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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


14. Evoluzione delle istituzioni comunali

La regolamentazione delle autonomie cittadine è un processo storico generale, che sul declinare del XII secolo si verifica in tutti i paesi europei, in limiti o forme coerenti con la situazione politica locale. Per quel che concerne l'Italia, la pace di Costanza è un momento di fondamentale importanza nella storia delle città lombarde e di tutte le altre città comunali italiane che per concessione o per usurpazione finirono per conseguire le stesse prerogative: dietro compenso di un canone annuo, i comuni acquisivano il diritto di godere delle regalie, comprendenti la libertà di eleggere i magistrati che dovevano amministrare la città e rendere giustizia; di mantenere la Lega e di concludere altre alleanze se lo avessero ritenuto opportuno; di rinnovare e ampliare le opere di fortificazione della città e del territorio; e infine ottennero anche il riconoscimento della validità delle consuetudini giuridiche locali e delle leggi che avevano già cominciato a darsi, come dimostrano gli statuti superstisti di Pistoia, Pisa, Milano, Piacenza, Verona, Ferrara [TESTIMONIANZA 31].

La prima conseguenza della pace di Costanza è tuttora visibile nel tessuto urbanistico. L'esercizio delle prerogative politiche, amministrative e giudiziarie riconosciute ai magistrati cittadini richiedeva che fosse apprestato un luogo ben preciso in cui potessero essere svolte tutte le funzioni che ne derivavano: tra la fine del XII secolo e il primo trentennio del XIII quasi dovunque vennero costruiti dei palazzi comunali, generalmente situati nelle immediate vicinanze del centro economico cittadino, cioè del mercato, a una certa distanza – o per lo meno nettamente distaccati – dalla cattedrale, dal palazzo vescovile e dalla residenza comitale che erano stati i centri tradizionali della vita pubblica. I nuovi edifici assumevano in tal modo il significato e il valore di simboli civili dell'autonomia cittadina, così come il sigillo e lo stemma ne erano il simbolo giuridico e così come il carroccio e il vessillo ne erano il simbolo militare.

La disponibilità di una sede consentì anche la sistematica conservazione delle carte in cui si registrava l'attività dei vari organi amministrativi, dando vita a quegli archivi nei quali si riflette tutta la vita cittadina, pubblica e privata. Al tempo stesso andava anche maturando una trasformazione costituzionale di notevole importanza.

Il governo consolare era espressione dei maggiorenti locali, vera e propria aristocrazia cittadina, già formata e addestrata alle attività di governo nell'età precomunale; per quasi un secolo questa aristocrazia aveva retto senza opposizioni il comune e aveva ottenuto risultati eccellenti in tutti i campi della vita associata: dopo trent'anni di battaglie diplomatiche e di guerra, l'Impero aveva riconosciuto l'autonomia comunale; le ultime tracce degli antichi poteri all'interno della città erano state cancellate; l'autorità del comune si era imposta entro i confini della diocesi, su feudatari e comunità rurali; si erano redatti i primi statuti; la costituzione comunale si era sviluppata e arricchita di altre magistrature, di altri uffici: ma poiché tutte le cariche erano temporanee e perfino il personale di segreteria addetto ai singoli uffici si avvicendava con molta rapidità, il regime consolare soffriva di una mobilità che favoriva i contrasti tra le famiglie e le fazioni per la conquista del potere, contrasti che andarono aggravandosi con l'allargamento progressivo della base politica.

I progressi realizzati in questo stesso periodo nell'agricoltura, nel commercio, nell'industria avevano rafforzato economicamente e socialmente quegli strati della popolazione urbana che in pratica erano esclusi dal consolato e che dovevano contentarsi – tutt'al più – di cariche secondarie. Erano organizzati in associazioni di mestiere; costituivano la maggioranza negli aggruppamenti demotopografici che erano la base di reclutamento dell'esercito comunale; mantenevano l'ordine pubblico e assicuravano i servizi essenziali – come già abbiamo detto – nelle singole circoscrizioni cittadine. Essi avevano una funzione fondamentale nell'economia cittadina, e poiché ne erano coscienti aspiravano ad avere un ruolo proporzionale nel governo comunale.

Non era soltanto l'esclusivismo del ceto dei dirigenti che offendeva gli altri: erano gli abusi che essi commettevano nell'amministrazione della giustizia, nella ripartizione delle imposte; era la loro pretesa di essere esentati da certi tributi, quale contropartita del servizio militare a cavallo che prestavano a loro spese; erano le appropriazioni di beni e di redditi comunali; erano soprattutto i contrasti, le risse, le mischie che provocavano, disputandosi la preponderanza nel collegio consolare e nel consiglio, rivaleggiando tra loro e con i signori feudali che avevano costretto a lasciare i loro castelli e ad abitare in città prestando giuramento di cittadinanza, ma ai quali tendevano a precludere l'accesso al consolato e i vantaggi che ne derivavano.

Una trasformazione radicale della costituzione comunale era inevitabile e si concretò nella sostituzione di un magistrato unico al collegio dei consoli. Era del resto una trasformazione che in un certo senso si andava preparando da tempo: pare che nel collegio dei consoli si fosse già profilata la preminenza di un console sugli altri, e quando si erano avute le prime avvisaglie dei propositi di Federico Barbarossa alcune città avevano ritenuto prudente sostituire ai consoli un magistrato unico, scelto fra quei cittadini che a titolo personale o familiare godevano di giurisdizioni feudali o, meglio ancora, che ricoprivano qualche importante carica nell'amministrazione vescovile e con le loro attribuzioni personali potevano conferire una specie di legalità all'azione del comune. Nei vari luoghi dove si ricorse a questo espediente, il nuovo magistrato fu indicato con nomi diversi, ma tra questi nomi figurava anche quello di potestas, termine astratto che si soleva usare per designare quelle persone che avevano giurisdizione civile e criminale per delega di un'autorità superiore. Tale termine era stato usato anche da Federico Barbarossa per indicare i funzionari che aveva mandato a reggere le città. Malgrado il cattivo ricordo che i podestà federiciani avevano lasciato, le città adottarono questo nome per la nuova magistratura che doveva incarnare la suprema impersonale autorità dello Stato, con assoluta imparzialità.

Le circostanze in cui la nuova magistratura venne introdotta nelle varie città ci assicura che fu un successo dei gruppi che per comodità chiamiamo popolari, anche se gli operai, i salariati, i braccianti non ne facevano parte.

Altro successo popolare fu la sostituzione dell'arengo con un consiglio generale di tre-quattrocento o più consiglieri, eletti con sistemi complicati che mescolavano l'estrazione a sorte e la nomina diretta. L'ampiezza del consiglio, la regola che tutti i quartieri della città vi fossero rappresentati in proporzioni uguali garantivano una larga partecipazione popolare, mentre la possibilità di discutere le proposte più ampiamente di quanto non fosse possibile nell'arengo e la norma di votare regolarmente pro o contro consentivano ai consiglieri – che erano rieleggibili – un'azione politica efficace e continua.

La fisionomia della nuova magistratura andò definendosi via via: i primi podestà pare fossero cittadini, ma vi furono anche dei ritorni al regime consolare; poi ci si orientò generalmente verso podestà scelti in città vicine o lontane, ma amiche, nella persuasione che essendo estraneo alla città il nuovo magistrato potesse essere estraneo alla rivalità locali. Erano uomini appartenenti alla nobiltà, esperimentati nelle cose di governo e nelle cose di guerra, forniti di una buona preparazione giuridica e come tali capaci di difendere con tutti i mezzi i diritti, le aspirazioni, le pretese delle città. Ben presto si formò una categoria professionale di persone che passavano da una città all'altra, come podestà, regolarmente stipendiati e accompagnati da un gruppo di collaboratori che, mentre li coadiuvavano, si addestravano, si facevano conoscere e si preparavano la possibilità di essere poi a loro volta eletti podestà.

Questo spostarsi da un luogo all'altro dei podestà, e più tardi dei capitani con i loro collaboratori – e gli uni e gli altri avevano assai spesso studiato diritto nelle scuole universitarie – favorì la progressiva assimilazione delle istituzioni e delle leggi delle varie città, che al di là e al disopra del particolarismo politico finirono per plasmarsi, regione per regione, secondo certi schemi comuni.

La instabilità della vita comunale era un male che derivava dal contrasto degli interessi personali, familiari, consortili, che si esprimeva e si esasperava nella rapida rotazione degli uomini al posto di comando; ma neanche l'istituzione del podestà vi pose rimedio, perché il suo regime durava sei mesi o un anno soltanto, e il timore che egli potesse trasformarsi da magistrato in tiranno sconsigliava la rielezione.

Il nuovo regime, che è stato studiato e teorizzato dai contemporanei nei trattati de regimine [TESTIMONIANZA 35], anche se non assicurò quel tranquillo e ordinato svolgimento della vita politica che si era sperato, era tuttavia un sistema sagacemente articolato, che concentrava nel podestà il potere esecutivo, ma lo separava nettamente dal potere legislativo e costituente e confidava il diritto e il dovere di controllo alla totalità dei cittadini. Era insomma un sistema razionalmente elaborato, molto più progredito di quelli su cui si reggevano le monarchie europee del XIII-XIV secolo sebbene fosse tutt'altro che democratico – nel senso moderno del termine – perché alle cariche pubbliche erano eleggibili soltanto coloro che possedevano beni immobili o mobili sufficienti per risarcire i danni che eventualmente avessero recato alla collettività nell'esercizio dell'ufficio. È una norma che non venne mai meno, cosicché quando si parla di comune popolare, di partecipazione del popolo alla vita politica, in realtà si parla di ceti più o meno abbienti, e non di popolo in senso moderno: operai, salariati, diseredati…

Il nuovo sistema politico, che era almeno in parte un successo degli elementi popolari, non ne arrestò l'ulteriore avanzata politica. Infatti i ceti popolari, che avevano a proprio vantaggio la forza del numero e la potenza economica, s'erano dati una solida organizzazione: le società delle arti riunivano – categoria per categoria – tutti coloro che esercitavano un'attività economica in proprio e li impegnavano a una precisa condotta nell'esercizio della loro attività economica, ma non erano adatte a un'azione diretta per difendere la pace cittadina contro i tumulti provocati dalle fazioni che dividevano l'aristocrazia consolare e per far cessare il predominio della vecchia classe dirigente. S'erano così formate delle associazioni armate, che riunivano gli iscritti nelle associazioni di mestiere e gli uomini validi delle loro famiglie, non in relazione alla loro attività professionale, ma in relazione all'ubicazione della loro casa, con il preciso intento di sostenere nella politica interna ed esterna gli interessi del «popolo», cioè dell'associazione generale nella quale, sia pure attraverso vicende diverse e con modalità diverse da una città all'altra, si erano uniti gli appartenenti a ceti popolari, iscritti alle associazioni di mestiere e alle associazioni armate. Tra essi c'era però una certa aliquota di membri dell'aristocrazia che passavano tra le file del popolo per i motivi più vari: perché esercitavano effettivamente un'attività economica, perché erano sinceramente indignati del comportamento dei loro pari, o per demagogia; in tutti i casi, essi accettavano gli obiettivi dei popolari e mettevano al loro servizio la propria esperienza politica. In molti comuni queste associazioni generali del popolo prendono il nome del santo patrono della città, quasi a significare che sono loro, i popolari, che formano la vera città.

Dal canto suo l'aristocrazia cittadina, che fino allora aveva conosciuto soltanto raggruppamenti familiari imperniati sul possesso e l'uso comune di una torre e di una cappella privata – sono i cosiddetti «consorzi» –, si irrigidisce in un'associazione di classe, la societas militum, che per sua natura è un'associazione armata, e impiegando la forza riuscirà a contenere o addirittura a reprimere la spinta popolare [TESTIMONIANZA 34].

La ripresa del moto popolare fu ritardata dalla necessità di difendere l'autonomia cittadina, quale era stata riconosciuta dalla pace di Costanza e ulteriormente estesa nella pratica quotidiana, contro il programma assolutista di Federico II. Non è il caso di analizzare qui gli aspetti del nuovo conflitto tra imperatore e comuni, tra imperatore e papa. Basterà dire che tale conflitto coinvolse tutte le città che si erano schierate da una parte o dall'altra, per tradizione o per interesse, in funzione degli antagonismi e delle rivalità che le opponevano le une alle altre. Nel corso delle vicende che agitarono la vita politica italiana dopo la morte di Federico II, esse conservarono le loro posizioni reciproche e di conseguenza, all'interno dei comuni, i partiti che dividevano l'aristocrazia o che opponevano i «nobili» e il «popolo» si presentarono come «guelfi» o «ghibellini» e cercarono di imporsi agli avversari con l'appoggio delle fazioni delle città vicine. Quando una fazione era sopraffatta dall'altra, e veniva espulsa e bandita dalla città, era con le armi dei comuni controllati da un partito amico che i fuorusciti cercavano di rientrare, proponendosi di espellere e bandire a loro volta gli avversari, o quanto meno di togliere loro ogni diritto politico.

La collaborazione fra partiti, il riconoscimento agli antagonisti di diritti uguali ai propri, sono concetti che il Medioevo ignorava. La forza dei partiti non si misurava dal numero degli aderenti, dal numero dei voti, ma dalla capacità di occupare materialmente la piazza, il palazzo comunale, imponendosi con le armi; dalla capacità di espellere gli avversari dalla città, di bruciarne le case, di confiscarne i beni. In questo clima, mentre gli espulsi si rifugiavano in una città vicina governata da un partito amico e per mantenere la propria coesione, si organizzavano in forme modellate su quelle del comune, con il nome di comune (o universitas) extrinsecorum, il partito vincitore governava da solo, e per meglio imporsi sui non simpatizzanti e sui dissidenti rimasti in città, per difendere la sua vittoria, rinsaldava la propria struttura con un'organizzazione modellata anch'essa sul comune: quale, ad esempio, la parte Guelfa a Firenze o a Bologna. Ma fra tutti questi contrasti il popolo riprese la sua ascesa discernendo quasi ovunque la classe politica per eccellenza.

Le società generali del popolo, riorganizzatesi molto rapidamente dopo la morte di Federico II – i processi imitativi dovettero avere ancora una volta una grande influenza –, affiancarono agli esistenti organi comunali nuovi organi da esse espressi. La costituzione unitaria del comune si trasformò così in una struttura dualistica, a tutto vantaggio del popolo, poiché accanto al consiglio generale del comune, eletto fra tutti i cittadini, aristocratici e popolari, fu posto con analoghi poteri legislativi e costituenti il consiglio del popolo, nel quale entravano solamente quelli che erano iscritti alle associazioni popolari, professionali o armate. Il potere esecutivo non fu più esclusivamente riservato al podestà, ma fu diviso fra il podestà e i rappresentanti popolari, i cosiddetti «anziani» o «priori», ben presto presieduti da un «capitano del popolo» quale contrappeso del podestà. Come era facilmente prevedibile, nemmeno il nuovo regime dualistico poteva conservare l'equilibrio tra le diverse forze politiche; le prerogative e i poteri del capitano del popolo si andarono progressivamente accrescendo e sviluppando a danno di quelli del podestà: è il capitano che controlla e coordina tutta l'organizzazione del popolo, ne presiede i consigli, ne dirige la politica interna ed estera, comanda l'esercito comunale e controlla l'attività giudiziaria e amministrativa del podestà.

La vittoria costituzionale dei ceti popolari era però minacciata all'esterno dalla pressione del popolo minuto e dalle sue rivendicazioni politico-economiche, all'interno dalla potenza economica e dal prestigio sociale di taluni dei suoi membri, potenza economica che si traduceva molto spesso in prepotenza: assimilando i popolari troppo ricchi e prepotenti ai membri dell'antica aristocrazia che continuava a comportarsi al modo usato, e indicandoli tutti insieme con il nome di magnati, vennero colpiti con leggi particolarmente severe, le cosiddette leggi antimagnatizie, che ne limitavano l'eleggibilità alle cariche pubbliche e punivano più severamente i reati che avessero commesso, con disposizioni molto simili in tutte le città in cui furono promulgate.

Con il progressivo allargamento della base politica, le lotte erano diventate più accanite e tra gli individui politicamente attivi si erano acuite le rivalità e i rancori. L'espulsione degli avversari che trovavano appoggio presso i nemici esterni della città e del partito che li aveva espulsi complicava la situazione e provocava guerre che non corrispondevano alle reali esigenze della città in quanto tale. Alla pressione dei nemici esterni, alla paura degli intrighi e dei tradimenti dei nemici interni, si cerca di rispondere mettendosi sotto gli ordini di un capo, del capo che le vicissitudini della lotta hanno già indicato e la cui autorità e i cui poteri vengono esplicitamente riconosciuti con il conferimento di un titolo: dominus, signore.

Il bisogno di unità, di continuità, di ordine, che è la causa fondamentale del formarsi della signoria, agisce anche nelle città dove le circostanze non consentono la formazione di regimi oligarchici, più o meno ristretti.

È una tendenza che si realizza compiutamente a Venezia; ma mentre a Venezia il regime oligarchico è frutto di una maturità politica pienamente consapevole, altrove è una manifestazione di stanchezza e di debolezza. Signoria o regime oligarchico, si è rinunciato alla libertà per avere la pace, e anche se le forme esteriori sembrano immutate e il meccanismo dei consigli e delle magistrature sembra funzionare al modo antico, in realtà lo spirito che li informa è completamente cambiato [TESTIMONIANZA 37].

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08