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Wycliff. Il comunismo dei predestinati

di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

© 1975-2007 – di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri


1. Il "dominio": Fitzralph e Wyclif

È in un'opera di un venerabile vescovo, dedicata a Innocenzo VI, un'opera mai censurata né condannata, che si può rintracciare con sicurezza l'origine delle tesi sul «dominio» di Wyclif, riprovate da Gregorio XI e condannate al Concilio di Costanza nel 1415.

L'opera Sulla povertà del Salvatore [1] fu scritta nel 1353-1356 dall'irlandese Richard Fitzralph, maestro e cancelliere a Oxford, poi arcivescovo di Armagh (donde il soprannome di Armachanus), coinvolto dal papa Clemente VI nella disputa sulla povertà dei Mendicanti. Nonostante la precisione e anche la durezza delle sue tesi, contrarie ai frati, Fitzralph non fu in vita né sospetto né accusato e alla sua morte ci fu persino un tentativo ufficiale di canonizzazione. Più tardi, significativamente, Wyclif e i Lollardi lo chiameranno San Riccardo.

L'approccio al dibattito – che era rovente e toccava interessi ben concreti – è nell'opera di Fitzralph rigorosamente «professionale»: diverse sono le regole date ai diversi ordini – nota l'autore – da Agostino, Benedetto, Francesco e Domenico. Questa differenziazione di vita e di valori (che, in quanto tale, per Wyclif, sarà già negativa come degenerazione dell'unità e semplicità della regola evangelica) deve essere appunto ricondotta ai diversi significati e alle diverse relazioni di significato che si possono attribuire a un gruppo di termini: dominio, proprietà, possesso, diritto e uso. Il primo termine è privilegiato. Il dominio si può rintracciare in forma piena, assoluta e immediata in Dio: può quindi essere studiato in sé al di fuori delle condizioni umane e di quelle, ancora più limitate, civili, ossia politiche. Queste ultime presuppongono infatti la caduta dopo il peccato originale dallo stato iniziale di grazia.

Il dominio in sé, nella sua pienezza, si esprime nel possesso e si estrinseca nell'uso dei soggetti dominati, ma – è questo l'aspetto di maggior rilievo – non implica necessariamente la proprietà. Anzi, la pienezza del dominio divino e la sua perfezione la escludono senz'altro. Nella definizione di proprietà sta infatti una nozione di imperfezione o privazione: l'oggetto di proprietà può essere venduto (alienato) e non appartenere più al suo iniziale proprietario. Dio, che domina in maniera perfetta, dona e non può perdere – afferma Fitzralph – poiché l'onnipotenza divina prevede l'uso eterno e continuo delle creature da parte del Creatore. La partecipazione o comunione è il modo mediante il quale Dio dona agli uomini la sua grazia e l'uso del mondo senza tuttavia perderlo. La comunità dei beni, reale solo in Dio, vigeva anche nello stato di perfetta grazia prima del peccato originale, quando tutti gli uomini partecipavano in perfetta parità al dominio sul mondo. Ma il peccato ha ribaltato questo stato di grazia e uguaglianza in uno stato di guerra e di dolore – nota Fitzralph con Agostino – ed è nato il dominio civile e la proprietà privata. Con essa la diseguaglianza si è introdotta fra gli uomini. La proprietà privata è dunque giustificata dallo stato di debolezza in cui è caduta la natura umana, ma comunque non sono giustificati né l'abuso dei beni di fortuna, né le ingiustizie economiche, né l'ostentazione oltraggiosa delle ricchezze. Fitzralph non insiste su questo aspetto, così scottante, più di tanto, né, d'altra parte, sembra disposto a utilizzare operativamente, come programma di riforma, il concetto di partecipazione e comunione dei beni. Lo stato di innocenza e di giustizia rimane quindi un miraggio irraggiungibile, anche perché, con la rottura del patto fra uomo e Dio e l'inadempienza da parte degli uomini alle regole della sottomissione e del «servizio» (la teoria qui rispecchia senz'altro la pratica «feudale»), si è creato uno stato irreversibile di inimicizia e di dolore. E tuttavia queste considerazioni non potevano rimanere senza eco quando gli eventi si fossero fatti drammatici, le ingiustizie troppo palesi e la situazione intollerabile per gli emarginati e per coloro che non avevano «proprietà».

È Wyclif stesso che nel De civili dominio [2] riporta (possiamo immaginare con soddisfazione) alcuni discorsi tenuti davanti al Parlamento nell'inverno del 1371.

La lunga guerra con la Francia estenuava il paese aggravando sempre più la crisi economica e finanziaria, e la Corona chiedeva aiuto ai lords e ai comuni.

È naturale che in questi frangenti i beni accumulati dal clero e dai monasteri sembrassero una infrazione troppo scandalosa al concetto di comunità nazionale, oltre che una deviazione evidente dalla primitiva povertà evangelica. Gli ordini erano quindi doppiamente imputati: di sottrarsi ai doveri verso la nazione e la Corona, e di smentire il comandamento del Vangelo. Gli attacchi provenivano da parti diverse a causa di una momentanea convergenza di interessi. È per noi molto interessante la dichiarazione del frate agostiniano Bankin, dichiarazione che proprio per il suo estremo rigore non fu inclusa nel verbale ufficiale del Parlamento. Bankin sosteneva che «in caso di necessità tutti i possessi del clero e degli altri dovevano essere messi in comune». Il «caso di necessità» (il problema consisterà appunto nell'identificarlo) diventa quindi uno dei momenti in cui l'ideale comunitario dello stato di grazia antecedente la caduta sembra assumere valore di programma non irrealizzabile.

Quando Wyclif si accinge a scrivere il De dominio divino non ha quindi davanti a sé solo idee, dottrine e dibattiti teorici, ma anche programmi di forze concrete, identificabili all'interno del paese: per una temporanea convergenza voluta proprio dal «caso di necessità», i laici e la Corona, í sostenitori della «povertà» della Chiesa e i portavoce della miseria contadina sembrano d'accordo nell'indicazíone di rimedi radicali. L'analisi condotta da Wyclif nel De dominio divino è solo apparentemente teologica; anche l'autore del resto ne avverte la portata concreta e l'utilità per la politica («queste considerazioni valgono anche per i politici perché i principi della conoscenza del dominio, del possesso e dell'uso sono utili anche per le creature…»). La connessione sarà dimostrata negli esiti, alle condanne della gerarchia ecclesiastica alle conseguenze tirate più avanti dai Lollardi. Nella ricerca sulla definizione e sull'origine del dominio è dunque imprescindibile la definizione del dominio divino, in due sensi direi: oggettivo (per Wyclif è l'aspetto fondamentale) poiché al Dio onnipotente della Rivelazione e della teologia scotista e occamista nessun uomo può sottrarsi («di chiunque sia servo un uomo su questa terra, innanzitutto è servo di Dio»), e poi metodologico poiché, al pari di Fitzralph, Wyclif inizia a studiare il dominio in sé al di fuori delle condizioni che lo limitano e lo inquinano su questa terra, e il dominio in sé può essere studiato solo in Dio. Il metodo è insomma quello dei teologi che, nei commenti alle sentenze, potevano isolare, grazie all'ipotesi di un intelletto perfetto e infinito (Dio), lo studio delle potenze conoscitive dalle situazioni limitate in cui si trova l'uomo in via.

Le controversie sulla definizione di dominio nascono, secondo Wyclif, proprio dall'incapacità tipica dei politici grossolani » di studiarlo in senso «concettuale» e puro: il che si può fare invece perché «il dominio divino è principio e quindi metro di ogni altro dominio». Il dominio è una relazione, anzi un abito della natura razionale (Dio e uomo), che definisce una supremazia di questa su un soggetto. Questa direzione di supremazia è accidentale fra gli uomini (le opere della violenza, ripete Wyclif con Aristotele, non sono immortali), mentre in Dio ha avuto inizio con la creazione ed è senza fine. Ecco una prima differenza, alla quale se ne aggiungono altre che introducono una certa dialetticità nell'analogia fra dominio divino e umano, che era stata assunta inizialmente come piano della ricerca. Innanzitutto nella definizione di dominio divino, proprio per la sua perfezione, non ci può essere ciò che costituisce la motivazione di quello umano: il signore ha bisogno del servo proprio per realizzare un suo programma, di conquista o di produzione, mentre Dio «non necessita di alcun servizio». Ciò è connesso con altri temi: ne discende la piena gratuità dei doni di Dio all'uomo, doni che non sono mai ricompense – questo punto sarà sviluppato nella teologia della grazia – mentre, d'altra parte, si individua nella miseria dell'uomo (e cioè nella caduta e nel peccato originale) la nascita e la «fatalità» del dominio come fatto politico. Un altro aspetto distingue il dominio di Dio da quello degli uomini: il dominio divino è così «violento», onnipresente e imprescindibile che nessuna creatura può sfuggirgli, neanche chi è «servo» (ossia sottoposto al dominio) del diavolo. È questa una distinzione di grande rilievo: nell'orizzonte feudale sembra inconcepibile un servo di due signori in contrasto fra loro, ma Wyclif, grazie alla prospettiva teologica che ha assunto, può sollevarsi alla constatazione che questa caratteristica non è interna alla definizione di dominio ma soltanto a quella di un particolare dominio, quello collocato nella struttura gerarchica dei rapporti feudali. Potrà quindi essere aperta l'indagine se anche nell'ambito del dominio civile si può dare un tipo di dominio «pieno» e totale come quello divino, pur nelle limitazioni cronologiche e territoriali della dimensione umana.

Alcune distinzioni analizzate da Wyclif chiariscono meglio la sua teoria. Innanzitutto distinguiamo servo da servitore. Il primo è soggetto a una situazione violenta e costrittiva (che deriva dal peccato). L'uomo, che nel disegno originario di Dio doveva dominare solo gli animali, dopo il peccato conosce la violenza e la sopraffazione derivate dal bisogno: il servo è la conseguenza di uno stato di necessità e di aggressività, la servitù una istituzione generata dalle difficoltà di accordo nella convivenza umana. La servitù è dunque un rimedio a una violenza più totale, ma può diventare – come vedremo – essa stessa una forma di violenza in una spirale di corruzione e degenerazione.

Altra cosa è il servitore che assolve un compito previsto dal disegno caritatevole di Dio: il servitore è un ministro che opera volontariamente «per la edificazione del corpo mistico di Cristo». Questo «servizio» si identifica con il più alto e consapevole dei ministeri, sull'esempio di Cristo e degli apostoli. La servitù di Dio, ossia l'adesione, che nella natura razionale non può che essere volontaria, al suo programma di salvezza coincide – afferma Wyclif – con la vera unica libertà. Le due proposizioni antitetiche che aprono il De libertate christiana di Lutero [3] riprenderanno con ampiezza e vigore queste affermazioni.

Sulla traccia di Fitzralph vengono analizzate le differenze del dominio dal possesso e dal diritto. Fra diritto e dominio Wyclif individua una distinzione formale di tipo scotista: il diritto è il fondamento del dominio ma non è formalmente il dominio, come la potenza generativa del padre non è la paternità. Il dominio include il diritto, ma si può avere diritto a qualcosa sulla quale non si ha dominio: l'analisi sul concetto di diritto al dominio avvierà la discussione sulla legittimità di quest'ultimo (nel De civili dominio). In Dio diritto e dominio coincidono e traggono origine dalla sua qualità di Creatore, mentre la conservazione e il governo del mondo motivano il suo possesso e l'uso che Egli fa delle creature.

Concausa (assieme al diritto) del dominio è la potestà: Wyclif sembra individuarla nella capacità di realizzare il diritto in un dominio concreto ed è chiaro così che in Dio essa è simultanea agli altri elementi. Altra cosa è invece il possesso o proprietà. La proprietà è un momento perfettamente distinguibile dal dominio, e l'osservazione di situazioni concrete ci può offrire degli esempi. Il conquistatore di una terra – nota Wyclif – diventa signore (dominus), in base al diritto di guerra, del regno conquistato, ma ancor prima di essersi appropriato dei territori può distribuire ai suoi vassalli alcune terre, conservando per sé il dominio su di esse. Anche nell'ambito umano il dominio è dunque distinto dalla proprietà: in Dio, ossia nel dominio allo stato puro, questo è maggiormente vero, poiché nelle donazioni divine non c'è traccia di alienazione o perdita. Dio fa partecipi gli uomini dei suoi doni: la comunione dei beni – ne deduce Wyclif – non è in contrasto al dominio, ma anzi ne è la realizzazione piena e totale. Soltanto uno stato di imperfezione e di peccato – quale è appunto quello attuale – spiega l'appropriazione dei beni, che a sua volta genera i peccati più gravi come l'avidità e l'ambizione. L'aspetto più interessante del problema diventa qui il peso che assume nella teoria di Wyclif la valutazione positiva della comunione dei beni rispetto alle caratteristiche negative della proprietà privata. In altri termini, Wyclif crede che la comunione dei beni, oltre che più giusta, sia realizzabile (anche se soltanto in determinate circostanze) o che appartenza definitivamente a uno stato irrecuperabile? Nel primo caso la comunione dei beni diventa un momento importante all'interno della riforma della Chiesa e del popolo, nel secondo si ritorna al pessimismo agostiniano, accettando una fatale ingiustizia civile sancita dalla dottrina teologica del peccato originale. L indubbio che l'indicazione positiva della comunione dei beni diventi in molte pagine di Wyclif una proposta, quando maggiore e più fiducioso sembra il suo impegno di riformatore: non si arriva mai però all'istigazione alla rivolta contro le ingiustizie sociali con gli accenti e la determinazione di un John Ball [4].

La conclusione dell'indagine, nel De dominio divino, è paradossalmente opposta al punto di partenza: «il dominio divino è incommensurabile a quello umano». Questo perfetto rovesciamento (all'inizio «il dominio divino è il metro di quello umano») chiarisce la dialettica della ricerca di Wyclif: proprio perché il dominio divino è incommensurabile, l'analisi su di esso liberalizza le concezioni che sarebbero (e altrove sono in Wyclif) del tutto ancorate a una prospettiva «feudale», mentre d'altra parte, come «metro» del potere politico, il potere divino permette lo stabilirsi di idealità che nell'analogia sono indicate come realizzabili. La prospettiva teologica, come spesso nei filosofi medievali, ha questa doppia funzione di utopia e programma.

[1] R. FITZRALPH, De pauperie Salvatoris (i primi quattro libri), a cura di R. L. POOLE, London, 1890.

[2] A cura di R. POOLE, London, 1985, vol. II, p. 7.

[3] La Libertà del Cristiano, versione italiana a cura di c. MIEGGE, Milano, 1931, p. 27.

[4] Il noto sermone di Ball, che inizia con i versi «Quando Adamo zappava e Eva filava, chi era allora il gentiluomo?» (v. la versione italiana in Documenti di storia medievale, a cura di M. BENDISCIOLI, Milano, 1971), invita gli inglesi a «scuotere il giogo e ottenere la libertà sempre desiderata».

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08