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Didattica > Strumenti > Wycliff. Il comunismo dei predestinati - 4

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Wycliff. Il comunismo dei predestinati

di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

© 1975-2007 – di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri


4. Alcune considerazioni conclusive

La riforma di John Wyclif è, come si è visto, negli intenti, una riforma della società e della religione. Per comodità di analisi possiamo scindere i due aspetti. L'elemento più di rilievo dell'aspetto politico è dato dalla concezione dello stato come unità e struttura autonoma (e non a caso papa Gregorio vedeva nell'idea di Wyclif il ripetersi dell'«errore» di Marsilio da Padova).

Da questo assioma discende con rigore la critica alle carenze interne di potere e sovranità, alle interferenze del potere ecclesiastico e romano, alle fratture determinate dalla conflittualità degli interessi dei vari gruppi, ordini religiosi o associazioni laiche che siano. Anzi, in base a ciò, il Tawney [1], in una breve nota, osserva che la «devozione di Wyclif per l'idea di una società unitaria, che superi gli interessi particolari in vista del bene comune, è quasi moderna».

Il passo di Wyclif a cui si riferisce Tawney si trova in un'opera scritta in inglese dove si criticano, non solo le associazioni dei mercanti, ma anche quelle di mutuo soccorso tra contadini (o ghilde) in base a due principi: che esse risultano non necessarie (è sufficiente il concetto più ampio di comunità e solidarietà nazionale) e persino dannose (perché finiscono, proteggendo interessi specifici, per contrastare l'interesse pubblico e generale).

Tawney ha ragione nel rilevare che l'atteggiamento è analogo a quello dei riformatori tedeschi del 1400, che proponevano l'abolizione delle corporazioni, e indica il pensiero di Wyclif «sulla linea che va fino a Turgot, Rousseau e Smith». Ma si sarebbe in errore se si pensasse che una così precisa concezione dello stato sia assimilabile al filone del pensiero politico medievale di ispirazione imperiale, che muove dall'idea del principe come fonte della legge e ad essa superiore.

Wyclif a più riprese indica l'importanza del diritto comune consuetudinario come la legge principale dello stato inglese, e quanto questa idea fosse di fatto limitànfe per il principe e in via teorica opposta alla dottrina dell'assolutismo lo si può vedere nella tradizione inglese a cominciare dal giuramento di Edoardo II di rispettare, accanto alle leggi, «i costumi e le regole che la comunità si sarebbe scelti» fino alla deposizione di Riccardo II (1399) in nome del bene della comunità e per opera del Parlamento.

Ullman [2] ha dimostrato come il diritto consuetudinario fosse di fatto basato sul consenso dei singoli individui e come questa dimensione forzatamente «laica» della struttura feudale si opponesse in via di diritto e sul piano teorico alla concezione teocratica dell'autorità e del potere che discende da una carica e si esercita sul suddito. Non è a caso dunque che noi riscontriamo in Wyclif molti elementi che concorrono a mettere appunto in crisi quegli aspetti che tutti insieme possiamo definire come concezione ecclesiastica e autoritaria della società: ossia l'attenzione al diritto che nasce dall'effettivo rapporto fra gli uomini, l'esortazione ai lords visti come i migliori (e più sensibili) rappresentanti di una comunità autonoma, l'accento sulle qualità personali (ossia feudali) nei rapporti di dominio (adempimento al contratto, fedeltà al patto, utilità del medesimo), e anche l'affermazione che la Bibbia deve essere tradotta in inglese «affinché anche gli inglesi si possano salvare», proprio perché non si vede la necessità di frapporre una struttura intermedia istituzionalizzata fra l'individuo, anche semplice, anche «idiota», e la parola del Signore.

È ovvia l'osservazione che l'Inghilterra di Wyclif era terreno particolarmente favorevole al suo indirizzo di pensiero: il rilievo del nostro autore sta appunto nell'aver interpretato e accolto i motivi più salienti di un mutamento che era in atto e di una situazione estremamente differenziata da quella dei regni continentali.

La guerra dei Cento Anni fu per il paese un lungo processo di identificazione, all'inizio del quale i lords trovavano elegante parlare solo francese e alla cui fine si vergognavano di esprimersi in una lingua «nemica»; un periodo nel quale si moltiplicarono le scuole (Inns of Court) di diritto nazionale, fatto unico in Europa; un'epoca in cui si acquistò coscienza che il papato non era un'autorità sovrannazionale, ma un alleato del nemico. La condizione dell'Inghilterra tendeva comunque da tempo a questa evoluzione, con la sua struttura politica insieme fortemente centralizzata e feudale, ricca di dialettiche interne: da un lato il centralismo monarchico sorretto da un'efficiente organizzazione amministrativa e, dall'altra parte, la potenza del baronato che volgeva a un frazionamento. L'equilibrio delle tensioni escludeva dunque già ogni prospettiva teocratica e attenuava il riconoscimento di centri di potere estranei al paese e di unità sovrannazionali.

Proprio per questi motivi, la perdita dell'appoggio della nobiltà segna per Wyclif, nel 1381, la fine dei progetti di una riforma anche religiosa.

Le dottrine più specificamente religiose di Wyclif risultano difficilmente organizzabili in una teoria compatta e autosufficiente, proprio perché non sono mai state sviluppate a sé in un contesto puramente teologico, ma fortemente connesse e implicate alla sua visione politica. Ossia, per ritornare al confronto iniziale con Lutero (che è del resto irresistibile), mentre questi, proprio lasciando cadere i corollari sociali e politici della Riforma, con la condanna della rivolta dei contadini e dei cavalieri isola e rafforza l'elemento religioso del suo pensiero, Wyclif tenta di, condurre innanzi la riforma della religione e quella della società mediante l'appello ai lords. Ma i lords erano in quella contingenza nemici dei contadini, che Wyclif non arrivava a condannare. D'altronde, anche a rigor di logica, l'insuccesso non poteva mancare: esiste infatti un'insanabile contraddizione proprio fra l'elaborazione della dottrina religiosa della grazia e il progetto di una riforma politica e sociale, che si basa sull'importanza e l'imprescindibilità delle opere. Non sempre – è vero – i due aspetti sono sviluppati insieme, non sempre nello stesso testo Wyclif tenta una sintesi (impossibile) delle due istanze; spesso è uno solo degli elementi a prevalere, ma, nonostante l'impostazione teologica del nostro autore, è forse più frequente l'attenzione di questi al problema del rinnovamento politico e sociale che l'esclusivo sviluppo della dottrina agostiniana della grazia e della predestinazione. Tutto ciò porta l'autore a un'oscillazione in certo modo infeconda fra il pessimismo politico di Agostino (che potrebbe però essere il punto di partenza per una dottrina puramente teologica e una riforma religiosa) e la volontà di rinnovare o mutare ín meglio la società.

In ogni caso non sembra fondato il giudizio del Tawney [3] su Wyclif politicamente «indifferente». È vero che, come tutti i teorici medievali, a Wyclif è estraneo il punto di vista di un mondo futuro migliore in quanto diverso dall'antico, è vero che egli aderisce, come quasi tutti i filosofi cristiani da Paolo in poi, alla dottrina della società come organismo, secondo la quale il benessere dell'intero corpo «sublima» le differenze e quindi anche le ingiustizie particolari, ma è altresì vero che l'utilizzazione del mito evangelico e del modello della Chiesa primitiva non è un ritorno all'indietro, ma un'idea polemica che ha di fatto le caratteristiche di un programma di mutamento e di progresso.

Inoltre in certe dottrine (a proposito della tirannide che a volte «realisticamente» può e deve essere rovesciata, e delle differenze sociali ed economiche che spesso nella valutazione di Wyclif sono delle vere ingiustizie) non si può non vedere una condanna alla società contemporanea. Se è difficile delineare un profilo unitario delle dottrine di Wyclif e misurarne la carica rivoluzionaria nei confronti della società e della religione, è però innegabile l'interesse che presenta la connessione del suo pensiero con la sentita esigenza di una organizzazione di predicazione (religiosa e politica) legata alle condizioni del mondo contadino del suo tempo.

[1] R. H. TAWNEY, La religione e la genesi del capitalismo, Milano, 1967, p. 39.

[2] W. ULLMAN, Individuo e società nel Medioevo, Bari, 1974, pp. 45 e sgg.

[3] R. H. TAWNEY, cit., p. 32.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08