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Didattica > Strumenti > Bisanzio. Società e stato > 4

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Scrittori religiosi del Duecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


4. La poesia di Iacopone da Todi

In questo momento della storia della lauda entra la forte personalità di Iacopone da Todi, che assimila tutti i motivi e gli elementi predetti e li reca a grande altezza poetica. Frate minore, conosce e utilizza tutti i temi, nessuno escluso, del Francescanesimo primitivo e della spiritualità degli Osservanti. Proveniente da famiglia nobile, addottorato in legge e notaio, aveva del secolo un’esperienza viva e diretta così come s’era formata una vasta educazione culturale. Vicino ai Disciplinati, ne accetta il modo di poetare (la lauda) accogliendo anche i motivi penitenziali di quelle confraternite. Temperamento ardente, impetuoso, si getta nelle lotte del suo Ordine e nella difesa delle convinzioni personali senza relegarsi in una solitaria vita di contemplazione, ma pur conosce gli slanci e i rapimenti della mistica francescana nel suo costante anelito verso Dio, colorandoli di una tensione cupa e amara che è sua nota caratteristica. Letterato sì, ma uomo vicino al popolo, realizza una soluzione geniale tra un tipo di poesia colta e uno popolareggiante, ma la realizza d’impeto, sulla scia dei suoi orgogliosi sdegni e dei suoi fierissimi odi, riscattati sempre dal bisogno d’assoluto e da un bruciante desiderio di purezza e di mortificazione.

Le sue laude possono essere considerate come altrettante pagine di un diario personale: analizza sinceramente se stesso, mette a nudo con spregiudicata sincerità le proprie condizioni di peccatore e di credente, inserisce in questa potente indagine psicologica i contrastanti momenti dell’entusiasmo e della delusione, della sfrenata esaltazione e del commosso ripiegamento su se stesso. E dunque le sue laude sono specchio e documento verissimo della vita, d’una vita difficile da «bizzocone» a frate scomunicato, da peccatore a penitente. Né deve stupirci che in questo laudario «personale», «autobiografico» vi siano pagine di poesia evocativa o narrativa, come il celebrato Pianto della Madonna.

Questa lirica (la lauda XCIII) è giunta a un alto grado d’intensità poetica proprio perché il frate di Todi vi ha riversato tutti i fermenti e i motivi della sua esperienza religiosa, decantandoli attentamente, sottoponendoli a un procedimento di intensa semplificazione, fino a presentare la sua religiosità quasi nell’ambito di un racconto ingenuo che potesse commuovere la folla cristiana e nel quale essa ritrovasse la sua fede e le sue sofferenze terrene. La cupezza e la angoscia d’altri momenti della poesia di Iacopone si sopiscono dinanzi alla contemplazione della Croce e del patimento di Maria; un intimo bisogno di candore e di purezza traspare da ogni immagine. Ma pur notevolissimo, il Pianto della Madonna non basta da solo a renderci edotti degli aspetti e delle possibilità espressive della poesia iacoponica, meno ancora della sua concezione religiosa, dove Dio «che non è un ente di ragione ma un termine di azione (l’unione con Dio è un rovesciamento della propria natura), vi si definisce per opposizione alla qualità del finito, e in proporzione ad esso appare non-Essere anziché Essere; Luce così assolutamente luminosa da doversi dire, piuttosto, Tenebra», come ha scritto un critico, il Contini.

Si noti sotto questo angolo prospettico la lauda XXV, dove è rappresentato il tema, tante volte ritornante in Iacopone, del dialogo tra un vivo e un morto; siffatto tema è invocato con finalità ascetiche, per spaventare l’anima, che non avrebbe nulla da temere dalla distruzione della carne: la testa divenuta un teschio, la bocca una caverna, la carne un verminaio ecc. Ma per converso si notino anche le laude LXIX, LXXXVIII e LXXXIX, dove il processo di avvicinamento a Dio avviene attraverso un’attivazione di tutte le facoltà mentali, in un’ordinata gerarchia delle sue potenze, ha scritto un altro studioso di Iacopone, il Casella, «secondo un principio divino, per cui essa con umiltà, castità e povertà ritrova la via per salire a Dio, ne scopre l’immagine in se stessa, si conforma a lui con vigile perseveranza e si dispone, con la vittoria delle virtù cardinali sui vizi e con l’infusione delle virtù teologali al gaudio dell’unione immediata». Ed è questo l’unico degli elementi concettuali di Iacopone che risulti determinato in un ordine teologico complessivo, se pur non sistematico; gli altri elementi sono riferiti in modo disorganico, come se la singola lauda avesse talora una finalità contingente di meditazione e di sublimazione mistica che non ricevesse dall’interno alcuna spinta in senso elaborativo. Son proprio queste laude a sfondo dottrinario che hanno mutuato, presso qualche studioso, l’immagine di un Iacopone poeta dotto, contro l’interpretazione tradizionale di poeta popolareggiante, di invasato «giullare di Dio» che spinge le folle al suo stesso entusiasmo oltranzista. Si dovrà invece concludere che entrambi gli aspetti convivono in questa complessa personalità, e sono richiamati e utilizzati per un medesimo fine ascetico; i componimenti di teologia mistica integrano, in un piano di superiore ricerca della Verità, le ardenti apostrofi, i sentimenti gridati con impeto, le invocazioni di pace e di sdegno, le appassionate celebrazioni d’una propria disciplina mortificante, le punte estreme del realismo più rozzo e violento, le effusioni più apertamente dichiarate.

Ne consegue un linguaggio straricco di risorse e di componenti, ora colte ora popolareggianti, ora attente ad assimilare le forme del vernacolo e dell’usus plebeius, ora nobilitate da un alto intento retorico e da frequenti echi del latino della Chiesa. Del resto Iacopone, se non dei Detti e di un trattato sull’unione mistica, è certamente autore dello Stabat Mater, la quale sequenza è opera di uno spirito vivamente religioso ma anche esperto delle leggi poetiche e del verseggiare in latino. Accanto al Dies irae, forse di Tommaso da Celano, al Pange lingua di san Tommaso d’Aquino, all’Ave coeleste lilium di san Bonaventura, la sequenza iacoponica si pone tra i più espressivi frutti della produzione poetica latina del Duecento, nel quale panorama un cenno almeno occorrerà spendere per alcuni poemi sacri, quali l’ Anticerberus del frate minore Bongiovanni da Cavriana e il De hominum deificatione del monaco benedettino Gregorio del Gargano.

Il ricordo di questi poemi sacri, degni forse di essere presi in maggior considerazione dallo storico della letteratura italiana, ci richiama a un settore della poesia duecentesca di notevole interesse anche storico-religioso, e cioè alla poesia didattica in volgare. Nella prima metà del secolo il cremonese Gerardo Patecchio scrisse un poemetto, lo Splanamento de li proverbi di Salamone; diede un trattato sulla corruzione del mondo Uguccione da Lodi col Libro, dove rappresenta in modo peraltro rozzo le varie pene infernali e la via da seguire per giungere a salvamento. La produzione didattica continua nella seconda metà del Duecento, e si distingue un centro letterario in Lombardia, guidato da un sincero interesse per la fede religiosa; onde alcuni poemetti sull’Oltretomba cristiano, il Libro delle tre scritture di Bonvesin da Riva, dove sono descritte le pene infernali (la «scrittura negra»), la passione di Cristo (la «scrittura rossa»), il gaudio del Paradiso (la «scrittura dorata»); e poi il De Jerusalem coelesti e il De Babylonia civitate infernali di Giacomino da Verona; documenti di quella letteratura escatologica che presto avrà il suo capolavoro nella Commedia di Dante, ma restano non più che documenti importanti sotto il rilievo linguistico e storico, tuttavia insussistenti quanto a evidenza poetica e ad autenticità di lievito morale.

Pervenire dalla letteratura religiosa duecentesca alla Commedia non è soltanto, ovviamente, seguire un itinerario che da opere di grande rilievo artistico e letterario reca alla vetta d’ogni espressione poetica, ma anche riscontrare il cammino di tutti quei motivi ascetici, mistici, devozionali, politico-religiosi, e constatare come essi si risolvano in grandissima arte. Accanto ad essi, altri ancora: come soprattutto l’immenso dibattito teologico-filosofico della Scolastica, del qual pensiero già nella sua giovinezza Dante Alighieri poteva trovare l’influsso sulle lettere nella concezione amorosa del Guinizelli e del Cavalcanti. Chiudere con la Divina Commedia un discorso sulla letteratura ascetico-mistica del XIII secolo, è anche il modo di verificare la piena attualità, ai primi del secolo successivo, di tutte le correnti della spiritualità duecentesca: Gioacchino e Dante, Francesco e Dante, gli spirituali e il pauperismo e le correnti messianico-profetiche come ebbero a confluire nel grande sogno escatologico di Dante; persino, in modo non meno concreto ma che qualifica la vicinanza dell’Alighieri giovane alle opere della letteratura religiosa del Duecento, ricercando nella Vita Nuova (come hanno fatto lo Schiaffini e, più diffusamente, il Branca) gli echi e i moduli espressivi delle leggende agiografiche: la Vita Nuova come Legenda sanctae Beatricis. Ma Dante e la Commedia sono anche le basi della letteratura religiosa del Trecento, almeno in più settori se non in tutti, e quindi i versi del Poema Sacro aprono sul grandioso molteplice palcoscenico della vita sociale e letteraria d’un’età nuova e diversa da quella di san Francesco e della Legenda aurea.

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UpUltimo aggiornamento: 16/08/08