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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


7. Le città italiane nell'età del particolarismo

I torbidi che seguirono la morte di Ludovico II rinforzarono la disposizione al particolarismo [1] dei signori laici ed ecclesiastici, ma rafforzarono anche le tendenze particolaristiche delle città, coinvolte nelle guerre civili che videro conti e vescovi schierarsi a favore dell'uno o dell'altro degli aspiranti al possesso del regno d'Italia. Al tempo stesso le incursioni ungare, che si rovesciarono specialmente sulla regione padana, e le incursioni saracene, che colpivano soprattutto le zone costiere, indicarono ancora una volta le città come luogo di rifugio per la popolazione sparsa nelle campagne e riproposero la necessità dell'efficienza delle opere di difesa. Ancora una volta chi si assunse il compito di coordinare e guidare le forze locali nei momenti di crisi fu il vescovo, che – non si deve dimenticarlo – a norma dei sacri canoni era eletto dal clero locale e dal popolo, assai spesso apparteneva a una famiglia cittadina [TESTIMONIANZA 10].

I sovrani carolingi avevano fatto dei vescovi altrettanti funzionari statali; i re d'Italia e gli imperatori della casa di Sassonia continuarono nella stessa linea, così che i vescovi seguitarono a esercitare le loro funzioni di protettori delle città, di rappresentanti delle città di fronte al sovrano, del sovrano di fronte alle città. [TESTIMONIANZA 14]. Il favore che re e imperatori dimostrano ai vescovi, con la concessione di prerogative che rafforzano la loro autorità temporale, rivela chiaramente il proposito di favorire insieme con la Chiesa locale anche la città, la popolazione cittadina, la cui multiforme importanza nella vita del regno non fu mai misconosciuta; ma rivela anche il proposito di far leva sui vescovi e sulle città per limitare e contenere la potenza dei feudatari laici. Questo spiega e giustifica le interferenze dei sovrani nelle elezioni vescovili, le irregolarità e le deviazioni canoniche e disciplinari che ne derivarono, gli abusi e le degenerazioni morali e temporali che ne conseguirono: ma, quale che fosse il modo in cui era stato eletto, nell'esercizio delle sue attività quotidiane il vescovo si doveva valere necessariamente di cittadini, laici ed ecclesiastici, i quali collaboravano volonterosamente con lui, ma non esitavano a contrastarlo vigorosamente se egli tradiva quelli che essi ritenevano essere i loro interessi e i loro diritti [TESTIMONIANZE 9, 15, 16, 18].

Conti e vescovi che godevano di diritti comitali o quasi-comitali trovavano infatti delle limitazioni alla loro autorità nell'esistenza di alcuni organi cittadini ai quali per tradizione si riconoscevano certe funzioni, certe prerogative, sufficientemente documentate. Anche per il secolo X si continua ad avere notizia di notai delle città, di beni appartenenti alle città, di cives partecipanti ad elezioni di scabini, ad elezioni di vescovi, all'amministrazione dei beni ecclesiastici in stretta collaborazione con il vescovo [TESTIMONIANZA 17]: ma già alla fine del IX secolo, si ha anche notizia di contrasti violenti tra i cittadini ed il loro pastore [2]. Nell'891 si ha notizia di una malivola conspiratio populi contro il vescovo di Modena; tra l'897 e l'899 i cittadini di Torino si sollevarono contro il vescovo Amolone, che fu costretto a lasciare la città; nel 924 i cittadini di Cremona sono in disaccordo con il loro vescovo; dissidi del genere sono dimenticati intorno alla metà del secolo a Piacenza, Verona, Bergamo, Brescia, Milano, Genova: contrasti che presuppongono intese tra i cives per l'adozione di una linea di condotta comune.

I testi ci parlano del resto di decisioni collettive prese dai cives: quando nel 969 facta est altercatio inter Bononienses et Mutinenses de confinibus et terminis de episcopatu eorum [3], Mantova, Verona e Brescia erano già unite in una specie di unione monetaria: il vescovo di Mantova aveva ottenuto fin dall'894 il privilegio di poter battere moneta, ma nel 945 Lotario II, nel confermare l'antico privilegio, ordinò che tale moneta doveva avere libero corso nelle città di Mantova, Verona e Brescia e aggiunse: volumus tamen ut secundum libitum et conventum civium predictarum urbium constet atque permaneat mixtio argenti et ponderis quantitas [4]. La cosa implica l'esistenza di organi locali capaci di deliberazioni di carattere tecnico, delicato come quello della lega e del peso delle monete, e un sistema di relazioni interurbane ufficialmente sviluppate e riconosciute [TESTIMONIANZA 11].

I cives prendevano talvolta deliberazioni propriamente politiche: le cronache ci dicono che nell'894 i Milanesi, praemissa legatione, si assoggettarono ad Arnolfo di Carinzia e che i Pavesi li imitarono. Nel 934 i Veronesi invitarono Arnolfo di Baviera a venire in Italia; episodi del genere sono ricordati anche al tempo di Arduino: i cittadini dell'una o dell'altra città prendono posizione per lui o contro di lui. Nel 1004 abbiamo notizia di una guerra tra Pisani e Lucchesi.

Sebbene le fonti non ce ne parlino esplicitamente, possiamo essere certi che a prendere le decisioni politicamente più importanti era un ristretto numero di maggiorenti cittadini, i quali, in virtù della loro preminenza sociale, prendevano decisioni in nome di tutta la popolazione. I testi che parlano di questi notabili li indicano con espressioni vaghe: coetus, consilium seniorum, domini civitatis, ordo illorum qui iura et leges civitatis asserebant. La mancanza di una espressione precisa, di un termine tecnico per indicare questa specie di consiglio ristretto, lascia capire che la sua fisionomia giuridica non era ancora definita. Tuttavia, quando si vedono dei diplomi che concedono direttamente ai cives di Genova (958) o di Cremona (996) esenzioni fiscali, è evidente che la richiesta doveva essere stata fatta da una delegazione che rappresentava la città e che usciva dell'élite cittadina. D'altra parte, una volta ottenuto il privilegio, i cives dovevano avere la possibilità di ricevere un certificato da presentare agli esattori di quei dazi e di quei pedaggi da cui il sovrano li esentava in tutta l'estensione del regno, e anche questo lascia intravvedere l'esistenza di qualche forma di organizzazione amministrativa.

Il rapido avvicendarsi sul trono di dieci re nello spazio di poco più di settant'anni e le guerre e i contrasti che accompagnarono questo rapido avvicendarsi; il periodico rinnovarsi delle incursioni ungare; il ripetersi delle incursioni saracene: tutto questo provoca un particolarismo di vita locale che prepara il conseguimento di quell'autonomia che sarà la caratteristica delle città dell'Italia centro-settentrionale. Il problema della difesa contro gli Ungari è problema tutto locale, da risolvere con forze locali, data l'incapacità dei sovrani ad affrontarlo come problema generale; ma è problema locale, da risolvere con mezzi locali, anche quello di rimanere fedeli al sovrano regnante o di aderire più o meno sollecitamente al pretendente al trono: non valeva la pena di battersi per l'uno o per l'altro di questi re, perché uno valeva l'altro, purché non ledesse i privilegi della città, privilegi che erano soprattutto economici, incardinati nel mercato e nelle fiere periodiche [TESTIMONIANZA 3]. Quel che importava era difendere la città – cioè se stessi – contro tutto e contro tutti; cercare di uscire incolumi da guerre e ribellioni feudali, da incursioni e scorrerie ungare e saracene, trarre profitto dalle circostanze aprendo tempestivamente trattative con il pretendente al trono che avanzava, con il sovrano che aveva bisogno di assicurarsi la devozione dei sudditi, mediatori il vescovo o una commissione di cittadini influenti, ma a vantaggio di tutta la popolazione cittadina, stratificata – come ci dicono gli stessi diplomi – in cives maiores, cives mediocres, cives minores.

Non si trattava di classi sociali chiuse, giuridicamente definite, ma di ceti, di gruppi, che si distinguevano per le loro particolari attività, per la loro ricchezza immobiliare e mobiliare e di conseguenza per il loro modo di vivere, per i servizi militari a cui erano tenuti, per il prestigio morale e sociale di cui godevano.

Erano, questi maiores, proprietari di beni immobili in città e fuori; erano funzionari e vassalli comitali e vescovili, residenti in città; erano giudici e notai; erano negotiatores, cioè grandi mercanti. I mercanti più modesti, i proprietari meno ricchi, i notai, gli artigiani, potevano caso per caso essere qualificati mediocres o minores.

Molti negotiatores, molti artigiani provenivano dalla campagna, come attesta il fatto che venivano indicati unendo al loro nome quello del luogo d'origine. La loro immigrazione era connessa con il generale aumento della popolazione e con il conseguente aumento della produzione agricola e dei consumi di derrate e con il maggior reddito delle terre, che permettevano l'accumulo di quel minimo di capitali che era necessario per trasferirsi in città e inserirsi in quel più largo e rapido giro di attività economiche che appunto nelle città avevano i loro centri vitali. Dal canto loro i negotiatores arricchiti cercavano di comperare terre per consolidare una parte del loro guadagno e perché investire capitali in terre cominciava a essere un buon affare; ma l'inurbamento provocava anche un aumento di valore delle case e delle aree fabbricabili.

I documenti che hanno consentito agli studiosi di fare queste constatazioni hanno consentito anche una ricostruzione dell'albero genealogico di alcune famiglie di negotiatores: si è visto così che tra i figli del mercante arricchito ce n'era quasi sempre qualcuno che prendeva una strada diversa da quella del padre e diventava prete, notaio o giudice, salendo ancora nella scala sociale.

Con il termine iudex, giudice, si indicavano infatti quelle persone che, avendo studiato diritto nelle scuole e avendo acquisito esperienza nella pratica forense, diventavano funzionari regi, vescovili, comitali, o esercitavano la professione di consulenti e di avvocati, realizzando ingenti guadagni; e mentre i mercanti arricchiti acquistavano terre più o meno vicine alla città, secondo le opportunità del momento, i giudici cercavano di ottenere dai signori laici ed ecclesiastici con cui erano in relazione professionale benefici e feudi per sé o per i loro figli, ed entravano così nella classe dei secundi milites, quella classe eterogenea e inquieta di vassalli minori, che in parte vivevano nelle campagne, ma che in parte vivevano in città, accanto ai loro signori, per cogliere tutte le occasioni favorevoli.

L'ambiente cittadino, fra la fine del X secolo e gli inizi dell’XI, era un ambiente articolato e stimolante, che offriva larghe possibilità di ascesa economica e di qualificazione sociale, anche perché le varie categorie – mercanti, giudici, proprietari, vassalli vescovili e comitali – non erano nettamente distinte e in parte si sovrapponevano, ed erano comunque strette fra loro da molteplici e frequenti rapporti economici: compra e vendita di prodotti agricoli; compra e vendita di immobili, terre o case; locazioni, prestiti. La carriera ecclesiastica era aperta ai figli degli uni e ai figli degli altri, così come la carriera degli uffici, e i figli degli uni sposavano le figlie degli altri.

La composizione economico-sociale della collettività cittadina, considerata nei suoi elementi essenziali, era sostanzialmente analoga dovunque, ma il rapporto tra le varie componenti variava – ovviamente – da un luogo all'altro, in relazione all'ubicazione geografica, alle funzioni politico-amministrative delle varie città e alle attività di varia natura che a esse faceva di conseguenza capo; d'altra parte è naturale che il modificarsi delle funzioni politico-amministrative che si svolgevano in una città avesse delle ripercussioni nella vita economica, nella stratificazione sociale, nel tessuto urbanistico. Le città dell'Italia padana – Pavia, Milano, Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova, Verona, Modena, Ravenna, Venezia, tanto per nominarne alcune – offrono esempi di grande interesse fin dal secolo IX. Altrettanto si può dire delle città della Liguria e della Toscana – Genova, Pisa, Lucca, Arezzo – o dell'Italia meridionale – Napoli, Amalfi, Salerno, Bari – e la casistica diventa più varia e più ricca via via che si avanza nel tempo, e mostra la crescente partecipazione della popolazione all'amministrazione locale, alla vita politica, in connessione con altri fenomeni molto complessi e molto diversi, dal nord al sud [TESTIMONIANZE 13 E 17].

Nell'Italia centro-settentrionale la vita politico-amministrativa è caratterizzata dalla progressiva decadenza dell'autorità dei conti. Infatti il costituirsi di immunità [5]; nel territorio e nella città o addirittura la sottrazione alla loro amministrazione dell'intera città, trasferita al vescovo locale; l'ereditarietà dei feudi – ritagliati nei beni fiscali – che i sovrani o loro stessi avevano concesso a numerosi vassalli, l'ereditarietà delle funzioni affidate ad altri vassalli che avevano finito per considerarle come proprietà familiari; tutto questo aveva indebolito la posizione dei singoli conti. La distruzione del palazzo regio di Pavia, sede dell'amministrazione centrale del regno (1024), aveva scardinato tutto il sistema, già fortemente indebolito dall'aggregazione del regno italico al regno germanico, sotto il governo di imperatori che risiedevano in Italia solo occasionalmente.

L'autorità temporale dei vescovi resisteva meglio, perché aveva il suo puntello nell'autorità spirituale; e se i patrimoni ecclesiastici non subivano un irreparabile impoverimento come i beni del fisco, era soltanto perché nuove donazioni, nuovi lasciti compensavano le dispersioni a favore di quei vassalli di cui vescovi, abati, canonici non potevano più fare a meno, a favore di livellari e soprattutto di enfiteuti, gente che aveva fame di terre, perché l'agricoltura è un buon affare quando la popolazione è in aumento e nelle campagne ci sono braccia per lavorare e in città bocche da nutrire, e perché avere della terra vuol dire avere uomini a cui comandare e di cui servirsi in pace e in guerra.

Il declinare dei poteri delle autorità, cui il sovrano aveva confidato l'amministrazione della città, non significava però la mancanza totale o quasi totale di governo: gli abitanti della città, ciascuno secondo il suo stato e la sua condizione, facevano infatti parte di organismi più ristretti della città, ma tuttavia pienamente efficienti. I vassalli laici ed ecclesiastici facevano capo al loro signore, ne costituivano per dovere feudale il consiglio a cui egli doveva ricorrere in molte questioni, ma costituivano anche la curia dei pari, che era al tempo stesso tribunale che giudicava delle controversie feudali tra signore e vassalli, corte d'onore davanti alla quale si celebravano riti quali l'accettazione di un nuovo vassallo o il riconoscimento del nuovo signore in caso di successione, assemblea in cui si discutevano gli interessi comuni; la curia dei pari creava tra quanti ne facevano parte un vincolo paritario, egualitario, orizzontale, di contro al vincolo di dipendenza, gerarchico, verticale, che li univa al signore.

I negotiatores solevano formare delle società commerciali; avevano l'abitudine – che era una necessità – di regolare di comune accordo questioni di interesse comune ricorrendo non al tribunale del conte o del vescovo, ma a commissioni arbitrali di esperti, liberamente scelti di volta in volta.

I giudici formavano, per loro natura, una categoria giuridicamente ben definita, in cui si entrava soltanto con certe formalità, e che era già virtualmente una corporazione. Quei cittadini che i documenti qualificano come minores gravitavano nell'orbita dei maiores e dei mediocres da cui dipendevano per ragioni di lavoro, ma tutti insieme partecipavano a quegli aggruppamenti demotopografici di remotissima origine in cui si divideva la città per ragioni militari e religiose a un tempo. Indicate nelle varie città con vari nomi, le suddivisioni ecclesiastiche dei quartieri cittadini costituivano la base del reclutamento militare, dei turni di guardia alle mura, e imponevano agli abitanti – ai vicini – doveri di solidarietà e di collaborazione in molte circostanze: doveri che si estendevano al popolo minuto – operai, salariati, braccianti, manovali – che vivevano nella scia dei cittadini più qualificati.

Bisogna anche notare che le famiglie più autorevoli erano concentrate nella parte più antica della città, intorno all'antico foro, alla cattedrale, all'episcopio, e che certe attività artigiane erano concentrate in alcune strade mentre altre erano dislocate nella zona periferica o addirittura fuori delle mura, nei borghi. Il clero – classe giuridica ben definita in quanto ha funzioni specifiche, usa un diritto particolare, gode della speciale protezione regia – ha una solida struttura gerarchica e riconosce il suo capo locale nel vescovo; ma il clero cittadino ha due forme di organizzazione, il «capitolo dei canonici», cioè la convivenza dei sacerdoti addetti alla cattedrale in una domus a essi assegnata dal vescovo, e la «congregazione» o «consorzio» che riunisce tutti gli ecclesiastici della città in una specie di confraternita che ha però anche la funzione di tutelare gli interessi dei suoi membri, interessi che non di rado erano in contrasto con quelli del vescovo.

In caso di necessità ognuno di questi quadri, di queste formazioni particolari poteva essere utilizzato – per iniziativa dei singoli – a vantaggio della collettività, o trasformarsi in gruppo di pressione settoriale. Bisogna però tener conto del fatto che i bisogni della vita collettiva e della società civile erano molto ridotti; all'assistenza e alle scuole provvedeva il clero; la difesa contro i ladri e i malfattori e contro i pericoli d'incendio, la manutenzione dei pozzi e la pulizia delle strade erano affidate alle cure degli abitanti del vicinato. La difesa passiva contro un'aggressione nemica era assicurata allo stesso modo sulla base delle circoscrizioni territoriali della città, mentre il peso delle guerre esterne cadeva sui milites al seguito dei loro signori.

All'assemblea generale della città arrivavano solo le questioni di interesse generale, concernenti lo sfruttamento dei beni della città, i problemi dell'approvvigionamento, il mercato, i beni della Chiesa e simili, ma anche in questi casi a decidere era – non lo si ripeterà mai abbastanza – il gruppo dei maggiorenti, milites, giudici, proprietari fondiari, mercanti, ecclesiastici, che dal prestigio sociale derivavano la prerogativa di prendere delle decisioni in nome di tutti e che fornivano consiglieri e collaboratori permanenti od occasionali anche al vescovo e al conte. Considerando tutto questo in prospettiva storica, ci si rende conto che si stava lentamente preparando il trapasso a quella nuova forma di organizzazione politico-amministrativa che furono i comuni.

 

[1] Parlando della storia europea e italiana tra il IX e l'XI secolo, e considerando soprattutto le complesse e multiformi manifestazioni degli interessi locali e particolari, si tende a indicare tale epoca come «età del particolarismo», sostituendo tale espressione a quella generalmente usata di «età feudale», unilaterale e inadeguata.

[2] Cf. C. G. MOR, L'età feudale, Milano, 1952, II, p. 77 e segg.

[3] «Monumenta Germaniae Historica», DD., I, p. 515, n. 375.

[4] Diplomi di Ugo e Lotario III, a cura di L. Schiaparelli, F.I.S.I., n. 38, p.252.

[5] L'«immunità» consisteva nel divieto fatto dal sovrano ai suoi agenti di svolgere le loro funzioni nelle terre appartenenti alla persona e all'ente che intendeva così favorire: le funzioni pubbliche venivano di conseguenza esercitate da quella persona o da quell'ente, direttamente responsabile di fronte al sovrano.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08