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Scrittori religiosi del Duecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


1. Il Cantico di Frate Sole

Come prosatore in latino san Francesco ebbe doti eminentissime di lucido e caldo scrittore, nonostante che non si proponesse alcun fine retorico e raccomandasse ai suoi frati di evitare «locutionum aenigmata et verborum phaleras»; i suoi Opuscula sono redatti con limpida capacità d’esposizione e di persuasione, non disgiunta da garbata freschezza espressiva, sì da riuscire non soltanto d’ammaestramento ma anche di consolazione. Ma ben più alta, sotto il rispetto poetico, è la forza espressiva del Cantico, che secondo le antiche fonti biografiche sarebbe stato composto nella chiesetta di San Damiano, presso Assisi, nel 1224, dopo una notte di tribolazioni al termine della quale una visione divina promise al Poverello la beatitudine eterna. Il componimento è in versetti di intonazione biblica, assonanzati ma non riconducibili a un metro preciso, e con tutta probabilità seguenti il cursus. Scritto in volgare umbro, il Cantico ha una veste linguistica non decisamente dialettale se si eccettuino alcune precise particolarità. Si suol affermare, e forse a ragione, che il Santo si limitasse dapprima a dettare le prime lasse, poi avrebbe aggiunto le strofe della rassegnazione e del perdono in seguito a una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà di Assisi, completando poi la lirica qualche tempo prima della morte. Peraltro, anche se composto in epoche diverse, il Cantico presenta una perfetta unità di ispirazione e di linguaggio, in un clima d’ardentissimo slancio verso Dio e gli oggetti del creato che supera nettamente l’iniziale intento d’offrire un testo letterario perché i propri frati potessero cantare le lodi del Signore, per attingere alle sorgenti più pure della poesia. Il Serafico riguarda le creature con un atto infinito d’amore, quasi in un ricambio dell’amore col quale e per il quale Iddio ha creato il mondo; e in questo abbraccio alle creature Francesco conosce, accanto a una vibrante esaltazione della grandezza dell’universo, la più umile soggiacenza e l’annullamento totale nei voleri del Creatore.

La validità del Cantico è assicurata dalla circostanza che Francesco non affida le sue emozioni spirituali a un’astratta formulazione, ma esprime il suo amore per il creato in immagini concrete, visivamente materiate, colte nel loro valore e nelle loro dimensioni di luce, di colore e di armonia musicale. Si suol dire che il Poverello ha «visto» pittoricamente l’universo in un modo preciso e limpido perché, negli ultimi anni affetto da cecità, ricercava con gli occhi della fantasia la bellezza delle cose ovvero tendeva lo sguardo come a contemplarle per un’ultima volta. In realtà la visione del mondo è perfettamente intesa nei suoi particolari perché la sua bellezza è effetto e prova dell’Amor Divino. Iddio è la Somma Bellezza, e pertanto gli elementi della sua creazione debbono esser visti soprattutto nella loro parvenza di splendore divino, nella loro simiglianza al Bello supremo. Ma il Cantico è destinato ai poveri fraticelli e all’umile gente del popolo, e deve quindi consentire che i lettori possano «vedere con gli occhi»; si viene a creare, infatti, una continua trasposizione degli oggetti del creato su un piano di idoleggiamento materiale, inverato dal profondo sentimento d’amore, e ingentilito dall’innata disposizione di Francesco per il canto e la musica, ma pur sempre fatto di cose fisiche, di elementi semplici e concreti. E come sono semplicemente espresse le cose, così non ardua dovrà essere la serie dei concetti espressi: a Dio appartengono gli uomini e nella preghiera essi confermano la loro appartenenza al Creatore; il tributo di filiazione e di soggiacenza a Dio è la forma di assoluto riconoscimento della Onnipotenza; i vari elementi della Creazione si presentano sotto un aspetto benefico che così testimonia la filialità dell’omaggio che gli uomini debbono a Dio; e Questi si manifesta in tutta la sua bontà e grandezza; ciascuna delle varie forze dell’universo proclama la propria appartenenza a Dio.

Sollecitata da questi concetti e sentimenti, la poesia di san Francesco si dispiega in tutta la sua preziosa gamma espressiva; quando l’anima del lirico si incanta a contemplare le stelle «clarite et pretiose et belle»; quando ricorda le virtù di «sor’aqua», la quale è «multo utile et humile et pretiosa et casta», e le contrappone «frate focu», che è «bello et iocundo et robustoso et forte». Tutte le cose sono belle, ed è bello anche il «nubilo», in quanto rende più varia e affascinante la volta del creato; è bello il vento, che allontana le nuvole e rende splendente il cielo; è bello il sereno, nella infinita purezza della volta celeste. Tutto è degno d’essere amato. Il Santo spregia soltanto se stesso, il suo sentirsi nulla dinanzi a Dio come dinanzi alle creature, il suo tremare per la nostra fragilità e per l’abisso spalancato della perdizione, il suo sospirare verso il cielo come verso l’unico porto di quiete. E, infine, dalla contemplazione della serenità degli spazi la lode scende alla visione dell’umanità, che in terra soffre ogni specie di patimento e di malattia, ma riceve dal Signore la forza per sopportarli e per perdonare le offese. Ma anche in questa visione del mondo che soffre non v’è nulla di tragico e di inquieto, giacché anche le sofferenze sono segno dell’amore di Dio per le creature, e la rassegnata accettazione del dolore serve a far ancor più godere la bellezza delle cose e a farcele apparire in tutto il loro splendore.

Il Cantico di Frate Sole, per concludere, è ben più d’una semplice preghiera scritta dal Poverello ad uso dei suoi poveri frati; è una delle più alte creazioni della poesia d’ogni tempo, e una delle pagine liriche più aperte sul mondo e più ricche d’umanità. La lode del Signore è espressa in un ininterrotto transito dal cielo alla terra, dall’infinità degli esseri creati alla vita spirituale del singolo uomo, in un universale moto di riconciliazione tra terra e cielo; v’è assente il più piccolo segno di panteismo, né il poeta che immagina e descrive minutamente la vastità dell’universo trae mai, o da sé o dalle cose, alcuna forma di compiacimento, quasi nel sentirsi orgoglioso protagonista di questa grandiosa vicenda di cieli e di terre, ma i particolari quanto più sono ripieni della grandezza divina tanto più inducono a contemplare la piccolezza del creato dinanzi alla Onnipotenza.

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UpUltimo aggiornamento: 16/08/08