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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


11. Comuni e consoli

In circostanze diverse negli aspetti contingenti ma essenzialmente simili – e con procedure sostanzialmente analoghe che fanno pensare a diffusi processi imitativi – gli esponenti dell'antico ceto dirigente, per poter prendere il controllo della situazione, si garantirono una solida «base» mediante l'appoggio di persone fidate e sicure, a cui si legarono con un giuramento reciproco.

La pratica del giuramento per vincolare i singoli a un determinato comportamento aveva le sue manifestazioni più rilevanti nel giuramento di fedeltà al sovrano, nel giuramento di fedeltà vassallatica, nel giuramento delle paci di Dio. E col giuramento si era cercato di dare coerenza e continuità alle agitazioni dei fautori della riforma religiosa.

In uso da gran tempo erano anche le associazioni: associazioni a finalità religiose e caritative, associazioni con finalità pratiche ben precise, associazioni sediziose o addirittura criminose, che le autorità pubbliche – dai sovrani longobardi in qua – avevano sempre cercato di controllare.

Da questa duplice tradizione nasce una nuova organizzazione politico-amministrativa cittadina, capace di perseguire i suoi scopi con più risolutezza e coerenza di quella collettività, ricca di tradizioni ma informe, che erano stati l'assemblea cittadina e il gruppo di notabili. I notabili che si propongono di assumere il potere, di assicurare – come si soleva dire – «la pace e la giustizia» e attuare una politica rispondente agli interessi dei vari ceti che componevano la popolazione urbana, mantenendo però la propria posizione di primato, chiedono alla «base» un giuramento che impegni alla solidarietà reciproca, all'obbedienza ai capi del momento che, a loro volta – abbiano o no già assunto il nome di consoli –, assumono impegni ben precisi nei confronti dei loro pari e della base: un documento pavese del 1122 ricorda il tempo quo… sunt a cuncto populo papiensi cum iureiurando facti et electi consules.

Quando però si considerano le più antiche formule di giuramento prestate da cittadini e consoli, ci si accorge che sono modellate sulla formula del giuramento feudale e che il potere è ancora inteso come un potere personale, così che, ogniqualvolta il collegio dei consoli viene rinnovato, viene ripetuto il giuramento, nominando i singoli consoli.

La documentazione di cui disponiamo non è sufficiente per puntualizzare – città per città – le circostanze, i modi, i tempi, i personaggi mediante i quali fu realizzato l'accordo che – usando un'espressione di comodo – può essere indicato come coniuratio e che in qualche città viene designato come pax, come concordia, come tregua.

Si può tuttavia ritenere che questo accordo si presentasse come un'intesa a più livelli, in più direzioni: accordo fra i promotori, fra questi e la base, fra i componenti della base stessa: la quale ai suoi inizi era composta soltanto da coloro che i promotori avevano chiamato, e che soltanto in seguito si estese – diventando obbligatoria – a tutti i cives maiores, mediocres e minores delle varie città. Ciò però non significa che fosse un accordo privato, come qualcuno ha detto in passato e altri continuano acriticamente a ripetere. Nel Medioevo il limite fra ciò che era pubblico e ciò che era privato fu sempre molto incerto e labile. I comuni furono formalmente inseriti nella struttura politica dell'Impero soltanto con la pace di Costanza (1183), ma fin dall'inizio si presentarono come l'organizzazione di «tutta» la cittadinanza, nelle relazioni con l'Impero e le città vicine: la loro natura non era più « privata » di quella dei moderni «comitati di liberazione» o dei «governi nazionali» dei paesi in rivolta. Ci vollero però degli anni perché i comuni acquistassero piena consapevolezza di se stessi e si considerassero enti di diritto pubblico, distinti e trascendenti l'individualità dei capi [TESTIMONIANZE 20, 22, 23, 25, 27, 33]. La documentazione esistente non consente di precisare quando la nuova organizzazione assunse il nome di comune e i suoi capi quello di consoli.

Comune è una vecchia parola che in età romana era usata come sostantivo per indicare il complesso degli abitanti di un municipio e come aggettivo per indicare ciò che è municipale e distinguerlo da ciò che è publicum, cioè statale.

Fra il V e il IX secolo, i termini comunitas, communio, comune indicano riunioni di collettività di natura pubblica e le collettività stesse; fra il IX e il X secolo, sebbene non figurino nei documenti, devono essere rimasti nell'uso vivo, perché nel secolo XI i testi parlano di deliberazioni prese in comune consilium, e a metà del secolo XII commune significa ancora il complesso degli abitanti di una città o la loro assemblea, e solo più tardi indicherà l'organizzazione politica di questo complesso. Questo termine, in cui si è voluto vedere l'indicazione di un ente completamente nuovo, rivoluzionario, è in realtà una vecchia parola che stabilisce un legame non soltanto lessicale tra il regime precomunale e il regime comunale. Lo stesso discorso si deve fare per l'arengo, termine con cui veniva indicata l'assemblea generale del popolo: termine di derivazione germanica – addirittura gota – che originariamente aveva designato l’assemblea militare.

Merita un commento anche l'apparizione dei consoli, che i documenti ci presentano in quest'ordine cronologico:

Pisa 1081-1085 Bergamo 1117
Biandrate 1093 Cremona 1112-1116
       
       
       
       
       
       

                                 

                                   

Asti             1095                     Bologna           1123

Milano         1097                     Piacenza          1126

Arezzo         1098                     Mantova          1126

Genova       1099                     Modena           1135

Pistoia        1105                     Verona            1136

Ferrara       1105                     Parma             1149

 

Non è da escludere che nelle varie città i consoli esistessero prima della data in cui sono documentati; d'altra parte, se il loro apparire prova che il comune si è già formato, non è da escludere che già in precedenza la città fosse amministrata in maniera autonoma da capi non ancora indicati con il nome di consoli.

Non si trattava comunque di una coppia di consoli come nell'antica Roma, ma di un collegio assai più numeroso, nella cui composizione si riflettevano la composizione del gruppo di notabili che aveva preso l'iniziativa di dare alla città un nuovo governo e le circostanze in cui l'iniziativa si era attuata. Le città avevano avuto fino allora pochi agenti fissi e si erano largamente servite di commissioni di persone di fiducia, alle quali si dava talvolta il titolo onorifico di boni homines. La creazione di una magistratura stabile, che – sia pure a tempo limitato – curasse gli interessi cittadini e coordinasse l'azione collettiva, rompeva una tradizione secolare, ma era al centro dell'accordo tra i capi e la base e per lo meno in qualche città la risoluzione deve essere stata in qualche modo sanzionata dal vescovo locale: la pace di Costanza testimonia esplicitamente che in qualche città i consoli erano investiti delle loro funzioni dal vescovo.

La denominazione assunta dalla nuova magistratura è anch'essa un problema di un certo interesse: la spiegazione più semplice potrebbe essere cercata in quel complesso di reminiscenze classiche, che è così largamente operante in tutta la cultura medievale; c'è forse un riflesso della continuità dell'uso del titolo onorifico di consul nelle città dell'Italia romanica con le quali le città dell'Italia longobarda avevano frequenti rapporti, ma c'è anche l'uso del verbo consulere nel senso di proporre, consigliare, deliberare in un'assemblea, che quasi automaticamente e con un'inversione etimologica, proponeva il nome dei «consoli» per i magistrati che nelle assemblee avevano una parte preminente,

Sul modo di designazione dei primi consoli non abbiamo notizie, ma si può essere certi che le prime elezioni furono fatte per acclamazione, alla presenza dell'arengo, cioè dell'assemblea generale dei partecipanti alla coniuratio che era alla base del comune. In seguito, quando la coniuratio si allargò a tutta la popolazione maschile che aveva doveri militari e l'arengo risultò poco «manovrabile», si escogitarono sistemi di elezione indiretta, a due o tre gradi, che sembravano dare le più ampie garanzie di regolarità e di imparzialità, ma che inevitabilmente servivano per scegliere i nuovi consoli nella solita ristretta cerchia di notabili. Il numero dei consoli, che variava da una città all'altra, variò anche di momento in momento nella stessa città; esso è però quasi sempre e quasi dovunque proporzionale al numero dei quartieri della città, combinato talvolta con il numero degli ordini in cui si stratificava la popolazione politicamente attiva. Composizione analoga ebbe il consiglio che ben presto si trova a fianco dei consoli: un consiglio periodicamente rinnovato; ma sono i consiglieri uscenti che eleggono i nuovi consiglieri.

Quali fossero i doveri degli aderenti alla coniuratio, quali fossero i doveri dei consoli, lo si sa dalle più antiche formule di giuramento che i cittadini prestavano ai consoli e che i consoli prestavano ai cittadini. Per i primi, alle generiche promesse di obbedienza e di collaborazione si accompagnano norme relative ai rapporti reciproci, dirette soprattutto al mantenimento della pace e dell'ordine; per i secondi, alle promesse generiche di curare il bene della città, di provvedere alla difesa dei suoi diritti, della sua sicurezza, della pace e della giustizia, si aggiungono precisazioni e particolari connessi con la situazione locale. Queste formule, con le addizioni successive che vi furono fatte, sono il nocciolo da cui si sviluppò tutta la legislazione ulteriore.

Caratteristico di tutta la struttura comunale è anche il fatto che i consoli e i collaboratori, di cui ben presto essi si circondarono, restavano in carica un periodo determinato, ma piuttosto breve. L'affidare il supremo potere a un collegio consolare, rapidamente e continuamente rinnovato, doveva garantire la collettività contro il pericolo dell'affermarsi di un regime personale, autoritario e dittatoriale; doveva garantire – come noterà Ottone di Frisinga – il mantenimento della libertà: in realtà garantì il monopolio politico di una cerchia ristretta di individui, che però avevano un programma corrispondente agli interessi di quasi tutta la collettività [TESTIMONIANZE 20 E 25].

I comuni sono indubbiamente un «fatto nuovo», un nuovo sistema di governo cittadino, che è però fondato su una lunghissima tradizione, non interrotta nemmeno al tempo dell'invasione longobarda; essi si formano nelle varie città in momenti diversi nel corso di una quarantina d'anni (1080-1120), e in circostanze diverse, ma rispondono ad esigenze analoghe dovunque: sostituire un governo inefficiente o inadeguato con uno più valido a vantaggio dell'aristocrazia cittadina, la quale da una parte si impone alle antiche autorità locali, in nome delle sue nuove esigenze nel quadro del generale rinnovamento economico cittadino; ma dall'altra parte, in nome delle sue antiche prerogative, si impone al resto dei cives, che in forza del loro recente arricchimento vorrebbero avere anch'essi parte al governo della città.

Il conseguimento dell'autonomia comunale è un «fatto nuovo» anche fuori d'Italia: anche qui si tratta di superare le vecchie strutture amministrative e di sostituirle con altre più agili e duttili, meglio rispondenti alle necessità di una società in fase di crescenza economica e demografica, cui si accompagnano una nuova concezione della dignità della persona e nuove esigenze ideali.

Nelle vecchie città gallo-romane, nelle vecchie città danubiane e renane, in quelle di nuova formazione dei Paesi Bassi e della Germania, le situazioni locali in cui questo complesso di nuovi bisogni si manifesta sono profondamente diverse e diversi sono i modi attraverso ai quali quei bisogni si realizzano. Ma non deve far meraviglia che poi, da tanta diversità di situazioni di base, si giunga a istituzioni simili. I problemi di governo e di amministrazione sono suppergiù sempre gli stessi dovunque ed è ovvio che per provvedervi si usino mezzi simili: in realtà il progresso economico e sociale, come il progresso intellettuale, non conosce limiti di frontiere anche se si diffonde con un ritmo più lento via via che si allontana dai centri propulsori; e certi fenomeni politici che potrebbero sembrare meccanicamente imitativi sono in realtà il portato di un'evoluzione che è come un grande fiume, le cui acque scorrono rapide là dove sono più profonde, più lente là dove sono più basse.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08