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Wycliff. Il comunismo dei predestinati

di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

© 1975-2007 – di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri


2. Lo stato e il popolo

Lo stato a cui Wyclif pensa è l'Inghilterra. «O quanto felice e fertile sarebbe l'Inghilterra – esclama nel De civili dominio – se in ogni parrocchia il rettore risiedesse con i suoi sottoposti, se il lord abitasse con la moglie e i figli nel suo castello! Allora non vi sarebbero tante terre arabili abbandonate, né scarsità di bestiame. Il regno avrebbe abbondanza di ogni ricchezza e anche i servi e gli artigiani ne avrebbero a sufficienza. Ma ora non ci sono altro che mercenari avversi ai domini degli ecclesiastici, ma essi stessi oziosi e indifferenti a questa dissipazione che non li riguarda direttamente, pronti a rubare perché manca la sorveglianza del proprietario civile, a darsi al lusso e alla crapula disperdendo le sostanze. Gli ecclesiastici, dalla loro, rivaleggiano con i laici nella sontuosità e nelle spese: il regno deve patire così questa duplice disgrazia, la cui causa principale è, a mio parere, il clero. Poiché, se i sacerdoti insegnassero con parole e opere la legge di Cristo come negli antichi tempi, ogni male cesserebbe. Se il potere fosse tenuto direttamente nelle mani dei signori laici, ci sarebbe un aumento di matrimoni e di figli – elementi secondo Aristotele favorevoli alla crescita di uno stato – e il regno tutto ne trarrebbe prosperità» [1].

Il quadro che Wyclif auspica in questo passo è ricco di elementi concreti e il suo ideale è una società molto «terrena», retta da principi precisi e da istituzioni che ne garantiscono la funzionalità e l'efficienza. Vediamo di analizzarli: al centro è il principio che il potere temporale o civile sia tutto e soltanto nelle mani dei signori laici e direttamente esercitato da loro; questo soprattutto perché i laici, agendo nella sfera politica sulla spinta di moventi personali – la cura del patrimonio e il futuro dei figli –, si mostreranno più assidui ai loro doveri degli ecclesiastici che, pur di godere benefici immediati dai loro privilegi e possessi, lasciano tutto nelle mani di intendenti corrotti e oziosi, praticando, anche dal punto di vista strettamente economico, una politica miope. L'altro aspetto di rilievo è l'attenzione a uno stato di benessere globale del regno che si estenda a tutte le classi (servi e artigiani compresi), ricchezza che, secondo un'osservazione realistica di Wyclif, si può conseguire facilmente quando gli uomini destinati a un'attività «temporale» (i signori laici cioè) non abbandonano in mani altrui i loro interessi. Sembra qui che Wyclif guardi a una situazione di fatto, fondata su alcune caratteristiche della stessa natura umana (l'amore di sé e della propria prole), situazione che sviluppa, entro regole di moderazione e lavoro ordinato, un progresso economico generale.

È questo un programma (che si potrebbe definire calvinista) la cui forza sta appunto nell'accettazione di sentimenti diffusi e innegabili, moderati da un calcolo razionale che li armonizza in un quadro globale. Altrove l'idea di Wyclif ha dimensioni e origine diverse.

Proprio nello stesso testo, il De civili dominio, ad apertura del problema [2], l'autore, dopo aver affermato che qualsiasi dominio civile vuole come suo fondamento un diritto e questo non può essere altro che un diritto naturale, annuncia «le due verità che saranno usate come principi nel trattato». Primo: nessuno in peccato mortale ha diritto ai doni di Dio (e quindi al dominio). Secondo: tutti gli uomini in grazia hanno diritto al dominio sulla terra. Poiché gli uomini sono tanti e, partecipando alla grazia, hanno tutti lo stesso diritto in eguale misura, il dominio degli uomini non può avere che la forma di partecipazione o comunione. D'altronde la comunione dei beni era già stata indicata come la forma più elevata e piena di dominio, ben superiore alla proprietà riservata (o privata).

Da questi principi, con stile scolastico rigoroso, Wyclif deduce importanti corollari: che gli ingiusti non dominano in senso proprio ma solo «tiranneggiano e rubano» quando al di fuori della grazia di Dio pretendono di esercitare un possesso, che l'unica garanzia di legittimità viene dal «permesso di Dio» al dominio e che l'unico dominio che Dio approva incondizionatamente (per definizione, si direbbe) è il dominio in comune dei beni. C'è dunque un solo criterio, per giudicare il dominio dell'uomo, ed è la sua vicinanza allo stato iniziale di innocenza (che si riprodurrà «in patria», ossia in Paradiso) quando tutti gli uomini in perfetta parità possedevano insieme il mondo.

Un aspetto di molto rilievo è dato da una certa identificazione dello stato di grazia, che in sé, nascosto nel disegno imperscrutabile di Dio, ci è ignoto. Wyclif afferma infatti che lo stato di grazia si perde proprio «con il furto e la rapina»: chi si appropria di un dominio, privando gli altri e «abusando» così dei beni, «cade in peccato mortale e perde il dominio». Se la predestinazione rimane un mistero (e un mistero è il diritto al dominio di alcuni su altri), il comportamento del presunto sovrano o signore è una manifestazione invece assolutamente decifrabile: quando contraddice alle regole che Dio comunque ha dettato anche al diritto civile dopo il peccato originale, diventa «abuso» e illegalità. Gli esempi sono «quei prelati che compiono i loro uffici senza la garanzia del Cristo» (che hanno perso con il loro cattivo comportamento) e «quei ricchi che offendono i diritti dei poveri dissipando i beni che sono anche di questi ultimi». Si delineano così nelle opere di Wyclif (composte tuttavia negli stessi anni) due livelli.

Il primo è dato dall'idea dello stato di grazia e di innocenza che – anche se, in senso assoluto, irrecuperabile – funziona da «idea regolativa della ragione » («mensura» nel linguaggio di Wyclif), ossia criterio di giudizio per la legittimazione del potere e della proprietà. L'altro dà per scontata la «caduta» e l'essenziale miseria della vita politica (la prospettiva non è dissimile da quella di Giovanni di Salisbury) e ricerca all'interno della società umana regole efficienti di convivenza, non rinunciando a una indicazione dei valori della vita politica.

A questo livello di programma si debbono ascrivere a mio parere le considerazioni del De officio regis.

L'affermazione-base del testo è la dichiarazione che il potere del sovrano deriva senza mediazioni da Dio e non dalla Chiesa e che questa origine è riconosciuta dalle parole e dalle opere del Cristo che scelse appunto di «nascere là (nell'impero romano) dove il dominio civile era maggiormente affermato». Il re si presenta come il vicario di Dio mentre il papa è il vicario di Cristo; il re rappresenta la giustizia di Dio e il sacerdote l'amore di Dio; e anche, il re incarna Cristo trionfante, il prete Cristo che soffre. Queste analogie mettono in luce la preminenza sotto il profilo della spiritualità dell'ordine sacerdotale, ma la sua sottomissione nell'ambito temporale, ossia politico, ai re della terra. La virtù del sacerdote e del pontefice è l'umiltà. Innocenzo III sarebbe rimasto sbalordito dal capovolgimento di senso che Wyclif dava al suo decretale quando sottolineava che la sottomissione dei sacerdoti ai re era la loro maggior gloria.

La sacralità della figura del sovrano trovava fondamento nelle concezioni stesse della Bibbia ed era stata già sottolineata (in polemica con una presunta supremazia del papa di Roma) dai trattati di York nel XII secolo [3].

Sopra il re per Wyclif sta solo la Legge Divina espressa nelle Scritture: con l'aiuto dei suoi consiglieri (e anche qui è ripreso il quadro del Policraticus di Giovanni di Salisbury) egli deve leggere e seguire la Legge, il cui più importante dettame è la povertà del clero. Ritorna così il motivo dominante: il re dovrà sorvegliare che i sacerdoti vivano effettivamente, secondo la regola evangelica, privi di qualsiasi forma di potere civile, e dovrà intervenire punendo i colpevoli e restituendo tutte le donazioni fatte dai laici ai sacerdoti. L'unità del corpo della Chiesa e della finalità della società umana fonda, insieme al principio della preminenza in tempore della figura del re su quella del sacerdote, l'intervento del potere civile.

Già nel De ecclesia (di poco precedente del resto al De officio regis) Wyclif aveva sottolineato con vigore l'autonomia del diritto dello stato e la pienezza della sovranità che non doveva conoscere carenze al suo interno [4]. L'occasione era offerta da un fatto avvenuto nell'agosto del '78 quando due cavalieri inglesi, e quindi vassalli del re, furono imprigionati nella Torre, dalla quale fuggirono per rifugiarsi nell'Abbazia di Westminster. Il privilegio della Chiesa, nelle loro speranze, li avrebbe dovuti riparare dalla vendetta del re. Ma un drappello di soldati entrò con le armi nel tempio e catturò un cavaliere mentre l'altro nella lotta fu ucciso. La commozione fu grande e l'arcivescovo pronunciò la scomunica contro i soldati e gli istigatori dell'impresa, ma, con molta prudenza, espressamente escluse dall'accusa di colpevolezza il re e il duca di Lancaster.

Wyclif difende l'operato del governo e innanzitutto sottopone a un attento esame la motivazione del privilegio cui fa appello l'abate di Westminster. Gli unici privilegi concessi alla Chiesa sono per Wyclif la benedizione divina e la carità: immunità, prerogative e proprietà sono doni del demonio volti a corrompere la Chiesa. L'Antico e il Nuovo Testamento non contengono nessun cenno di favori temporali promessi da Dio alla Chiesa, ma prevedono invece la punizione di coloro che, donando (i laici) o ricevendo (il clero) cose materiali, inquinano la «povertà» e quindi la spiritualità della Chiesa.

La seconda argomentazione fa leva su un altro principio: il re è per definizione sovrano nel suo paese e ciò significa che tutto il paese, nessuna parte esclusa, è sottoposto alla sua giurisdizione. Nessun privilegio o immunità può interferire nel diritto comune dell'Inghilterra. Questa consapevolezza di una unità nazionale e sovrana è ricorrente in Wyclif : a tal proposito egli osserva che, mentre la legge canonica può essere sostituita con profitto dalla lettura delle Scritture che contengono tutto ciò che è necessario alla salvezza, lo studio della legge civile romana, la «legge di Cesare», deve essere rimpiazzato nelle scuole da quello della Legge Comune, ossia dagli statuti del re, validi in tutto il paese [5]. La modernità di questa proposta si può misurare dal fatto che solo nella metà del Settecento si iniziò a Oxford un corso di diritto comune. La guerra è un tema affrontato da Wyclif nel corso della sua meditazione sullo stato, tema che è svolto in modo differente, prima nel De officio regis e poi in alcuni sermoni in inglese degli anni più tardi [6].

La guerra è motivata senz'altro, secondo Wyclif, dallo stato di miseria e peccato nel quale gli uomini agiscono in base alle ambizioni personali: ma anche seguendo questa prospettiva non si possono giustificare le guerre di conquista, le invasioni di un altro regno (a un sovrano come quello inglese, durante la guerra dei Cento Anni, simili affermazioni non dovevano certo piacere), e ancor più si devono condannare le guerre di religione o quelle alle quali partecipano sacerdoti.

Wyclif condanna anche le guerre di mercenari: in realtà, in questa prima fase, ammette soltanto una guerra di difesa del proprio suolo nazionale invaso, che solo si presenta ai suoi occhi come «una guerra per la giustizia di Dio». Visione che, se allora non poteva coincidere con i programmi della Corona e dei lords inglesi, alla lunga sarebbe stata condivisa da strati sociali sempre più vasti.

Negli ultimi due anni di vita, quando il paese, stremato dal lungo conflitto con la Francia, è percorso da bande di vecchi soldati che mendicano un tozzo di pane e re Riccardo chiede ai vescovi e agli abati «di stimolare nel popolo lo spirito di forza e di sopportazione e pregare per il regno», Wyclif volge a un pacifismo deciso che prelude alle posizioni future dei Lollardí. La scelta della guerra come risposta ai problemi della convivenza fra nazioni gli sembra allora una scelta già del tutto negativa, perché dettata «dalla mancanza di carità», e a questo scopo si rivolge ai sacerdoti affinché predichino la «malvagità della guerra» e indirizzino invece tutte le forze verso le riforme della società e della Chiesa.

Nel quadro dello stato delineato da Wyclif troviamo più di un cenno alla funzione che i lords svolgono nel governo del paese. Essi possono essere esaminati sotto il duplice aspetto di componenti del Parlamento e di «padroni» o proprietari delle terre dove vivono i servi.

Persino in un ambito religioso quale è la decisione di una scomunica (che comunque Wyclif, come si vedrà, accetta solo in pochi casi) il Parlamento è chiamato a fiancheggiare le decisioni del sovrano e del sinodo dei vescovi: la scomunica porta degli effetti materiali ed è quindi di competenza della Corona che, dopo aver consultato i teologi, deciderà insieme ai lords sulla base del diritto divino rivelato nella Scrittura [7].

Ma in nessun testo come nella Determinatio [8] si avverte la presenza dei motivi e delle vedute del Parlamento (il Good Parliament del 1376, che svolgeva una vivace politica autonoma di critica alla Corona e di opposizione alle «usurpazioni pontificie»). L'eco l'abbiamo appunto nelle pagine di questo scritto, steso dopo la delusione di Bruges. Il tono di Wyclif è assai cauto e le tesi di opposizione al pontefice vengono riportate come tesi personali di sette membri del Parlamento. Accanto alla teoria della povertà della Chiesa troviamo spunti più specificamente laici, come l'affermazione fatta dal Settimo Lord che nessun trattato è valido quando impegna il paese senza il suo consenso, ossia senza la unanimità o la maggioranza ampia del Parlamento. Giovanni senza Terra non poteva quindi promettere di sua iniziativa al pontefice tributi che avrebbero poi gravato sulla nazione. Il Primo Lord ben rappresenta invece l'origine guerriera e feudale della nobiltà inglese, dichiarando che il solo diritto alla riscossione di un tributo nasce dalla conquista e dalle armi (e aggiunge che, se il papa cercasse appunto con la forza di ottenerne la riscossione, troverebbe pane per i suoi denti). Le dichiarazioni degli altri lords mettono capo all'accettazione della teoria feudale del dominio, basata sul concetto di servizio e beneficio da un lato e, dall'altro, sulla struttura gerarchica del vassallaggio. Entrambi i principi escludono che al pontefice si debba un tributo da parte di un sovrano come quello inglese: il papa non è legato al sovrano da rapporti reciprocamente utili (come avviene nella struttura feudale), ma anzi aiuta con i soldi che raccoglie i nemici dell'Inghilterra, il che basta a rompere qualsiasi patto di vassallaggio. Inoltre il pagamento di un tributo da parte del re equivarrebbe a un riconoscimento di inferiorità feudale al papa nel suo stesso regno, l'Inghilterra, mentre è noto che non si possono dare, nella struttura di vassallaggio, rapporti se non univoci. Il sovrano inglese non può essere dunque tale e insieme vassallo del pontefice. L'interesse di queste argomentazioni sta nella convergenza che Wyclif opera fra le teorie di origine feudale e più genericamente laica, e le dottrine della povertà evangelica presenti pure nella Determinatio, in bocca per esempio al Quinto Lord che non esita ad accusare di simonia il papa che vendette il ritiro della scomunica a re Giovanni.

La simpatia e le alleanze con le ragioni dei lords si deteriorano via via nell'opera di Wyclif quando egli coglie sempre più vivamente il quadro di miseria dei contadini e inizia la sua predicazione nelle campagne attraverso «i poveri preti».

Dei servi e dei signori è il breve trattato scritto in inglese che Wyclif compone dopo la rivolta dei contadini nel 1381 [9].

«I beni devono essere in comune» era il motivo centrale della predicazione di Ball che aveva organizzato la sommossa e si scagliava contro i «gentiluomini», proprietari esosi e crudeli, e si appellava invece al re, il giovane Riccardo II, come a una giustizia che sovrastasse le parzialità dei diritti dei padroni. Venti anni dopo la sua morte si raccolse una testimonianza (così tardiva da essere inattendibile) secondo la quale Ball avrebbe confessato di essere stato allievo di Wyclif, ma noi sappiamo che il movimento di Ball era già iniziato mentre Wyclif insegnava a Oxford sillogismi, non ancora coinvolto in temi politici. Erano comunque motivi, quelli del comunismo, non assenti nell'epoca: alcuni versi rimproverano ai francescani di «voler rendere gli uomini come voleva Platone, provando con Seneca che tutte le cose sotto il cielo devono essere in comune» [10]. L'ascendenza platonica e stoica della teoria comunistica, raccolta da molti padri cristiani ma non da Agostino, si univa così ai motivi più scottanti della protesta contadina.

La posizione di Wyclif è già chiara in alcune pagine del De Blasphemia, scritto a caldo, pochi mesi dopo la rivolta e in piena sanguinosa repressione [11].

Egli individua, nella sopraffazione e nella ingiustizia dei signori ecclesiastici, la causa della disperazione e della miseria dei contadini: il regno oppresso da mille difficoltà economiche potrebbe risolvere agevolmente i propri problemi confiscando i beni della Chiesa in Inghilterra. Il popolo – egli osserva – ribellandosi ha spesso compiuto azioni crudeli e tuttavia era mosso da «senso di giustizia» anche se disordinato e «senza legge». Più cauto appare il suo rimprovero ai signori laici, ai quali fa tuttavia notare che le tirannie e gli ingiusti tributi non potranno che esasperare una situazione già grave. Chiede infine clemenza per i rivoltosi oramai sopraffatti.

I motivi sono ripresi più ampiamente nel trattato Dei servi e dei signori. Le prime pagine, rivolte ai «servi», sono un vero discorso politico: si aprono con una esortazione alla calma e alla obbedienza e con la tipica indicazione «agostiniana» di un piano di giustizia più vera, quella divina, in cui i torti e le differenze del mondo degli uomini (su cui grava, lo si ricordi, la fatalità del peccato originale) svaniranno in una perfetta parità. Più di rilievo la difesa che egli fa della predicazione dei Lollardi, «i poveri preti», i quali erano stati accomunati nell'accusa di rivolta: Wyclif nega che essi abbiano predicato il comunismo e l'uguaglianza degli uomini su questa terra e invoca, significativamente, l'autorità di Paolo che riconosceva le distinzioni sociali, le quali potevano diventare uno strumento per la conquista della salvezza. Wyclif sembra preoccupato di prendere le distanze dalla predicazione di Ball affinché i «poveri preti» non siano coinvolti nella repressione già in atto: dalle sue pagine risulta infatti che molti dei suoi seguaci erano stati «diffamati come eretici» e imprigionati. I documenti ci dicono che nei distretti controllati dai «poveri preti» la rivolta organizzata da Ball non conobbe grande successo: l'impostazione della predicazione del Ball, fondata su una esortazione ai contadini e ai poveri a «mutare le cose» e a «mettere i beni in comune», era essenzialmente diversa da quella dei predicatori di Wyclif. Non c'è dubbio, infatti, che le parole e l'azione di Ball costituissero un programma politico che esigeva un'applicazione immediata e che le opere del maestro di Oxford invece presentassero il problema in forma più teorica e articolata, ma non si può negare che, almeno a partire dagli anni 1378-1379, anche Wyclif avesse sentito il bisogno di rivolgersi allo stesso pubblico delle campagne e che, mutando uditorio, le sue parole assumessero di fatto una dimensione più concreta e incisiva. La repressione della Corona alla rivolta colse comunque questa connessione (anche se non era una parentela), e la difficoltà di negarla appare impegnativa anche nelle pagine di Wyclif.

Uno degli scopi più evidenti del trattato appare senz'altro questo, di scindere le responsabilità dei «poveri preti» da quelle dei predicatori della ribellione, ma l'impresa risulta difficile proprio perché Wyclif non è disposto a lasciar cadere la sua dottrina sul dominio e la teoria della comunione dei beni che aveva presentato negli scritti antecedenti. Accade così che proprio in queste pagine, e con una violenza senz'altro decisa, Wyclif non solo riprenda la sua critica ai signori spirituali che trascurano o peggio malgovernano le loro tenute maltrattando i poveri, ma che a questa ennesima denuncia si accompagni una polemica e una critica feroce ai lords laici «che bevono il sangue dei poveri» e fra i quali sono rari quelli che si comportano con saggezza e moderazione. È questo un elemento abbastanza nuovo, annunciato nelle opere precedenti solo da generiche e rare denunce al lusso dei laici: in un momento così tragico Wyclif non esita dunque a sottolineare con chiarezza le sopraffazioni dei signori laici e scopre la «perversità» delle inutili tasse, delle «persecuzioni ai contadini e ai loro figli», tutta la trama insomma di un potere che si illude di potersi mantenere attraverso la violenza. Violenza che per Wyclif – che segue qui Aristotele e Agostino – è invece lo strumento attraverso il quale si opera l'avvicendamento dei domini ingiusti e quindi la causa della loro fine. Fin qui l'avvertimento politico. Ma che l'insegnamento non dovesse essere accolto di buon grado dai lords e anzi mettesse fine definitivamente a un'alleanza fra Wyclif e il potere laico, si può ben vedere nella richiesta che nello stesso anno Courtenay, arcivescovo di Canterbury e appartenente alla più antica nobiltà, fa alla Corona e al Parlamento di arrestare «i predicatori senza licenza», fra i quali sono i Lollardi.

I temi politici del trattato sono naturalmente inseriti nel quadro della riforma religiosa della quale si ribadisce il principio, ossia l'adesione al Vangelo come a un modello di vita e a una verifica. Entro questo quadro Wyclif delinea i principi e i caratteri di una vita religiosa e comunitaria che preannuncia il modello calvinista: una vita semplice, ma non mortificata, produttiva, lontana dalle macerazioni come dagli sperperi, attenta a una buona amministrazione delle risorse come delle energie spirituali. Il compito dei lords è ancora una volta indicato con chiarezza: essi devono vigilare sul clero affinché questo non tralasci i suoi doveri spirituali (fra questi principale è la «povertà») per impegni e velleità mondane, e a questo fine devono giungere a «punire» quei sacerdoti che trasgrediscono questi principi. Ma l'appello non doveva avere più l'effetto dei primi: i lords temevano più il propagarsi delle dottrine della comunione dei beni di quanto non fossero sensibili al fascino della teoria «sulla funzione del prete laico». Del resto i tempi registravano questa volta una convergenza di interessi fra la classe signorile laica e quella dei proprietari ecclesiastici, convergenza alla quale si poteva ben sacrificare un antico alleato. La proposta di Courtenay fu accolta e fatta propria e il re autorizzò l'arresto immediato dei preti «senza licenza di predicazione», ossia, dal punto di vista della Corona, degli agitatori politici. La repressione colpì gli allievi e i seguaci di Wyclif, ma non il maestro, il quale, protetto dallo stesso ambiente dell'Università di Oxford, poté scrivere indisturbato per altri due anni.

Una descrizione anche succinta delle teorie di Wyclif sullo stato e la sovranità non può tralasciare le sue considerazioni sul problema della tirannide. Le possiamo rintracciare in più testi, ma soprattutto nel De civili dominio e nel De officio regis [12]. I due trattati, come si è visto, tendono a sottolineare la pienezza del potere dello stato e l'autonomia della sovranità, proprio perché l'obiettivo polemico è, in queste pagine, la critica alla dimensione temporale della Chiesa e alle sue pretese di potere politico ed economico.

Nel trattato sul dominio, alla domanda se l'obbedienza sia dovuta al tiranno (ossia al sovrano senza giusto dominio), Wyclif risponde inizialmente in maniera affermativa. L'opposizione al tiranno è, in via di ragione, senza senso, poiché è opposizione a un disegno divino che prevede, nello stato dopo la caduta, anche la tirannide come male strumentale; d'altra parte Wyclif è chiaramente preoccupato che una risposta negativa, ossia in favore di una possibile ribellione, torni a vantaggio del potere dei chierici, che ne approfitterebbero per rifiutarsi di pagare le tasse e i sussidi richiesti dal sovrano.

Una resistenza passiva sembra quindi all'autore il comportamento migliore e più opportuno, più aderente all'esempio di Cristo che, pur non approvando la tirannide, ne sopportò la violenza. Ma viene indicata anche un'importante eccezione per così dire «attiva»: se sembrerà al suddito che il suo rifiuto all'obbedienza porti un contributo effettivo alla fine della tirannide, sarà suo dovere sottrarsi dichiaratamente agli ordini del sovrano usurpatore. Avremmo torto a considerare quest'osservazione come puramente «teoretica»: essa è, nella situazione dell'Inghilterra dell'epoca, anche una «guida» pratica, che vuole distinguere la rivolta dalla rivoluzione, il malcontento sterile e violento dalla partecipazione consapevole a un disegno di mutamento verso il meglio, pur all'interno del quadro previsto dalla Provvidenza per l'avvicendamento dei domini terreni.

La prospettiva della pienezza della sovranità e della sua indipendenza dal controllo papale è ancora più chiara, come si è visto nel De officio regis, dove Wyclif delinea una teoria del «diritto divino dei re», almeno nei confronti del potere sacerdotale. Dichiarare che il diritto dei re discende da Dio senza intermediari poteva sembrare un invito all'autocrazia per alcuni sovrani (e pensiamo qui a Riccardo II). Questa interpretazione tralascia però l'altro aspetto, anch'esso presente nelle pagine di Wyclif, ossia la soggezione del principe alla Legge «ordinata al bene del popolo»: «Il re è legato ai suoi sudditi più strettamente che essi a lui». E in base a questi principi Wyclif ammette che in qualche caso la miglior espressione di obbedienza sia la resistenza al tiranno e persino la sua uccisione.

Come già nel Policraticus di Giovanni di Salisbury, sembra che il mancato approfondimento del concetto di popolo o comunità porti all'evidente conflitto fra la definizione di sovranità (tra l'altro garantita da Dio) e quella dei diritti del popolo, al cui bene è «ordinato» lo stato.

[1] De civili dominio, cit., vol. ll, p. 14.

[2] Ibidem, vol. I, p. 1.

[3] Gruppo di scritti già attribuiti a Gerardo, vescovo di York. (Cfr. GILSON, La filosofia nel Medioevo, trad. it., Firenze, 1973, pp. 402-406).

[4] De ecclesia, a cura di j. LOSERTH, London, 1886, pp. 22 e sgg.

[5] Cfr. W. ULLMAN, Individuo e società nel Medioevo, Bari, 1974, p. 78, nota 60.

[6] De officio regis, a cura di A. W. POLLARD e C. SAYLE, London, 1887, pp. 248 e sgg., pp. 263 e sgg., pp. 271 e sgg; Sermones, a cura di J. LOSERTH, London, 1887, 4 voll., specialmente vol. IV, pp. 34 e 354.

[7] De officio regis, cit., p. 228.

[8] Vedi il testo tradotto di alcune pagine della Determinatio, alle pp. 49-53.

[9] In The English Works of Wyclif, a cura di F. D. MATTHEW, London, 1880, pp. 226-243. La traduzione italiana è alle pp. 78-94.

[10] Citato da H. B. WORKMAN, J. Wyclif, London, 1884, vol. II, p. 239.

[11] De Blasphemia, a cura di M. H. DZIEWICKI, London, 1886, pp. 188-203.

[12] Nelle edizioni citate, rispettivamente a pp. 199 e sgg., e a pp. 82 e 201.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08