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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana > Testimonianze, 37

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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


Testimonianze

37. I magistrati comunali derisi in una novella del Boccaccio

Quando lo storico si accinge a ricostruire in ogni suo aspetto un momento del passato, ogni testimonianza di quel momento – sia essa un documento, una cronaca, un manufatto, un poema, una cattedrale o un arnese agricolo – è fonte utilissima. Le novelle del Boccaccio sono poi particolarmente utili per ricostruire le situazioni di tutti i giorni e la vita quotidiana della borghesia trecentesca per gli infiniti particolari che vengono dati.

La novella quinta dell'ottava giornata del Decamerone mostra con quale scanzonata spavalderia viene deriso un giudice dai giovani fiorentini, i quali non portavano alcun rispetto a quei funzionari comunali che si rendevano ridicoli per mancanza di una buona preparazione giuridica e in particolare verso questo giudice che assomigliava più a un magnano che a un uomo di legge, trascurato nel vestire e perciò tutt'altro che «ordinato e costumato uomo».

La novella rispecchia anche un particolare momento dell’evoluzione del sistema comunale, che dal governo consolare aristocratico e cittadino, attraverso fasi successive, era giunto a quello podestarile, in cui un forestiero avrebbe dovuto impersonare l'assoluta imparzialità dell'autorità statale. (GIOVANNI BOCCACCIO, Il Decameron, a cura di G. Petronio, Torino, 1955, pp. 512-514).

 

Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare lor fatto che una pidocchieria, e per questa loro innata miseria ed avarizia menan seco e giudici e notari che paiono uomini levati più tosto dall'aratro o tratti dalla calzoleria che dalle scuole delle leggi. Ora, essendovene venuto uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò ne menò uno il quale si facea chiamare messer Nicola da San Lepidio, il quale pareva più tosto un magnano che altro a vedere; e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire le quistioni criminali. E come spesso avviene che, benché i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d'un suo amico, v'andò; e venutogli guardato là dove questo messer Nicola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerato. E come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo ed un pennaiuolo a cintola e più lunga la gonnella che la guarnacca ed assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una più notabile che alcuna dell'altre, al parer suo, ne gli vide; e ciò fu un paio di brache le quali, sedendo egli ed i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro infino a mezza gamba gli aggiugnea. Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de' quai l'uno aveva nome Ribi e l'altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro: – Se vi cal di me, venite meco infino a palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai –. E con loro andatosene in palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggermente si poteva andare; ed oltre a ciò, videro rotta l'asse sopra la quale messer lo giudice teneva i piedi, tanto che a grande agio vi si poteva mettere la mano ed il braccio. Ed allora Maso disse a' compagni: – Io voglio che noi gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene –. Aveva già ciascun de' compagni veduto come; per che, tra sé ordinato che dovessero fare e dire, la seguente mattina vi ritornarono, ed essendo la corte molto piena d'uomini, Matteuzzo, che persona non se n'avvide, entrò sotto il banco ed andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi; Maso, dall'un de' lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi accostatosi dall'altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire: – Messere, o messere, io vi priego per Dio che innanzi che cotesto ladroncello che v’è costì da lato vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d’u ose le quali egli m’ha imbolate, e dice pur di no; ed io li vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare – Ribi, dall’altra parte, gridava forte: – Messer, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello; e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d’una valigia la quale egli m’ha imbolata, è egli testé venuto e dice dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’a ltrieri; e se voi non mi credereste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia da lato, e la Grassa ventraiuola ed uno che va ricogliendo la spazzatura di Santa Maria a Verzaia, che il vide quando egli tornava di villa –. Maso, d’altra parte, non lasciava dire a Ribi, anzi gridava; e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice stava ritto, e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell’asse e pigliò il fondo delle brache del giudice, e tirò giù forte. Le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato; il quale, questi fatti sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall’un lato e Ribi dall’altro pur tenendolo e gridando forte: – Messer, voi fate villania a non farmi ragione e non volermi udire e volervene andare altrove; di così piccola cosa come questa è, non si dà libello in questa terra! – tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n’erano, s’accorsero essergli state tratte le brache. Matteuzzo, poi che alquanto tenute l’ebbe, lasciatele, se n’uscì fuori ed andossene senza esser veduto. Ribi, parendogli avere assai fatto, disse: – Io fo boto a Dio d’a iutarmene al sindacato! – e Maso, d’altra parte, lasciatagli la guarnacca, disse: – No, io ci pur verrò tante volte, che io non vi troverò così impacciato come voi siete paruto stamane! – e l’uno in qua e l’altro in là, come più tosto poterono, si partirono. Messer lo giudice tirate insù le brache in presenza d’ogni uomo, come se da dormir si levasse, accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan quistione; ma non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e’ gli conveniva conoscere e saper se egli s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici quando sedevano al banco della ragione. Il podestà, d’altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzo; poi per suoi amici mostratogli che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentin conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne miglior mercato, per lo migliore si tacque, né più avanti andò la cosa per quella volta.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08