una notevole preparazione linguistica: nella sua opera si trovano citazioni francesi, riferimenti alla cultura e alla lingua ebraica e greca, e perfino citazioni dall'arabo [3]. In particolare egli non si stanca di esaltare, con un entusiasmo quasi preumanistico, la bellezza del greco, «la più bella lingua del mondo». La prosa giordaniana ha giustamente interessato il lessicografo, fin dal Cinquecento, ma è degna di attenzione anche da un punto di vista strettamente letterario, soprattutto per l'uso abile e discreto dell' exemplum. Nella sua predicazione si contano non meno di sessanta esempi, tratti dalle raccolte più note (che abbiamo citato nel cap. 8) e perfino dalla Summa e dal De Malo di Tommaso d'Aquino. Il motto arguto, la punta epigrammatica, il dialogo sciolto e vivace di impronta popolaresca segnano i momenti migliori di questa prosa narrativa: per essi Giordano merita a pieno diritto il posto di iniziatore della novellistica sacra in volgare. Il corpus giordaniano è un prezioso e vasto affresco della vita fiorentina del primo decennio del Trecento. Se i riferimenti a fatti precisi politici e militari sono scarsi – si ricorda la giornata della Lastra, l'assedio di Pistoia, i tentativi di riconciliazione tra Bianchi e Neri – in ogni predica si possono spigolare notizie sulla situazione sociale ed economica di Firenze, sulle tensioni che dall'esterno e dall'interno minacciano la vita della Chiesa. Il problema della povertà tocca ormai anche la coscienza dei laici, raggiunti dalla vivissima predicazione degli Spirituali francescani, e certo nota a Giordano, che sembra conoscere le argomentazioni dell'Olivi. Per il predicatore domenicano non si tratta soltanto di giustificare agli occhi del proletariato cittadino lo spettacolo della ricchezza degli ecclesiastici (v. TESTO N. 18b), ma soprattutto di guidare la coscienza di uditori che in gran parte appartengono alla borghesia mercantile, detentrice del potere politico in Firenze. Giordano, come i suoi confratelli, ritiene necessaria e di volontà divina la distinzione tra ricchi e poveri, senza la quale non vi sarebbe il bene delle elemosine, via regale per i ricchi borghesi che intendano esercitare la «povertà in ispirito», una sorta di usus pauper laicale. Vi sono spesso nelle prediche giordaniane cenni patetici alle condizioni dei contadini, dei marinai, ridotti a mangiare « pane biscotto verminoso che si spezza colle scuri», delle filatrici sfruttate disumanamente dai maestri della lana: ma si avverte bene che il discorso del predicatore non è rivolto a queste classi, bensì vuole illuminare la mente e purificare i costumi di mercanti, banchieri, imprenditori, fattori delle Compagnie, membri delle potenti Arti fiorentine. Giordano ha una conoscenza capillare del mondo mercantile, in particolare dell'Arte della Lana (v. TESTO N. 18a). Dietro i rimproveri e l'indignazione del moralista si legge una sorta di irresistibile ammirazione per l'audace avarizia di questi uomini che si avventurano lungo tutte le rotte e le piste del commercio, da Parigi ad Alessandria d'Egitto, dall'Inghilterra alla Provenza, celebrando quella che è stata definita «l'epopea della mercatura».

[1] L'anno a Firenze iniziava il 25 marzo, giorno dell'Annunciazione: perciò la quaresima cadeva tra la fine dell'anno e l'inizio del nuovo.

[2] Cita ad esempio la leggenda napoletana dei figli di Amone, caduti nella difesa di Napoli e sepolti nella grotta di san Gennaro; paragona i Magi ai cavalieri erranti.

[3] In una predica del Quaresimale 1305-1306 (15 marzo: n. LIV della mia edizione) Giordano cita una traduzione araba del Vangelo, e i copisti dei codici più autorevoli si sforzano di riprodurre alla meglio i segni arabici.

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UpUltimo aggiornamento: 02/07/2005