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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana - 10

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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


10. Le città italiane nella lotta per le investiture

La partecipazione delle città alla lotta per la riforma della Chiesa. ha un duplice aspetto, religioso e civile.

Come nell'antichità, vita religiosa e vita civile sono intimamente connesse e la città si identifica nel suo santo patrono, nella sua chiesa vescovile: Venezia si identifica con san Marco, Milano con sant'Ambrogio, Firenze con san Giovanni Battista, Siena con la Vergine e così via.

Le pratiche religiose erano un'occupazione molto importante, data la frequenza delle feste e la lunghezza delle cerimonie liturgiche, le quali – con la solennità del rito, con la magnificenza sia pur relativa degli arredi, con l'invito a meditare sulle verità eterne proposte con la predicazione, con il canto, con le rappresentazioni figurate che ornavano la chiesa – rappresentavano nel grigiore della vita quotidiana una pausa illuminata dalla «sustanzia di cose sperate ed argomento delle non parventi», come dirà più tardi Dante. La devozione, la fede nei carismi della Chiesa, nelle reliquie era profonda, intensa, talvolta addirittura superstiziosa. Lo scandalo per la scostumatezza del clero era profondo e sincero, e poiché veniva semplicisticamente messo in immediata relazione con la «mondanizzazione della Chiesa», tutti i passi che la Santa Sede compiva per attuare una riforma morale e svincolare la gerarchia ecclesiastica dalle implicazioni laicali e feudali che la opprimevano avevano una grande risonanza tra quanti sentivano la serietà del problema religioso e morale; ma l'aveva anche tra coloro che dai provvedimenti erano direttamente o indirettamente danneggiati.

Il primo e maggior danneggiato era l'Impero: a parte le questioni di principio, la rivendicazione della libertà delle elezioni vescovili scardinava la struttura politica e amministrativa del regno di Germania e del regno d'Italia, che posava in buona parte proprio sui vescovi.

Ostili erano in buona parte anche i vescovi, contrariati dalle ingerenze papali negli affari interni delle diocesi, dal favore papale per i movimenti popolari che sembravano minare l'autorità e il prestigio del sacerdozio. Ma nelle città anche i singoli dovevano inevitabilmente prendere posizione per la corrente riformista o antiriformista, obbedendo alle proprie convinzioni o ai propri interessi: tanto pili che imperatori e papi facevano direttamente appello ai cives per utilizzarne le forze e realizzare i propri programmi.

I riflessi locali della lotta per le investiture sono tuttavia malnoti nei loro particolari: conosciamo l'orientamento dei singoli vescovi dalla loro sottoscrizione ai sinodi convocati dai pontefici o dalla loro presenza al seguito dell'imperatore e dell’antipapa o dai decreti di scomunica da cui furono colpiti; i cataloghi vescovili delle singole diocesi rivelano vacanze della Sede o doppie elezioni, ma gli archivi vescovili non conservano gli atti relativi ai vescovi scismatici – aderenti cioè agli antipapi Onorio II o Clemente III – perché furono accuratamente distrutti quando trionfò il partito riformatore. Si conservano invece lettere di pontefici che rivelano, sia pure di scorcio, situazioni locali e notizie più o meno diffuse tramandateci da cronisti, agiografi e polemisti, che consentono di intravvedere un confuso agitarsi di folle cittadine commosse dalla parola di predicatori improvvisati e il formarsi a Milano e nelle città più vicine a Milano – Brescia, Cremona, Piacenza, Pavia – di un movimento meglio definito nelle sue affermazioni di principio e nelle sue manifestazioni che gli avversari definirono con il nome di Pataria.

Gli aderenti al moto patarino si riunivano in assemblee, prendevano deliberazioni contro i preti simoniaci e concubinari, si impegnavano con giuramenti a persistere nella loro azione, ma anche là dove l'agitazione non raggiunse la violenza che si manifesta nelle città lombarde, il fermento era intenso e ai motivi religiosi e morali se ne mescolavano altri, che riguardavano la maniera con cui il vescovo e i suoi immediati collaboratori esercitavano le funzioni temporali.

Sta di fatto che il grande conflitto tra Papato ed Impero, con tutte le polemiche che scatenò, a tutti i livelli, scosse l'ordine stabilito, scardinò situazioni locali che parevano immutabili e aprì insperate prospettive di rinnovamento religioso, sociale, politico.

L'inobbedienza religiosa al vescovo «scismatico», trasferita nel campo politico-amministrativo, determinò una carenza di autorità, un vuoto di potere, a cui per forza di cose si doveva necessariamente provvedere in qualche modo, soprattutto per quanto riguardava l'amministrazione della giustizia: ne presero l'iniziativa quei maiores che, come si è detto più volte, avevano acquisito capacità amministrative e politiche collaborando con il vescovo e con il conte, ispirando le deliberazioni dell'assemblea cittadina e ponendole in esecuzione. Nell'assumersi questo compito, essi tendevano anche a frenare la pressione di nuovi elementi sociali, che partecipando appassionatamente e clamorosamente ai contrasti religiosi avevano dimostrato di essere capaci di affiancarsi e sovrapporsi all'antico ceto dirigente, contendendone l'antico primato.

L'agire politico dei maggiorenti cittadini era favorito dal fatto che i vescovi «ortodossi», nominati direttamente dai papi in sostituzione dei vescovi «scismatici», per potersi imporre avevano bisogno dell'appoggio di almeno una parte della popolazione, e presentandosi come gli esponenti di una corrente rigorosamente riformista e spirituale non potevano non consentire ai più autorevoli fra i loro sostenitori una più larga partecipazione agli affari temporali riguardanti la città limitandosi ad affermare la propria supremazia spirituale. Il partito riformista aveva troppo bisogno di alleati per correre il rischio di spingere i suoi fautori dall'altra parte, negando quello che l'imperatore si sarebbe affrettato a concedere. Le città potevano veramente vendersi al miglior offerente, papa o imperatore, perché sapevano molto bene che cosa volevano.

Tutti, ciascuno a suo modo, erano pronti ad afferrare le occasioni, a sfruttare la situazione, come mostrano i diplomi che Enrico IV ed Enrico V concessero a varie città, e nei quali sembra di cogliere le linee di una politica coerente e consapevole, diretta a trattare direttamente con le città, senza la mediazione del vescovo.

Già Enrico III, dopo gli avvenimenti milanesi del 1043-1045, era in grado di comprendere la piega che stavano prendendo le cose nelle città italiane; così nel 1055 egli concede ai cittadini di Ferrara e a quelli di Mantova privilegi giudiziari e fiscali, connessi con la loro attività commerciale, richiamandosi esplicitamente alla consuetudinem bonam et iustamquam quelibet nostri imperii civitas obtinet. L'indeterminatezza di questa espressione poteva fare il gioco dei cives: il sovrano intendeva – o faceva conto di intendere – queste consuetudini come un complesso di norme che regolavano il diritto privato locale, di prerogative tradizionali fondate sulle antiche concessioni dei loro predecessori, ma i cives le intendevano come il complesso di quelle funzioni che avevano esercitato da sempre e di quelle che assai più recentemente avevano cominciato a esercitare.

La lunga minorità di Enrico IV favorì infatti notevolmente le iniziative autonome locali, ma è al momento più acuto della lotta tra il giovane sovrano e il Papa Gregorio VII che troviamo alcuni diplomi, particolarmente significativi: l'imperatore vuole sottrarre al dominio della contessa Matilde, la sua ferrea avversaria, il dominio di alcune città e concede loro favori e privilegi che in realtà sono un primo riconoscimento implicito dei progressi dell'organizzazione locale, che vengono corroborati dalla concessione di diplomi diretti ai cives.

Enrico V farà nuovi passi avanti: i diplomi che concesse a Torino (1111 e 1116), Cremona (1114), Mantova, Bologna, Novara (1116) attestano l'ulteriore maturazione delle aspirazioni autonomistiche cittadine e sanzionando l'esistenza e la validità delle «consuetudini» locali dettero una sistemazione alle nuove forme politico-amministrative che si erano andate elaborando [TESTIMONIANZA 21] e determinarono una situazione generale che le città ritenevano molto favorevole, tanto che al tempo dei primi contrasti con il Barbarossa, mentre i legati imperiali rivendicavano le prerogative imperiali esercitate al tempo di Enrico IV, le città protestavano di essere disposte a fornire all'imperatore soltanto quelle prestazioni a cui erano tenute al tempo di Enrico V.

Che le relazioni delle città italiane con l'impero fossero regolate con una certa uniformità, lo ammetteva senza difficoltà Lotario II, quando riconosceva ai Torinesi eandem quam cetere civitates italice libertatem [1]: a quell'epoca, il comune s'era già formato ormai dovunque.

 

[1] «Monumenta Germaniae Historica», DD., IV, p.170, n. 106.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08