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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


Brani critici

2. Comunità urbana e bene comune

(J. COMBLIN, Théologie de la ville, Paris, 1968, pp. 165-166, 293-298).

La città ha creato la storia, ha fatto apparire la necessità di fissare un calendario. La collaborazione che si estende al di là del cerchio dei contatti sensibili implica un sistema di riferimento del tempo: le ore, le settimane, i mesi, i punti di orientamento per situare gli anni che possano essere accettati da tutti. Inoltre i lavori collettivi esigono una memoria collettiva, degli archivi per annotare ciò che si è fatto e prevedere ciò che resta da fare. La città ha bisogno di bilanci per cui la memoria individuale del padre di famiglia non basta. Bisogna inventare dei sistemi di numerazione e di segni per rappresentare gli oggetti. L'alfabeto è in progetto implicitamente nella fondazione della città. Da questa memoria collettiva doveva nascere la storia. Solo la città, d'altra parte, conosce avvenimenti; nel villaggio non ci sono che dei ritmi, non c'è niente di nuovo. Sono le città che incontrano avvenimenti: costruzione di monumenti pubblici, grandi lavori, assedi, conquiste, disfatte e vittorie. Questo sarà il contenuto della storia, di cui l'oggetto è la vita sopra-individuale. Ciascuno conosce il proprio sviluppo individuale, biologico e psicologico, questa è una storia incomunicabile, ma in città ciascuno è inserito in opere che sorpassano l'esistenza individuale. Ciascuno è parte di avvenimenti collettivi, ciascuno è partecipe di un'esistenza sopra-individuale. Questa esistenza diventa cosciente con la mediazione della storia. Per mezzo suo ciascuno apprende a che età entra nell'esistenza collettiva: nessuno è asservito puramente e semplicemente a lavori che gli sono estranei; ciascuno conosce il passato della città, prevede il suo avvenire e gli è dato di vivere un'esistenza di cui l'ampiezza, il valore, l'efficacia superano infinitamente l'esistenza individuale. Nella città ciascuno può sentirsi conquistatore, vincitore, costruttore di monumenti; doma la natura, i fiumi, gli animali. Ciascuno si sente in comunicazione con tutte le città del mondo grazie al commercio, allo scambio di idee, di beni culturali, di forme estetiche.

È vero che la storia può corrompersi anch'essa, e trasformarsi in panegirico di re e di potenti, può trasformarsi in propaganda, ma anche con i suoi difetti aiuta a prendere coscienza dell'uomo e delle sue possibilità, al di là degli stretti limiti del suo clan, dell'esistenza individuale o familiare.

La città non è solamente il luogo degli individui e delle loro associazioni, il luogo degli scambi e della comunicazione da cui deriva la libertà, essa è anche una comunità, una comunità globale, una totalità non semplicemente materiale, un'insieme di volumi messi in relazione tra loro, ma una totalità umana. Ciò non vuol dire una specie di sopraindividuo, ma una comunità. Perché essa sia una città autentica, bisogna che tutti i suoi cittadini siano riuniti insieme. Non è invano che si parla di città vivente, o di animo della città: la città ha una personalità. Ciascuna ha il suo carattere, e ciò è talmente vero che i cittadini si identificano con la personalità della loro città. L'assumono e si sentono colpiti dalle critiche e inorgogliti dagli elogi: del resto sono loro che agiscono, sono loro la città. L'appartenenza alla città è un fenomeno paragonabile all'appartenenza alla famiglia o al popolo, ed è diversa dall'appartenenza ad associazioni secondarie o volontarie: essa si esprime nella fierezza che il cittadino prova per la sua città. La rivalità o l'emulazione fra città è un fenomeno ben conosciuto, che si esprime nei monumenti o negli edifici pubblici, destinati a rialzare il prestigio della città, nelle parole o nelle attitudini di disprezzo di fronte alle città rivali, con gesti di aiuto reciproco e di solidarietà al momento delle prove collettive. Davanti al pericolo d'inondazione, di assedio, d'incendio, di bombardamento, la città risponde unitariamente con una sola reazione, con un solo impulso e come una famiglia o un popolo. Una tale solidarietà è sorprendente, perché gli uomini che ne partecipano non si conoscono personalmente... ma è il solo fatto di abitare in una stessa città che è sufficiente a formare una comunità e un sentimento di partecipazione. Che cosa è che costituisce il legame comunitario della città? Si invoca la memoria collettiva: in effetti la città è una specie di memoria collettiva, una memoria posta nelle pietre, nelle masse architettoniche. Le pietre raccontano avvenimenti vissuti in comune, che hanno segnato un destino comune. Ma ciò che costituisce soprattutto il legame della città, il supporto della sua anima, l'incarnazione della sua totalità, sono i luoghi di incontro, che del resto sono spesso nello stesso tempo dei luoghi carichi di memorie. Anche se sono stati frequentati per poco, essi sono carichi di storia e gli incontri che vi si collocano acquistano una maggiore intensità, perché si inseriscono in una continuità. È nei luoghi di incontro che la città trova in qualche modo il suo stile ed è necessario un contatto fisico con questi luoghi affinché il cittadino rinnovi la sua appartenenza alla città.

Nelle città più antiche, spesso furono i templi a ricoprire questo ruolo. La religione condensava lo spirito della città e le conservava la sua impronta. La città greca non si accontentò più dei templi e aggiunse l'agorà, il teatro e lo stadio, centri della coscienza della città. A Roma questi furono il foro e il circo. Come i templi, tutti questi luoghi servivano alla rappresentazione che la città dava a se stessa. Vi recitava la sua parte, offriva a se stessa uno spettacolo. Nel Medioevo, ci fu da una parte la cattedrale, che serviva allo stesso tempo da borsa, da teatro, da palazzo, da foro e da luogo di riunione; e ci fu dall'altra parte la piazza, che si è mantenuta come ai nostri giorni. Le piazze maggiori sono in verità le testimoni dei grandi avvenimenti vissuti in comune; sono cariche di senso comunitario, e in ogni manifestazione che vi si svolge si manifesta lo spirito della città…

L'inumanità delle città industriali appare proprio in questo: interminabili file di case senza centri, senza luoghi d'incontro. Sono accampamenti, non città; non c'è rappresentazione, non vi accade niente, non vi si accumula nessuna forza segnata nei luoghi e nelle pietre. Esse vivono, cioè il tempo vi passa, ma non vi si accumula, non vi si concentra niente…

I centri sono sempre più ingombrati dai grandi magazzini, dalle sedi sociali delle banche e delle società industriali, dagli edifici amministrativi. È questa la funzione dei centri? Non sembra.

In effetti i centri hanno prima di tutto una funzione di dialogo, d'incontro e di rappresentazione: ma non si tratta dell'incontro del mercante con il suo cliente, bensì del cittadino con il cittadino. Invece di essere affollato durante le ore di lavoro, il centro dovrebbe essere concepito in modo tale da essere affollato la domenica e i giorni di festa, durante le ore di riposo: le funzioni economiche e amministrative possono infatti esercitarsi altrove e con molta più efficacia.

Forse il problema consiste nel fatto che la città contemporanea, la megalopoli, non ha più uno spettacolo da dare a se stessa, non ha più vita civica, vita collettiva. I due aspetti del problema sono legati: senza l'anima della città non c'è possibilità di costituire un centro, ma senza il centro non c'è la vita della città. Una cosa è certa: se i centri spariscono o si trasformano in quartieri amministrativi o commerciali, o peggio in musei, come nelle vecchie città europee, la città è condannata a morire. Non si può credere che i mezzi di comunicazione di massa, che sono dei mezzi di contatto a distanza, possano sostituire i centri. Questi mezzi danno degli spettacoli inerti, nei quali gli uditori e gli spettatori non sono in alcun modo attori. La città è invece uno spettacolo in cui ciascuno deve assumere il suo ruolo. I mezzi di diffusione di massa inculcano l'idea che la città è opera dell'amministrazione, cioè della forza magica degli uomini che la presiedono, inducono alla sottomissione passiva, alla burocrazia. Non possono essere altro che strumenti d'informazione o di contatto all'interno di funzioni particolari. Quando si tratta di quella funzione umana, globale e concreta, che è la città, bisogna che ci sia il contatto concreto e la partecipazione concreta. Non invano i greci esigevano la presenza fisica dei cittadini alle assemblee. Come organizzare la riunione materiale dei cittadini è certamente il problema cruciale delle città d'oggi e di domani, perché è ben evidente che i modelli del passato non sono adattabili alle grandi masse delle città nuove.

Gli Stati moderni hanno privilegiato le loro capitali e reso «provinciali», cioè tristi e piatte, le altre città; hanno fatto delle capitali i luoghi dei grandi spettacoli nazionali: parate militari, feste nazionali, rivoluzioni e colpi di stato. Tali spettacoli però non servono che a inebriare le folle; a ispirare il rispetto per la potenza dello Stato: sono addirittura il riflesso della gloria dello Stato piuttosto che il riflesso della vita degli uomini. In questi casi, lo Stato ha ucciso la città e la prima condizione per la riattivazione è la struttura federativa della nazione, mettendo lo Stato al servizio dell’autonomia delle città.

Perché, in fin dei conti, lo spettacolo che le città devono darsi è quello della loro libertà e della loro autonomia, il dramma che devono recitare è l'esercizio della libertà.

Tutto ciò induce a pensare che la città è in ultima analisi l'incarnazione di quello che la tradizione teologica medievale chiamava il bene comune. Essa è il bene comune materialmente presente.

Le teorie moderne riportano generalmente il bene comune alla società in astratto e il bene comune stesso diviene di conseguenza un'astrazione; ma le società umane hanno un corpo e il bene comune deve avere una consistenza materiale.

Questo bene comune non è qualche cosa situato al di fuori dell'uomo o al di là dell'uomo. È il bene della comunità umana, perché la persona non si manifesta che nella comunità.

In concreto, la comunità degli uomini è la città e, di conseguenza, il bene comune è la città. La subordinazione di tutti al bene comune trova la sua espressione concreta nella costruzione, nella salvaguardia e nel dinamismo della città. Nessuno è libero di abitare, di circolare, di scambiare, di lavorare, di agire secondo i suoi soli interessi personali. Sarebbe sfruttare la città. Tutte le funzioni individuali si devono integrare in una tonalità armoniosa ed è questa integrazione che costituisce il senso e il valore ultimo delle funzioni individuali…

Bene comune dei cittadini, la città è proprietà pubblica. Abbiamo detto che la città ha fatto nascere la proprietà privata.

Ciò non contraddice la proprietà pubblica. Non è che nel diritto liberale, conseguentemente individualista, che il diritto di proprietà privata è esclusivo. Al contrario, bisogna riconoscere che in una città ogni cosa – le case, le strade, gli edifici pubblici, i monumenti – appartengono alla collettività. Nessuno può alienare, trasformare nulla senza attentare alla totalità stessa della vita. Così la proprietà privata dovrebbe limitarsi all'uso delle case o degli altri elementi della città per il bene personale e nei limiti del bene comune. A partire dal momento in cui un bene non è più necessario all'individuo, in cui pregiudica il bene degli altri, in cui un ridimensionamento della città richiede un cambiamento, la proprietà deve ritornare al proprietario principale che è la città.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08