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Wycliff. Il comunismo dei predestinati

di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

© 1975-2007 – di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri


3. Le due chiese

A partire dalla Determinatio non c'è opera di Wyclif che non riprenda con amarezza, sarcasmo o violenza la denuncia contro la corruzione della Chiesa. L'influenza che ebbe questo fustigatore tenace del malcostume del clero inglese sarebbe, secondo taluni, da rintracciare anche nelle pagine del contemporaneo poeta inglese Chaucer; ma se la situazione della Chiesa in Inghilterra e l'immoralità dei chierici erano nella realtà quelli che Wyclif ci descrive, crediamo di poter affermare che l'ispirazione del poeta si svolse autonomamente rispetto all'insegnamento del filosofo. Piuttosto è invece interessante rilevare la coincidenza di valutazione – coincidenza che costituisce anche una conferma – e una certa analogia di atteggiamento.

Le Trentatré tesi sulla povertà di Cristo (1378?) [1] sono il testo che in forma più rigorosa e chiara affronta questo tema. Il trattato si presentava come un'esposizione succinta e limpida delle teorie che nei due testi sul Dominio erano state sviluppate in una stesura più scolastica, ricca di disgressioni ed estremamente ponderosa. L'affermazione iniziale è quella principale: «Cristo, capo della Chiesa, fu durante la sua vita un uomo poverissimo», affermazione che non contrasta con la dichiarazione immediatamente seguente di Cristo «ricchissimo» sotto il profilo della sua divinità. Sono così delineate le due dimensioni della Chiesa, la «invisibile» e la «visibile». La Chiesa visibile, costretta a percorrere la sua «via» nel mondo del tempo e della sensibilità, si deve astenere da ogni tentazione di dominio temporale come pure dalla proprietà. Ma anche l'uso delle ricchezze (in sé permesso) non è più lecito se indirizzato a un godimento personale e «privato» delle cose, e diventa peccato se i beni vengono utilizzati non per alleviare le miserie dei poveri e le necessità comuni, ma, ad esempio, per allestire guerre di dominio. Il corollario di queste tesi è di grande rilievo e contempla casi molto precisi e concreti: i signori laici che affidano (beninteso soltanto in usufrutto) dei beni a un chierico lo devono fare solamente a condizione che questi sia in grazia, appunto come Dio dona il dominio solamente al sovrano in grazia. Ma Dio sa «scrutare il cuore» degli uomini ed è perfettamente in grado di giudicare il loro stato di grazia; i signori laici, invece possono fondarsi su un criterio solo esteriore – e Wyclif lo indica – ossia il comportamento del clero nei confronti dei beni di fortuna. Wyclif consiglia – e perentoriamente – di fare donazioni soltanto a chi non se ne serve per scopi personali e vive in perfetta povertà. Nonostante il criterio sembri assai semplice, molto è affidato alla discrezione del signore laico, che diventa così giudice in materia di comportamento cristiano. Ciò del resto ben si è visto anche nelle pagine del De officio regis. La confisca dei beni è il rimedio salutare per riportare sulla retta via i sacerdoti, a tutti i livelli e a tutte le cariche, dal pontefice romano, che può essere privato dai sovrani delle ricchezze affidategli, ai cardinali, che dovranno sempre allo stesso modo essere «fraternamente corretti» dai principi, ai vescovi, agli abati, ai curati, ai cappellani, agli elemosinieri. Per concludere che la miglior cosa sarebbe appunto che «fossero espropriati tutti i beni della Chiesa inglese per pagare i funzionari di corte»: dichiarazione che doveva suonare graditissima alle orecchie dei lords e dei cortigiani. Ma in base a quale principio i signori laici che non appartengono alla gerarchia della Chiesa «visibile» possono agire con così ampi poteri? Il fondamento lo si deve ricercare nell'assoluta unità della Chiesa come «congregazione in viaggio», unità che dissolve qualsiasi differenza fra i suoi membri: nel caso in cui i chierici si discostino dall'insegnamento del Vangelo (il cui principale comandamento è la povertà) non c'è ragione perché non intervengano i laici, anche se normalmente le funzioni di questi ultimi sono rivolte alla cura temporale e non alla correzione dei peccati. La Bibbia e i Padri confortano tale tesi sottolineando la sacralità dei re; ma Wyclif insiste piuttosto su un altro aspetto, quello «laico», del problema, ossia sulla necessità che i sovrani abbiano il diritto di compiere questa azione di giudizio nei confronti del potere spirituale, proprio in base al vantaggio che ne deriva alla comunità e allo stato [2]. Infatti la corruzione dei chierici e la loro avidità è la principale causa della rovina economica della nazione e quindi delle tensioni e delle lotte interne come delle ribellioni e delle miserie: con queste considerazioni Wyclif riprende così anche in questo testo, prevalentemente teologico, la prospettiva politica del passo del De civili dominio che abbiamo citato [3].

Sotto questo profilo è interessante la sua feroce critica alla donazione di Costantino (alla cui storicità naturalmente Wyclif crede): «giorno infame per la Chiesa, giorno in cui crebbe in prestigio ma perse in religione»; opinione che fin dai primi scritti rimane immutata e riceve ampio sviluppo nel De potestate papae. E nella critica al papa di Roma vengono unificati molti temi della sua polemica, dal tema della «povertà» a quello del dominio e della grazia, al concetto di Chiesa come assemblea di membri in perfetta parità, tutti motivi coagulati nell'interesse per la nazione inglese.

Prima dello scisma Wyclif non impugna mai il primato spirituale del papa come vicario del Cristo, sebbene sottolinei più volte che l'obbedienza al papa è fondata soltanto sull'adesione degli atti e delle parole del pontefice alle Scritture [4]. Quando si verificasse l'alternativa (obbedienza al papa o alla Bibbia e al Vangelo), non solo i cristiani sarebbero sciolti dalla riverenza al pontefice, ma andrebbe denunciato a voce alta e chiara lo scandalo. Questo fu proprio quello che accadde, ai suoi occhi, quando Gregorio XI scomunicò i fiorentini e scagliò la sua condanna contro lo stesso Wyclif (che non esitò immediatamente a chiamarlo «orribile demonio» e «eretico»). Già innanzi aveva dichiarato del resto che il dogma, per cui tutti gli atti del papa erano giusti, era «una pura bestemmia» e ben presto arrivò alla conclusione che i «cristiani non avevano bisogno se non di Cristo». Allo scoppio dello scisma Wyclif ha una conferma delle sue vedute e ne conclude che l'Inghilterra, sostanzialmente estranea alla rivalità dei due papi e alle ragioni politiche dei due partiti in lotta, «non doveva accettare nessuno dei due». Passando dai motivi polemici all'esame più dottrinale, Wyclif riafferma la sua dottrina del dominio fondato sulla grazia, anche, e a maggior ragione, per ciò che riguarda il dominio spirituale. Ora, in base a questo principio, stante la imperscrutabilità delle decisioni divine e del disegno della predestinazione, la cristianità a stretto rigore non sarebbe mai in grado di accertare la dignità e la «verità» della carica del pontefice, e Wyclif nota, in più passi, che in senso assoluto «tanto varrebbe decidere l'elezione del papa gettando i dadi». Ma uno dei segni del vicario di Cristo, proprio perché non si può immaginare che Dio voglia lasciare in mani indegne la sua Chiesa, è il suo comportamento che gli uomini possono «verificare» sulla base della Scrittura. La sua cura nel seguire l'esempio del Cristo povero è un indizio, sicuro per quanto ci è consentito, della fondatezza della sua autorità, che per Wyclif non ha tuttavia rilievo fondamentale. Il primato del papa è infatti un primato puramente spirituale, e la pretesa di un'effettiva giurisdizione sopra la cristianità è per lui di origine pagana, e quindi al limite «diabolica», e rivelatrice di tendenze al dominio temporale.

Fitzralph aveva accettato il primato del papa perché per lui Roma era la capitale della cristianità, ma Wyclif rovescia la prospettiva e si chiede se il primato del pontefice non sia collegato e vincolato piuttosto al disegno dell'impero, ossia a una dimensione temporale del dominio, e come contro-prova offre quella che i papi hanno soggiornato ad Avignone quando il loro disegno politico ve li ha consigliati [5]. Ma, aspetto ancor più rilevante e indicativo della sua prospettiva, nota che l'Inghilterra è del tutto estranea all'istituzione dell'impero, che tra l'altro ha portato la Germania al caos, e non sembra quindi tenuta a subire le conseguenze deleterie del vincolo temporale a cui la Chiesa romana si è legata con Costantino. E afferma «che si sarebbe vergognato di mostrarsi pubblicamente a Oxford a insegnare un'altra dottrina» essendo del tutto certo che «chi sta ad Avignone e a Roma è l'Anticristo».

Obiettivi di feroce polemica sono anche l'ordine dei Mendicanti e gli altri ordini allora esistenti (carmelitani, agostiniani e domenicani). Nei primi scritti [6] Wyclif mostra simpatia per i principi dell'ordine dei francescani, di cui apprezza la regola di povertà, ma i suoi rapporti peggiorano dopo la polemica sull'Eucarestia, a proposito della quale l'ordine lo attaccò violentemente (1379). Tuttavia la sua critica si può ricondurre a motivi dottrinali ben conseguenti e del tutto congeniali allo sviluppo della sua dottrina. La negatività dei vari ordini è sì costituita dalla loro corruzione e dall'allontanamento dalle regole di povertà, ma ben più sostanzialmente dal loro carattere di «religioni private». Wyclif parte cioè dall'idea, centrale al suo sistema, di una Chiesa come corpo unitario e compatto di credenti, i quali si rifanno all'unica legge delle parole della Scrittura: la diversificazione in «sette», in gerarchie divise, in corpi separati con proprie leggi e, fatalmente, propri interessi che si rivelano poi in conflitto, è quindi una degenerazione che smentisce la fondazione della Chiesa. «Sarebbe più sopportabile abitare fra i Saraceni o i pagani che fra queste nuove religioni», perché tali sono per Wyclif i diversi ordini che introducono artificiose distinzioni di modi di vita e, con la loro pretesa di far capo direttamente al papa di Roma, saltando la giurisdizione dei vescovi, si inseriscono persino come stati nello stato», in un conflitto di interessi. Interessi che sono principalmente dovuti alla patente deviazione degli ordini dalla regola evangelica della povertà [7]: ed «ecco questi frati dalle guance grasse e rosse e dai grandi ventri» che «non pregano né curano le anime né amministrano sacramenti», preoccupati solo di salvaguardare il loro oro nei loro «castelli di Caino» [8], dove offrono ospitalità ben retribuita ai ricchi e rifiutano invece l'aiuto ai poveri. Ma più che questo quadro sarcastico e feroce dobbiamo notare che i motivi dominanti della polemica di Wyclif contro i frati sono dati da osservazioni estremamente realistiche sulla inefficienza e sul danno che queste comunità privilegiate portano alla nazione, turbandone la struttura e il funzionamento. Wyclif stigmatizza in questo senso lo svantaggio economico che i monasteri, male organizzati come centri di produzione, recano all'Inghilterra, che – egli nota – potrebbe vivere molto meglio e dare pane ai suoi poveri e da vivere ai suoi artigiani se fossero evitati gli sprechi e i lussi privati dei frati. Anche il diritto familiare è sconvolto dalle corruzioni degli ordini che, per contare sulle ingenti donazioni dei laici, raggirano le famiglie così che «figli e figlie devono entrare in convento contro la loro volontà o quando sono ancora fanciulli senza capacità di ragionamento, per lasciare che il patrimonio vada nelle mani del figlio più amato. Giunti alla maturità essi non osano più uscire dal monastero per paura della povertà o di essere imprigionati». Wyclif domanda con decisione la soluzione più drastica, e insieme «più favorevole alla nazione e alla Chiesa», ossia la «distruzione di tutte le abbazie e i monasteri» e la restituzione delle proprietà allo stato e agli «uomini poveri e ciechi, poveri e storpi, poveri e deboli». I frati poi, usciti dai conventi farebbero meglio a lavorare come insegnanti o artigiani [9].

Fra gli istituti colpiti dalla critica di Wyclif vi è naturalmente il sistema dell'assoluzione e delle indulgenze. L'idea scotista di un Dio assolutamente libero nelle sue iniziative, indecifrabile agli occhi umani per quel che riguarda la motivazione delle sue decisioni, rende del tutto vano il sottile schema dei rapporti di merito, la persuasione di poter interpretare con sicurezza il volere divino, e infirma la base del sistema delle indulgenze che riposano sul «tesoro dei meriti dei santi», del quale il papa solo poteva disporre. Wyclif afferma che l'assoluzione da qualsiasi peccato si fonda sulle intenzioni buone del peccatore e sul suo pentimento, che può essere scrutato e giudicato solo da Dio; d'altra parte, se il pontefice avesse a disposizione questa inesauribile riserva di meriti e non la usasse per salvare le anime di chi ha peccato, si renderebbe colpevole della loro dannazione, come è colpevole d'altra parte di simonia quando vende la loro salvezza [10]. D'altronde molti santi – e in primo luogo San Silvestro, che accettò il dono di Costantino – sono forse nella lista dei dannati, ed è quindi misura di prudenza abolirne il culto (salvo quello di Maria), che potrebbe creare illusioni sulla possibilità di intercessione dei beati. Wyclif è duro soprattutto con «i santi moderni», proclamati tali per «ragioni di famiglia o per favori partigiani» e giudica che i miracoli, persino quelli verificabili, non testimoniano nulla perché potrebbero essere fenomeni demoniaci.

L'insistenza è sempre sull'aspetto interiore della devozione che deve rifuggire dai culti troppo palesi e materiali, «dalle ricchezze esposte follemente nei santuari, ricchezze che dovrebbero essere piuttosto distribuite ai poveri» [11].

I Lollardi molto insisteranno su questi motivi, riprendendo ad esempio le condanne alla venerazione delle reliquie e ai «folli e inutili pellegrinaggi», aspetti che il loro maestro aveva definito «sensuali e privi di religiosità».

In questo quadro la scomunica assume agli occhi di Wyclif l'aspetto di un arbitrio e di una prepotenza [12]. Né il papa, né i cardinali sono necessari in senso assoluto al governo della Chiesa, e la sanzione della scomunica, anche se usata per mancanze puramente spirituali, è spesso una medicina peggiore della malattia, ossia della colpa, che va curata con l'amore e non con una pena. Ma c'è di più: la scomunica – egli nota – è il più sovente un atto politico usato per fini di vendetta o inimicizia del tutto contrari allo spirito evangelico e reca effetti del tutto materiali come la prigione, la sofferenza e la morte. Alla base c'è poi una fondamentale mancanza di validità che viene accentuata da Wyclif nelle ultime opere: solo Dio è infatti in grado di giudicare una colpa e di estromettere dal corpo della Chiesa il peccatore, mentre gli uomini possono giudicare solo da indizi esteriori spesso fallaci.

L'atto di scomunica è dunque per Wyclif «senza effetto» e, come egli nota orgogliosamente nella decima tesi sulla povertà del Cristo, «senza curarsi delle censure, degli interdetti e delle scomuniche noi cristiani abbiamo il dovere di seguire la parola e la legge di Dio».

Il criterio che ispira e guida la critica puntuale alla Chiesa «visibile» è l'idea agostiniana di Chiesa «invisibile». L'esposizione più chiara e sistematica la troviamo nel primo libro del De civili dominio. Lo spunto è dato dalla pretesa della Curia romana che «i sacerdoti e la Chiesa di Roma» non possono sbagliare nelle loro condanne e riprovazioni contro i fedeli laici, pretesa che sottintende da un lato una «Chiesa capitale» e dall'altro una folla di fedeli simili ai sudditi. Contro questa dichiarazione Wyclif afferma che la «Chiesa cattolica, ossia apostolica, è la comunità dei predestinati, dei quali alcuni sono morti, altri vivi e altri ancora da nascere». Solo questa legione di prescelti da Dio (tutti insieme e in perfetta parità) è la «sposa di Cristo», la universitas ecclesiae, che agli occhi di Dio è tutta presente nella sua dimensione atemporale. Di questa universitas è sottilineata soprattutto l'unità inscindibile e indifferenziata.

Il realismo delle essenze universali di ascendenza scotista, del quale Wyclif è seguace, gli sembra la base più solida per comprendere e affermare questa unità. Riproducendo un atteggiamento anselmiano, Wyclif ripete che chi non capisce l'unità degli individui nella specie «per la quale essi sono», non può capire la compatta e originaria unità del corpo della Chiesa invisibile. All'interno di questa unità i fedeli sono realmente come le membra, insignificanti presi a sé, poiché la Chiesa è tutti loro insieme, al di fuori delle distinzioni, puramente umane, di tempo e di spazio, e non è nessuno di loro assunto distintamente. Il realismo di Wyclif si spinge persino a trovare una prova nella frase di Paolo «Cristo ama la sua Chiesa»: se la Chiesa come unità universale non esistesse, ma fosse solo una collettività per così dire posteriore ai suoi membri, la proposizione paolina non avrebbe senso logico poiché il verbo «amare» non avrebbe oggetto. E ancor più singolare è l'altra argomentazione: Cristo sarebbe bigamo se fosse possibile dividere la Chiesa in parti! La «discontinuità» del corpo che si può dividere nelle sue varie parti non intacca la sua unità: così la «discontinuità» fra gli uomini, membra della Chiesa, è funzionale alla sua compattezza, perché per Wyclif è discontinuità apparente, nel tempo, al di qua del fine e dell'origine che definisce la Chiesa. Lo scopo dell'argomentazione è dichiarato: non ha senso parlare di parti privilegiate o di «capo della Chiesa»: l'unico capo è il Cristo poiché da lui deriva l'unità che non può venir meno. Papa e imperatore sono, nella dimensione del tempo, incaricati, diremmo «accidentalmente», di un servizio verso la comunità e null'altro. La struttura gerarchica, di qualsiasi tipo, è quindi negata e l'unico riferimento sicuro rimane la Scrittura, aperta, come si è visto, alla comprensione di tutti gli uomini, anche dei «semplici».

La Chiesa invisibile non coincide con l'umanità [13]. Il disegno indecifrabile di Dio ha tracciato all'interno del genere umano la divisione fra predestinati e dannati, distinzione che non riproduce quella fra buoni e peccatori. I predestinati alla salvezza possono peccare ma non perderanno il loro diritto di appartenenza alla Chiesa, mentre i presciti (i dannati) possono condurre una vita prudente agli occhi del mondo, senza per questo guadagnare la salvezza. Il disegno di Dio sta a monte del comportamento dell'uomo e la grazia divina è appunto un dono del tutto immotivato agli occhi umani. Da ciò derivano alcune conseguenze: gli uomini non sono in grado di decidere chi appartiene alla Chiesa; e questo potrebbe essere un effetto «paralizzante» dell'idea di predestinazione, se non fosse in parte corretto da molte dichiarazioni di Wyclif, da un lato, sull'importanza della verifica della Scrittura sul comportamento dell'uomo e, dall'altro, sulla preminenza che la povertà (che è poi distacco o disinteresse) ha fra i segni che possono aiutare a individuare il predestinato. Ciò ha grande interesse se si tratta di un sacerdote (solo chi è veramente in grazia compie il suo ministero religioso e avvantaggia così gli altri uomini) o di un sovrano (solo chi è in grazia detiene il dominio e può pretendere l'obbedienza attiva dei sudditi).

Per spiegare il rapporto fra Dio e uomo sotto il profilo del merito [14], Wyclif ricorre, come sovente, a un esempio che mette in luce l'analogia di Dio con il signore feudale. Un signore può decidere, per iniziativa sua assolutamente gratuita, di ricompensare con un premio straordinario (l'eredità del suo regno) un suo vassallo che vince a duello i suoi rivali: in questo caso diremo che il vassallo vincitore ha meritato il premio soltanto in senso improprio, poiché l'impresa è nettamente inferiore alla ricompensa. In linguaggio teologico si tratterà di un meritum de congruo, ossia di un merito proporzionale al premio solo in senso relativo (nei confronto con altri rivali), ma non de condigno, poiché le azioni del vassallo non potevano da sole costituire la condizione per ottenere la ricompensa, se non fosse intervenuta la decisione libera e sovrastante del signore, che stabilisce fra quell'atto e quel premio una relazione immotivata in senso oggettivo. In questa prospettiva le azioni umane perdono la loro importanza: la salvezza – nota Wyclif – non viene «dalle opere anche attraverso le opere… La vera causa del premio è la grazia in senso completo (ex integro), ossia non si può attribuire alla grazia una sola parte del merito… La grazia divina è il solo agente, poiché mediante la grazia la creatura diventa capace di acquistare meriti».

Una prospettiva che si ritroverà arricchita nella theologia crucis di Lutero, e che in ambedue gli autori si accompagna a un'intima svalutazione dell'aspetto esteriore della organizzazione disciplinare e sacramentale della Chiesa.


[1] In Opera minora, a cura di J. LOSERTH, London, 1913, pp. 19 e sgg. La traduzione italiana delle Trentatré tesi è alle pp. 64-67.

[2] La prospettiva qui è chiaramente vicina all'impostazione di Marsilio da Padova.

[3] Vedi pp. 18-19.

[4] Per esempio si veda, alle pp. 67-69, la lettera di Wyclif a Urbano VI.

[5] Le argomentazioni sono del De potestate papae, edito a cura di J.LOSERTH, London, 1907, pp. 94, 98, 101, 113, 15 e sgg.

[6] Cfr. in The English Works of Wyclif, cit., pp. 39-51.

[7] È noto che Occam prese posizione, nella disputa sulla povertá, contro il papa; è bene ricordare che secondo Wyclif Occam non era eretico (De veritate Sacrae Scripturae, a cura di E. BUDDENSIEG, London, 1905-1907, vol. I, pp. 348-350).

[8] In molte opere (per es. in The English Works of Wyclif, cit., pp. 129, 211, 420) Wyclif costruisce una specie di acrostico (Caim ossia Caino) con le iniziali di quattro nomi (carmelitani, agostiniani, iacobiti o domenicani e minoriti o francescani).

[9] Le molte argomentazioni polemiche contro i frati sono sparse in numerose opere di Wyclif: si vedano ad esempio The English Works of Wyclif, cit., p. 49 del vol. I, e Selected English Works of Wyclif, London, 1869, pp. 20 e 76 del vol. I.

[10] Tutto il cap. XXIII del De ecclesia (cit., pp. 549-587) è dedicato all'analisi dei sistema delle indulgenze.

[11] Queste considerazioni si trovano in numerosi testi (per esempio in Selected English Works of Wyclif, p. 329 del I vol.).

[12] Wyclif esamina l'atto di scomunica in molti testi, ma l'analisi più decisa e importante appartiene al De officio regis (cit., pp. 73, 77, 125, 179, 257).

[13] La fonte per queste osservazioni è il De ecclesia, cit., (a cominciare dal cap. XIX, ossia da p. 441, sino alla fine del testo).

[14] Cfr. De dominio divino, a cura di R. L. POOLE, London, 1890, pp. 228-229.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08