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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana - 12

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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


12. Politica interna ed esterna. Rapporti con l'Impero

Considerando le cose da un punto di vista generale e teorico, possiamo dire che le particolari circostanze in cui s'era sviluppato il moto autonomistico al tempo della lotta per le investiture trasferirono alla collettività, organizzata in comune, l'esercizio di diritti e funzioni di natura pubblica che conti e vescovi e vassalli comitali e vescovili avevano liberamente goduto come di un bene proprio, nello sfacelo delle strutture amministrative del regno italico a causa della distruzione degli archivi del palazzo regio di Pavia, nel 1024, e in seguito alla legittimazione dell'ereditarietà dei feudi minori sancita nel 1037: fra questi diritti e queste funzioni c'era anche il controllo delle attività artigiane. L'organizzazione definita in età carolingia – riprendendo quanto delle strutture tardo-antiche era entrato nel sistema politico-amministrativo longobardo – si era infatti profondamente alterata e un nuovo ordinamento andava delineandosi sulla base del permanere di un controllo politico sulle attività ritenute particolarmente importanti per la collettività e del formarsi di libere associazioni per le altre.

Nella realtà storica, ci vollero dei decenni perché i comuni riuscissero a togliere diritti fiscali e regalie a coloro che ne godevano ereditariamente. Non pare che sia documentato nessun caso di volontaria rinuncia a favore della comunità e non è davvero il caso di dire – come è stato detto – che tali diritti e attribuzioni vennero «accomunati» perché l'associazione subentrasse ai singoli che cedevano all'ente associativo ciò che prima avevano posseduto in proprio. Tuttavia l'impiego di diritti e competenze individuali per acquisire diritti e competenze al comune si può vedere dal modo in cui fu iniziata la «conquista» del contado.

Le città, anche quelle che erano passate dal governo comitale a quello vescovile, avevano avuto sempre rapporti economici molto stretti con il territorio circostante, entro i confini dell'antico municipium, quasi dovunque ricalcati dai confini della diocesi e del comitato. Lo sviluppo economico che sta alla base del movimento comunale aveva intensificato questi rapporti: affermarsi nella campagna circostante era infatti per i comuni una necessità, per assicurare la libertà di circolazione agli uomini e alle merci, per controllare dazi e pedaggi, per riattare strade e scavare canali navigabili, per assicurare alla città il rifornimento dei viveri e delle materie prime, per favorire il reclutamento della mano d'opera necessaria alle industrie nascenti, per monopolizzare i mercati locali. Ma dapprincipio si procede cautamente, facendosi assai spesso schermo del vescovo: è in suo nome che si chiede e si ottiene che feudatari e comunità rurali riconoscano l'autorità del comune e si impegnino a osservare certi patti, certe norme nei loro rapporti con i cittadini; e i consoli, il comune si presentano quali esecutori della volontà del vescovo, per ristabilire un nesso di dipendenza, la cui natura non è discussa, ma affermata come necessaria.

Di fronte a quanti non sono già soggetti al comune, come di fronte all'autorità imperiale, il vescovo è infatti la sola autorità legittima che ci sia in città e dalla quale i cittadini possano derivare una giustificazione pseudo-legale del loro procedere. Qualche volta, per meglio confondere le idee degli altri, si scelgono come consoli dei funzionari vescovili, o addirittura – dove ci sono ancora – dei funzionari comitali e perfino il conte in persona.

Il moto di penetrazione politica nel contado si era avviato – come dimostrano i documenti – già al tempo di Enrico V, che dopo il ritorno in Germania non aveva più avuto la possibilità di controllare in qualche modo la situazione italiana, e si era accelerato ai tempi di Lotario II e di Corrado III, che non erano mai stati in grado di svolgere un'azione di qualche efficacia al di qua delle Alpi. Ben presto le città più popolose, più attive, più consapevoli delle proprie forze e dei propri bisogni si affermarono non soltanto nell'area dell'antico comitato, ma ne oltrepassarono i limiti, strappando lembi del loro territorio alle città vicine, cercando addirittura di assoggettarle, e spingendole così a cercare appoggi e aiuti in altre città più potenti. Si vennero di conseguenza formando dei gruppi di città tradizionalmente amiche e di città tradizionalmente nemiche; ma non erano aggruppamenti che costituissero un'unità territoriale, continua e omogenea, perché ogni città era inevitabilmente nemica delle sue confinanti immediate e amica delle nemiche di quelle, in una specie di gigantesca scacchiera che alternava amici e nemici e nella quale si giocava un'incessante, sanguinosa partita.

Al tempo stesso, nel moltiplicarsi delle questioni di cui doveva occuparsi, il regime comunale si va articolando in una pluralità di magistrature, di uffici, di consigli. Tutto questo, insieme con i lavori pubblici – mura, strade, ponti, canali, arginature – era finanziato con quei redditi di varia natura di cui le città avevano sempre goduto, ma anche con buona parte di quei redditi che avrebbero dovuto affluire alla «camera regia» e che venivano invece trattenuti nelle casse comunali.

Era inevitabile che tra le città e l'Impero si determinasse un pericoloso conflitto quando avesse assunto il potere un sovrano risoluto a dare reale contenuto al suo titolo, a riprendere il controllo della situazione italiana e a ripristinare le sue prerogative in fatto di guerre locali, di nomine di magistrati cittadini, di diritti fiscali.

Le vicende del conflitto tra le città «lombarde» e Federico Barbarossa sono note, ma è opportuno mettere in evidenza alcuni aspetti particolarmente significativi. I comuni non negavano l'alta sovranità imperiale, ma difendevano la loro «libertà», termine che indicava la facoltà di avere un regime consapevole dei bisogni materiali e morali della città, capace di provvedervi direttamente in maniera rapida ed efficace, in quanto era espressione della cittadinanza e non di un altro ordine giuridico – come il conte o il vescovo – i cui interessi potevano in parte coincidere, ma potevano anche essere del tutto opposti a quelli dei cittadini. Di conseguenza, «libertas» significava prima di tutto libertà di eleggere i magistrati che dovevano eseguire i mandati della collettività.

La definizione delle «regalie», cioè delle prerogative e competenze del potere centrale nei confronti di quelli che oggi chiameremmo «enti locali», fu dall'imperatore demandata a quattro giuristi della scuola bolognese, che vollero associarsi i «giudici» delle altre città, presenti alla dieta di Roncaglia, non perché intendessero sottrarsi alla responsabilità di una definizione giuridica, ma perché – consapevoli delle conseguenze pratiche che il loro responso avrebbe avuto e dei limiti che la volontà dei cives avrebbe posto alla volontà sovrana – cercavano di assicurarsi la solidarietà dei rappresentanti delle altre città, i sarebbero stati poi gli interpreti della volontà sovrana di fronte ai loro concittadini.

L'enumerazione dei diritti sovrani – desunti dalle indicazioni che ne dava il Corpus iuris iustinianei – comprendeva anche quello di nominare direttamente tutti gli agenti del potere regio, tutti coloro che dovevano rendere giustizia, consoli cittadini compresi; ma il colpo più grave al nuovo regime cittadino era dato dalla Constitutio pacis, promulgata nella stessa dieta per imporre la pace territoriale. Dopo aver proibito sotto gravissime pene le guerre locali, veniva infatti ordinato: Conventicula quoque et omnes coniurationes in civitatibus et extra, etiam occasione parentelae, inter civitatem et civitatem et inter personam et personam sive inter civitatem et personam omnibus modis fieri prohibemus et in praeteritum factas cassamus, singulis coniuratorum pena unius libre auri percellendis (art. 6). Venivano così in poche parole annullati sia il patto giurato e periodicamente rinnovato su cui si fondava l'autorità dei consoli e degli altri ufficiali comunali, sia le associazioni artigiane, le consorterie nobiliari, le leghe fra le città, gli accordi conclusi tra le città e i signori feudali, che venivano riportati con molto vigore alle dipendenze dirette del sovrano con la Constitutio de feudis, anche questa promulgata nel corso della dieta di Roncaglia.

L'entità della somma globale che l'imperatore riteneva di poter esigere dalle città – 30.000 marche d'argento annue, pari suppergíù a dieci quintali d'argento – e le somme che riuscì effettivamente a riscuotere da varie città, come corrispettivo delle concessioni di privilegi o di indulti, attestano la prosperità economica delle città.

I comuni reagirono stringendosi prima in leghe locali, poi in una grande lega, conosciuta come «Lega lombarda», che confrontata alle precedenti leghe concluse dalle varie città presentava novità considerevoli: alle clausole relative agli impegni politico-militari se ne accompagnavano infatti altre che, tenendo conto della frequenza degli scambi commerciali, instaurava fra le città aderenti un sistema di reciproca tutela giuridica delle persone e delle cose e di reciproche esenzioni doganali. Il collegio dei «rettori», che – uno per città – guidava l'azione politico-militare della Lega, discuteva e risolveva le controversie che di tanto in tanto sorgevano tra le città collegate, finì col rendere giustizia in appello ai privati cittadini, sostituendosi al tribunale regio.

Su tali basi avrebbe potuto prendere vita durevole un sistema ben articolato, che contemperasse ed equilibrasse le autonomie locali, cittadine, e un'autorità intercittadina, supercittadina, capace di frenare le intemperanze dei singoli comuni e di provvedere all'interesse generale, garantendo la pace territoriale, la stabilità del sistema doganale, la pronta e sicura amministrazione della giustizia nelle cause intercittadine, la libera circolazione degli uomini e delle merci, e continuando in tal modo nella linea indicata dalle prime trattative dirette ad assicurare la libera navigazione del Po, promosse appunto dai rettori della Lega.

La Lega lombarda era però inficiata da un errore di partenza: quello di essere nata come strumento di guerra e non di pace; e la conclusione della pace di Costanza le tolse il suo slancio vitale, la sua ragione d'essere. L'Impero riassunse quelle funzioni pubbliche il cui esercizio avrebbe potuto fare della Lega un'istituzione necessaria al vivere civile, dare una soluzione federale al particolarismo italiano: una soluzione evidentemente inattuabile in un'area vasta e ricca di multiformi energie come la pianura padana, da più di un secolo incardinata su altri sistemi politici. Con la pace di Costanza, che inseriva i comuni nella struttura dell'Impero, la Lega aveva finito il suo compito, e quando fu rinnovata – il che avvenne più volte, fra il 1185 e il 1225 – non ebbe come fine la ripresa di un'azione autonoma, aperta in tutte le direzioni, ma semplicemente il mantenimento della pace di Costanza, cioè la difesa delle libertà acquisite in tutto il loro feroce particolarismo [TESTIMONIANZA 33].

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08