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Scrittori religiosi del Duecento
di Giorgio Petrocchi
© 1974 – Giorgio Petrocchi
13. Iacopone da Todi
Iacopo de' Benedetti nacque a Todi tra il 1230 e il 1240, di famiglia nobile. Avviato agli studi, si addottorà in legge ed esercità la professione di notaio. Sposò(forse nel 1267) una Vanna di Bernardino di Guidone, della famiglia dei conti di Coldimezzo. Secondo una leggenda, condusse vita godereccia, e la conversione giunse improvvisa con la morte della moglie, avvenuta tragicamente l'anno dopo il matrimonio, durante una festa.
Per dieci anni condusse vita di penitenza, come egli stesso ci dice, e non a da escludere che proprio in questo periodo entrasse in contatto con qualche fraternita di Disciplinati, da questa vicinanda traendo interesse per le laude. Infine, nel 1278, chiese di entrare nell'ordine dei Frati Minori, dove fu ammesso dopo aver superato prove e aver vinto, probabilmente, l'iniziale diffidenza di qualche superiore. Fu prate laico nel convento di Pontanelli, presso Terni, e certo qui si diede a studiare teologia e filosofia, entrò in contatto coi dotti dell'Ordine e coi personaggi piu cospicui, militando subito nella fazione degli Spirituali e celebrando nelle sue laude gli ideali di carita e di povertàa assoluta, scagliandosi contro la corruzione dell'Ordine e le mene riformatrici dei Conventuali. A Roma (probabilmente dal 1288) visse direttamente le vicende delle persecuzioni inflitte agli Osservanti, l'imprigionamento di molti d'essi, poi la liberazione e l'esilio in Cilicia.
Quando venne eletto al soglio pontificio Pietro da Morrone, col nome di Celestino V, Iacopone gli indirizzò una forte apostrofe, incitandolo a mantener fede agli ideali di povertà che il monaco abruzzese aveva per tanti anni predicato, ma non senza qualche espressione di sfiducia.
Dopo l'abdicazione di Celestino, il nuovo papa, Bonifacio VIII, dichiarò decadute le disposizioni favorevoli agli Spirituali. Iacopone, che si trovava a Palestrina e manteneva rapporti con i perseguitati e con la comunità dei Pauperes eremitae domini Celestini (indipendente dai Celestini propriamente detti, e formata dai seguaci del Clareno), unitosi ai cardinali Iacopo e Pietro Colonna firmò il manifesto (a Lunghezza, il 10 maggio del 1297), con cui si dichiarava decaduto Bonifacio e ci si appellava a un Concilio. Tredici giorni dopo il papa scomunicava i ribelli con la bolla Lapis abscissus e iniziava l'assedio di Palestrina. Un anno e mezzo i Colonnesi e i loro seguaci resistettero; e in questo periodo Iacopone lanciò al papa la sua fierissima sfida con l'epistola in versi O papa Bonifazio, molt'hai iocato al monno (più tardi il componimento venne rimaneggiato). Nel settembre del 1298 Palestrina cadeva: Iacopone veniva processato e imprigionato nel sotterraneo di un convento (si pensa a quello di San Fortunato a Todi, ma senza certezza; comunque non nella rocca di Castel San Pietro, sopra Palestrina, e ancor meno in un carcere di Roma).
Bonifacio VIII non perdonò mai il frate ribelle, e Iacopone dovette attendere la morte del nemico e la successione alla tiara di Benedetto XI (fine 1303), per poser uscire dal carcere. Si ritirà nel convento di San Lorenzo di Collazzone (tra Perugia e Todi) ove venne a morte, quasi certamente il giorno di Natale del 1306.
I [1]
Povertade ennamorata,
grande è la tua signoria.
Mia è Francia ed Inghilterra,
enfra mare aio gran terra;
nulla me se move guerra,
sì la tengo en mia bailia.
Mia è la terra de Sassogna,
mia è la terra de Vascogna,
mia è la terra de Borgogna
con tutta la Normannia.
Mio è 'l renno Teotonicoro
mio è lo renno Boemioro,
Ibernia e Dazïoro,
Scozia e Fresonia.
Mia è la terra de Toscana,
mia è la valle Spoletana,
mia è la marca Anconitana
con tutta la Schiavonia.
Mia è la terra Cicigliana,
Calavria e Puglia piana,
Campagna e terra Romana
con tutto el pian de Lombardia.
Mia è Sardegna e regno Cipri,
Corseca e quel de Criti,
de lò da mar gente enfinite,
che non saccio là 've stia.
Medi, Persi ed Elamiti,
Iacomini e Nestoriti,
Iurgiani, Etiopiti,
India e Barbaria.
Le terre ho date a lavoranno,
a li vassalli a coltivanno:
li frutti dono en anno en anno,
tant'è la mia cortesia.
Terra, erbe con lor coluri,
arbori, frutti con sapuri,
bestie, mie serveturi,
tutti en mia bevolcaria.
Acque, fiumi, lachi e mare,
pescetelli en lor notate,
aere, venti, occei volare,
tutti me fo giollaria.
Luna, sole, cielo e stelle
fra i miei tesauri non so' covelle:
de sopre al ciel si sto quelle
che tengon la mia melodia.
Puoi che Deo ha lo mio velle,
possessor d'onnechevelle,
le mie ale ho tante penne,
de terra en ciel non m'e via.
Poi '1 mio volere a Dio è dato,
possessore d'onne stato,
en loro amore eo trasformato;
ennamorata cortesia.
II
Plange la Chesia, plange e dolora,
sente fortura – de pessimo stato.
«O nobilissima mamma che piagni,
mostri che senti dolor motto magni:
ennarrame 'l modo perchè tanto lagni,
che sì duro pianto fai esmesurato ».
« Figlio, io sì piango, ché m'aio anvito:
veiome mortto pat' e marito;
figli, fratelli, neputi ho smarrito,
onne mio amico è preso e legato.
So' circundata da figli bastardi:
en onne mia pugna se mustra codardi.
Li miei ligitimi, spade nè dardi,
lo for coraio non era mutato.
Li miei ligitimi era 'n concorda,
veio i bastardi pin de discorda:
la gente enfedele me chiama la lorda
per lo rio essempio c'ho semenato.
Veio esbannita la povertate:
null'è che cure se no 'n degnetate.
Li miei ligitimi en asperetate,
tutto lo monno lo' fo conculcato.
Auro ed argento ho rebannito:
fatt' ho i nimici con for gran convito;
onne buon use da loro è fuggito,
donne el mio pianto con granne eiulato.
O' so' li patri plini de fede?
Null' è che cure morir l'om me vede.
La Tepedezza m'ha preso ed occide,
el mio dolore non è corrottato.
O' so' i profeti plin de speranza?
Null' è che cure en mia vedovanza.
Presonzione pres' ha baldanza,
tutto lo monno po' lei s'è rizzato.
o' so' l'appostoli pin de fervore?
Null' è che cure en mio dolore:
escito m'è scontra lo Propio Amore
e ià non veio che i sia contrastato.
O' so' li martiri pin de fortezza?
Non è chi cure en mia vedovezza.
Escita m'è scontra l'Agevelezza,
el mio fervore sì ha nichilato.
O' so' i prelati iusti e fervente,
che la lor vita sanava la gente?
Escit' è la Pompa, grossura potente,
e sì nobel ordene m'ha maculato.
O' so' i dotturi plin de prudenza?
Multi ne veio saliti en escienza,
ma la for vita non m'ha convegnenza,
dato m'ho calci che 'l cor m'ho accorato.
O relïusi en temperamento,
granne de vui avea piacemento.
Or vo cercanno onne convento:
pochi ne trovo en cui sia consolato.
O pace amara, co' m'hai sì afflitta!
Mentre fui en pugna, sì stetti diritta.
Or lo reposo m'ha presa e sconfitta,
el blando dracone sì m'ha venenato.
Null' è che vegna al mio corrotto,
en ciascun stato sì m'e Cristo morto.
O vita mia, speranza e deporto,
en onne coraio te veio affocato!»
III
O amor, devino amore,
amor, che non se' amato
Amor, la tua amicizia
è piena di letizia:
lo cor che t'ha assaiato.
O amore amativo,
amor consumativo,
amor conservativo del cor che t'ha albergato!
O ferita ioiosa,
ferita delettosa,
ferita gaudiosa, chi de te è vulnerato!
Amor, donne intrasti,
che sì occulto passasti?
Nullo signo mustrasti
donne tu fossi entrato.
O amore amabele,
amore delettabele,
amore encogetabele sopr'onne cogitato!
Amor, divino foco,
amor de riso e ioco,
amor, non dài a poco,
ch'ei ricco esmesurato.
Amor, con chi te poni?
con deiette persone;
e larghi gran baroni,
che non fa' lor mercato.
Tal non pare che vaglia
en vista una medaglia,
chec quasi como paglia
te dài en suo trattato.
Chi te crede tenere
per la sua scïenza avere,
nel cor non pò sentire
che sia lo tuo gustato.
Scienzia acquisita
mortal sì da ferita,
s'ella non è vestita
de core umiliato.
Amor, tuo magisterio
enforma 'l desiderio,
ensegna l'evangelio
col breve tuo ensegnato.
Amor, che sempre arde
e i tuoi corai ennardi,
fa' le lor lengue darde
che possa onne corato.
Amor, la tua larghezza,
Amor, la gentelezza,
Amor la tua recchezza
sopr'onne emmageriato.
Amore grazïoso,
amore delettoso,
amore suavetoso,
che 'l core hai sazïato!
Amor che 'nsigne l'arte
che guadagnìn la parte,
de ciel ne fai le carte,
en pegno te n'ei dato.
Amor, fedel compagno,
amor che mal n'è' a cagno,
de pianto me fai bagno,
che pianga el mio peccato.
Amor dolce e suave,
de cielo, amor, se' clave:
a porto mene nave,
e campa el tempestato.
Amor, che daie luce
ad onnia che ha luce,
la luce non è luce,
lume corporeato.
Luce luminativa,
luce demustrativa,
non vene all'amativa
chi non è en te luminato.
Amor, lo tuo effetto
dà lume a lo 'ntelletto,
demostrali l'obietto
de l'amativo amato.
Amor, lo tuo ardore
ad inflammar lo core
uniscel per amore
ne l'obietto encarnato.
Amor, vita secura,
ricchezza senza cura
più che 'n etterno dura
ell'ultrasmesurato.
Amor, che dai[e] forma
ad onnïia che ha forma,
la forma tua reforma
l'omo ch'è deformato.
Amore puro e mondo,
amor saio e iocondo,
amore alto e profondo
al cur che te s'è dato!
Amor largo e cortese,
amor con larghe spese,
aAmor, con mense stese
star lo tuo affidato.
Lussurïa fetente
fugata de la mente,
de castetà lucente,
munditïa adornato.
Amor, tu èi quell'ama
donne lo cor te ama;
sitito con gran fama
è 'l tuo ennamorato.
Amoranza divina,
ai mali èi medecina:
tu sano onne malina,
non sia tanto aggravato.
«O lengua scottïante,
como si' stata usante
de farte tanto ennante
parlar de tale stato?
Or pensa che n'hai detto
de l'amor benedetto:
onne lengua è 'n defetto,
che de lui ha parlato.
Si lengua angeloro,
che stia en quel gran coro,
parlanno de tal fòro,
parlara scelenguato:
ergo, co' non vergugni?
Nel tuo laudar lo 'mpugni,
lo suo laudar non iugni,
'nante l'hai blasfemato».
Non te posso obedire,
c'amor degga tacere;
l'amor voglio bandire,
fin che mo m'esce 'l fiato.
Non è condezïone
che vada per rascione,
che passi la stascione
c'amor non sia clamato.
Clama lengua e core:
«Amore, amore, amore!»
Chi tace el tuo dolzore,
lo cor glie sia crepato.
E credo che crepasse
lo cor che t'assaiasse:
si amore non clamasse,
trovàrese affocato.
IV
Que farai, Pier dal Morrone?
Ei venuto al paragone.
Vederimo el lavorato,
ché en cella hai contemplato.
S'è 'l monno de te engannato,
séquita maledezzone.
La tua fama alta è salita,
en molte parte n'è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon sirai confusione.
Como segno a saietta,
tutto lo monno a te affitta:
se non ten' belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.
Si se' auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign' hai filo, lana o stame,
mustràrite en esta azzone.
Questa corte è una fucina
che 'l bon auro se ce affina:
s'ello tene altra ramina,
torna 'n cennere e 'n carbone.
Se l'ofizio te deletta,
nulla malsania è più enfetta,
e ben a vita maledetta
perder Dio per tal boccone.
Granne ho avuto en te cordoglio
como t'escìo de bocca: «Voglio»,
ché t'hai posto iogo en coglio
che t'è tua donnazïone.
Quanno l'omo vertüoso
è
posto en loco tempestoso,
sempre 'l trovi vigoroso
a portar ritto el gonfalone.
Grann' è la tua degnetate,
non è men la tempestate,
grann' è la varietate
che trovari en tua mascione.
V
Que farai, fra Iacovone?
Ei venuto al paragone.
Fusti al Monte Pelestrina
anno e mezzo en desciplina:
loco pigliasti malina,
donne hai mo la precisione.
Probendato en corte i Roma,
tale n'ho redutta soma:
onne fama se ce afuma,
tal n'aio maledezzone.
So' arvenuto probendato,
che 'l cappuccio m'e mozzato:
perpetuo encarcerato,
encatenato co' lïone.
La prescione che m'e data,
una casa sotterrata.
Arèscece una privata:
non fa fragar de moscone.
Null'omo me pò parlare;
chi me serve lo pò fare,
ma èglie upporto confessare
de la mia parlazïone.
Porto iette de sparviere,
soneglianno nel mio gire:
nova danza ce pò odire
chi sta appresso a mia stazzone.
Da poi ch'io me so' colcato,
revoltome nell'altro lato:
nei ferri so' enzampagliato,
engavinato êl catenone.
Aio un canestrello apeso,
che dai surci non sia offeso:
cinque pane, al mio parviso,
pò tener lo mio cestone.
Lo ceston sì sta fornito:
fette de lo dì transito,
cepolla per appetito;
nobel tasca de paltone.
Poi che la nona è cantata,
la mia mensa apparecchiata,
onne crosta aradunata
per empir mio stomacone,
récamese la cocina,
messa en una mia catina:
puoi c'abassa la ruina,
bevo e 'nfonno 'l mio polmone.
Tanto pane ennante affetto,
che ne stèttera un porchetto:
ecco vita d'om destretto,
novo santo Ilarïone.
La cucina manecata,
ecco pesce en peverata:
una mela me cèe data,
ec par taglier de storione.
Mentre magno, ad ora ad ora,
sostener granne fredura,
levome a l'ambiadura,
estamplando el mio bancone.
Paternostri otto a denaro
a pagar Dio tavernaro,
ch'io non aio altro tesaro
a pagar lo mio scottone.
Sì ne fosser proveduti
li frate che so' venuti
en corte, per argir cornuti,
che n'avesser tal boccone!
Si n'avesser cotal morso,
non farian cotal descorso:
en gualdana curre el corso
per aver prelazïone.
Povertate poco amata,
pochi t'hanno desponsata,
si se porge ovescovata,
che ne faccia arnunzascione.
Alcun è che perde 'l mondo,
altri el larga como a sonno,
altri el caccia en profonno;
diversa han condizïone:
chi lo perde, è perduto;
chi lo larga, è pentuto;
chi lo caccia arproferuto,
ègli abomenazïone.
L'uno stanno li contende,
l'altri dui, arprende arprende:
si la vergogna se spenne,
vederai chi sta al passone!
L'ordene sì ha un pertuso,
ca l'oscir non è confuso:
si quel guado fosse archiuso,
staran fissi al magnadone.
Tanto so' gito parlando,
corte i Roma gir leccanno,
c'or è ionto alfin lo banno
de la mia presonzione.
Iace, iace en esta stia
como porco de grassia!
Lo Natal non trovaria
chi de me lieve paccone.
Maledicerà la spesa
lo convento che l'ha presa:
null'utilita n'è scesa
de la mia reclusione.
Faite, faite che volete,
frate, ché de sotto gite,
ca le spese ce perdete:
prezzo nullo de pescione;
c'aio un granne capetale:
che me so' use de male
e la pena non prevale
contra lo mio campïone.
Lo mio campïone è armato,
de lo mio odio scudato:
non pò esser vulnerato
mentr' ha a collo lo scudone.
O mirabel odio mio,
d'onne pena hai signorio,
non recìipi nullo eniurio,
vergogna t'è essaltazione.
Nullo se trova nemico,
onnechivèl' è per amico,
eo solo me so' l'inico
contra mia salvazione.
Questa pena che m'e data,
trent'anni che l'aggio amata:
or è ionta la iornata
d'esta consolazïone.
Questo non m'è orden novo,
che 'l cappuccio longo arprovo,
c'agni dece enteri trovo
ch'io 'l portai gir bizzocone.
Loco fice el fondamento
a vergogne e schergnemento:
le vergogne so' co' vento
de vessica de garzone.
Questa schera è sbarattata,
la vergogna è conculcata:
Iacovon la sua mainata
curre al campo al gonfalone.
Questa schera mess'è 'n fuga:
vegna l'altra che soccurga;
si né l'altra non ne surga,
e anco attende al paviglione.
Fama mia, t'aracommando
al somier che va ragghiando:
po' la coda sia 'l tuo stanno
e quel te sia per guigliardone.
Carta mia, va' mitti banna:
Iacovon pregion te manna
en corte i Roma, che se spanna
en tribù, lengua e nazione;
e di' co' iaccio sotterrato,
en perpetua encarcerato:
en corte i Roma ho guadagnato
sì bon beneficïone.
VI
O papa Bonifazio,
eo porto el tuo prefazio
e la maledezzone
e
scommunicazione.
Co la lengua forcuta
m'hai fatta esta feruta:
che co la lengua ligne
e la piaga ne stigne;
ca questa mia ferita
non pò esser guarita
per altra condezione
senza assoluzione.
Per grazïa te peto
che me dichi: «Absolveto»,
e l'altre pene me lassi
finch'io del mondo passi.
Puoi, si te vol' provare
meco essercetare,
non de questa materia,
ma d'altro modo prelia.
Si tu sai sì schirmire
che me sacci ferire,
tengote bene esperto,
si me fieri a scoperto:
c'aio dui scudi a collo,
s'io no i me ne tollo,
per secula infinita
mai non temo ferita.
El primo scudo, sinistro,
l'altro sede al deritto.
Lo sinistro scudato,
un diamante aprovato:
nullo ferro ci aponta,
tanto c'è dura pronta:
quest'è l'odïo mio,
ionto a l'onor de Dio.
Lo deritto scudone,
d'una preta en carbone,
ignita come foco
d'un amoroso ioco:
lo prossimo en amore
d'uno enfocato ardore.
Si te vòi fare ennate,
puo'lo provar 'n estante;
e quando vol' t'abrenca,
ch'e' co l'amar non venga.
Volentier te parlava:
credo che te iovara.
Vale, vale, vale,
Deo te tolla onne male
e dìelome, per grazia,
ch'io el porto en leta fazia.
Finisco lo trattato
en questo loco lassato.
VII
Quando t'aliegre, omo d'altura,
va' poni mente a la sepoltura;
e loco pone lo tuo contemplare,
pensa bene che tu dii tornare
en quella forma che tu vide stare
l'omo che face en la fossa scura.
«Or me respondi, tu, om seppellito,
che così ratto d'esto monno èi 'scito:
o' so' i bei panni de ch'eri vestito?
Ornato te veggio de molts bruttura».
«O frate mio, non me rampognare,
che 'l fatto mio a te pò iovare!
Puoi che i parenti me fiero spogliare,
de vil ciliccio me dier copretura».
«Or ov'è 'l capo cusì pettenato?
Con cui t'aragnasti, che 'l t'ha sì pelato?
Fo acqua bollita, che 'l t'ha sì calvato?
Non te c'e opporto più spicciatura!»
«Questo mio capo, ch'abbi sì biondo,
cadut' è la came e la danza dentorno:
nol me pensava, quann'era nel mondo,
cantando a rota facea portadura».
«Or ove so' l'occhi così depurati?
For de for loco sì so' iettati.
Credo che i vermi li s'ho manecati,
del tuo regoglio non àver paura».
«Perduti m'ho gli occhi, con che gia peccando,
augurdando a la gente, con issi accennando.
Ohimè dolente, or so' nel malanno,
che 'l corpo è vorato e l'alma en ardura».
«Or ov'e 'l naso, c'avì' pro odorare?
Quigna 'nfertade el n'ha fatto cascare?
Non t'èi poduto dai vermi adiutare,
molt' è abbassata 'sta tua grossura».
«Questo mio naso, ch'abbi pro odore,
caduto n'è con molto fetore:
nol me pensava quann' era 'n amore
del mondo falso, pien di bruttura».
«Or ov'e la lengua cotanto tagliente?
Apri la bocca, si tu n'hai niente.
Fone troncata, oi forsa fo 'l dente,
che te n'ha fatta cotal rodetura?»
«Perdut'ho la lengua, co la qual parlava,
molta descordia con essa ordenava:
nol me pensava, quann' io manecava
el cibo e 'l poto oltra musera».
«Or chiude le labra pro i denti coprire:
par, chi te vede, che 'l vogli schirnire.
Paura me mitte pur del vedere:
càionte i denti senza trattura».
«Co' chiudo le labra, che unqua no l'aio?
Poco pensava de questo passaio.
Ome dolente, e como faraio,
quann' io e l'alma starimo en ardura?»
«Or o' so' le braccia con tanta fortezza,
menaccianno la gente, mustranno prodezza?
Raspate 'l capo, si t'è agevelezza,
crulla la danza e fa portadura».
« La mia portadura si gia 'n esta fossa:
cadut' è la came, remase so' l'ossa
ed onne gloria da me è remossa
e onne miseria m'e a rempietura».
«Or lèvate 'n pede, ché molto èi iaciuto,
accònciate l'arme e tolli lo scuto.
En tanta viltate me par chèi venuto:
non comportare più questa affrantura».
«Or co' so' adasciato de levarme en pede?
Chi 'l t'ode dicere mo lo se crede!
Molto è l'om pazzo, chi no provede
ne la sua vita la sua finitura».
«Or chiama i parenti, che te venga aitare,
che te guarden dai vermi che te sto a devorare.
For più vivacce venirte a spogliare:
partierse el podere e la tua mantatura».
«No i posso chiamare, ché so' encamato.
Ma falli venire a veder mio mercato:
che me veia iacere colui ch'è adasciato
a comparar terra e far gran chiusura».
«Or me contempla, oi omo mondano:
mentr'èi nel mondo non esser pur vano;
pensate, folle che a mano a mano
tu serai messo en grande strettura ».
VIII
Lo pastor per mio peccato — posto m'ha for de l'ovile:
non me iova alto belato — che m'armetta per l'ostile.
O pastor, co' non te esvigghi a questo alto mio belato,
che me traggi de sentenza de lo tuo scommunicato?
De star sempre empregionato, — si esta pena non ce basta,
pòi ferire con altr'asta, — come piace al tuo sedile.
Lungo tempo aio clamato: ancora non fui audito;
scrissete nel mio libello: de quel non fui essaudito.
Ch'io non stia sempre ammannito — a toccar che me sia operto,
non reman per mio defetto — ch'i' no arentri al mio cubile.
Como el cieco che clamava, da passanti era sprobato,
maior voce esso iettava: «Miserere, Deo, al cecato»;
«Che ademanni che sia dato?»; — 0 Messer, ch'io reveggia luce;
ch'io possa cantar a voce — quello osanna püerile».
Servo de Centorione paralitico en tortura,
non so' degno che 'n mia casa sì descenda tua figura;
bastame pur la scrittura — che me sia detto: «Absolveto»
che 'l tuo detto m'e decreto — che me tra' for del porcile.
Trappo iaccio a la piscina al portico de Salamone:
grande moti sì fa l'acqua en tanta perdonazione.
È passata la stagione: — prestolo che me sia detto
ch'io me leve e tolla 'l letto — e retorni al mio casile.
Co' malcano putulente deiettato so' dai sane:
né en santo né a mensa con om san non magno pane.
Peto che tua voce cani — e sì me diche en voglia santa:
«Sia mondata la tua tanta — enfermetate malsanile».
So' vessato dal demonio, muto, sordo deventato:
la mia 'nfermetate pete che 'n un ponto sia 'l curato,
che 'l demonio sia fugato — e l'audito me se renna
e sia sciolta la mia lengua — che legata fo con «Sile».
La püella che sta morta en casa del sinagogo,
molto peio sta mia alma, de sì dura morte mogo:
che me porge la man rogo — e sì me renni a san Francesco,
che esso me remetta al desco, — che receva el mio pastile.
Deputato so' en lo 'nferno e so' ionto ià a la porta:
la mia matre relegione fa gran pianto con sua scorta;
l'alta voce udir oporta — che me dica: «Vecchio, surge»,
che en cantar torni 'l luge che e fatto del senile.
Como Lazar sotterrato quattro anni en gran fetore
né Maria ce fo né Marta che pregasse el mio Segnore;
poise far per suo onore — che me dica: «Veni fora»,
per l'alta voce decora — sia remesso a star coi file.
Uno empiasto m'è ensegnato e ditto m'è che pò iovare:
quel che l'ha èmme da lungo, no li posso ademandare.
Scrivoli nel mio dittare — che me deia far l'aiuto.
Che lo 'mpiasto sia compiuto — per la lengua de fra Gentile.
IX
O dolze amore
c'hai morto l'Amore,
prego che m'occidi d'amore.
Amor c'hai menato
lo tuo ennamorato
a cusì forte morire,
pro che 'l facisti
che non volisti
che io devesse perire?
Non me parcire,
non voler soffrire
ch'io non moga abbracciato d'Amore.
Si non perdonasti
a Quel che sì amasti,
como me vol' perdonare?
Segno è si m'ami
che tu me ce 'nnami
co' pesce che non pò scampare.
E non perdonare,
ca 'l m'è en amare
ch'io moga annegato en amore.
L'Amore sta appeso,
la croce l'ha preso
e non larga partire.
Vocce currenno
e mo me ce appenno,
che io non possa smarrire,
ca lo fuggire
fariame sparire
ch'io non fora scritto en amore.
0 croce, io m'appicco
e a te m'afficco,
che gusti morendo la vita,
ché tu n'èi adornata,
o morte melata:
tristo che non t'ho sentita!
O alma, si' ardita
d'aver tua ferita,
ch'io mora accorato d'amore!
Vocce currenno,
en croce leggenno,
ennel libro che c'e ensanguenato,
ca essa scrittura
me fa en natura
e 'n filosofia conventato.
O libro signato,
che dentro èi enaurato
e tutto fiorito d'amore!
O amor d'Agno,
maiur che mar magno,
e chi de te dir porria?
A chi c'è annegato de sotto e da lato
e non sa do' se sia,
e la pazzia
gli par ritta via
de gire empazzato d'amore.
X
«Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso,
Iesù Cristo beato.
Accurre, donna, e vide
che la gente l'allide:
credo che lo s'occide,
tanto l'ho flagellato».
« Com'essere porria,
che non fece follia,
Cristo, la spene mia,
om l'avesse pigliato?»
«Madonna, ell' è traduto:
Iuda sì l'ha venduto;
trenta denar n'ha avuto,
fatto n'ha gran mercato».
«Soccurri, Maddalena!
Ionta m'e adosso piena:
Cristo figlio se mena,
com' è annunzïato».
«Soccurre, donna, adiuta,
ca 'l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
hòlo dato a Pilato».
«O Pilato, non fare
el figlio mio tormentare,
ch'io te pozzo mustrare
como a torto è accusato».
«Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege
contradice al senato».
«Prego che me 'ntennate,
nel mio dolor pensate:
forsa mo vo mutate
de che avete pensato».
«Traàm for li ladruni,
che sian suoi compagnuni:
de spine se coroni,
ché rege s'è chiamato!»
«O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato?
Figlio occhi iocundi,
figlio, co' non respundi?
Figlio, perché t'ascundi
al petto o' si' lattato?»
«Madonna, ecco la croce,
che la gente l'aduce,
ove la vera Luce
dèi essere levato».
«O croce, e che farai?
El figlio mio torrai?
Como to ponirai
chi non ha en sé peccato?»
«Soccurri, plena de doglia,
ca'l tuo figlio se spoglia:
la gente par che voglia
che sia martirizzato!»
«Se i tollete el vestire,
lassatelme vedere,
como el crudel ferire
tutto l'ha ensanguenato!»
«Donna, la man li è presa,
ennella croce è stesa;
con un bollon l'ho fesa,
tanto lo ci ho ficcato.
L'altra mano se prende,
ennella croce se stende
e lo dolor s'accende,
ch'e più moltiplicato.
Donna, li pè se prenno
e chiavellanse al lenno:
onne iontur' aprenno,
tutto l'ho sdenodato».
«E io comenzo el corrotto:
figlio, lo mio deporto,
figlio, chi me t'ha morto,
figlio mio dilicato?
Meglio averiano fatto
che 'l cor m'avesser tratto,
che ne la croce è tratto,
stace desciliato!»
«Mamma, ove si' venuta?
Mortal me dài feruta,
ca 'l tuo planger me stuta,
che 'l veio sì afferrato».
«Figlio, che m'aio anvito,
figlio, pate e marito!
Figlio, chi t'ha ferito?
Figlio, chi t'ha spogliato?»
«Mamma, perché te lagni?
Voglio che te remagni,
che serve ei mei compagni,
ch'al mondo aio acquistato».
«Figlio, questo non dire:
voglio teco morire;
non me voglio partire
fin che mo m'esce 'l fiato.
C'una aiam sepoltura,
figlio de mamma scura:
trovarse en afrantura
mate e figlio affocato!»
« Mamma col core afflitto,
entro le man to metto
de Ioanne, mio eletto:
sia tuo figlio appellato.
Ioanni, èsto mia mate:
tollela en caritate,
aggïne pietate,
ca'l cor sì ha furato».
« Figlio, l'alma t'è 'scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossecato!
Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio, a chi m'apiglio?
Figlio, pur m'hai lassato!
Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, per che t'ha 'l mondo,
figlio, così sprezzato?
Figlio dolze e placente,
figlio de la dolente,
figlio, hatte la gente
malamente trattato!
Ioanni, figlio novello,
mort'è lo tuo fratello:
ora sento 'l coltello
che fo profitizzato.
Che moga figlio e mate
d'una morte afferrate:
trovarse abraccecate
mate e figlio impiccato».
XI
O Segnor, per cortesia,
manname la malsania.
A me la freve quartana,
la contina e la terzana,
la doppia cotidïana,
co la granne etropesia.
A me venga mal de denti,
mal de capo e mal de ventre,
a lo stomaco dolor pognenti,
e 'n canna la squinanzia.
Mal degli occhi e doglia de fianco
l'apostema dal canto manco;
tiesco me ionga en alco
d'onne tempo la fernosia.
Aia 'l fecato rescaldato,
la milza grossa, el ventre enfiato,
lo polmone sia piagato
con gran tossa e parlasia.
A me vegna le fistelle
con migliaia de carvoncigli,
e li granchi siano quilli
che tutto repien ne sia.
A me vegna la podagra,
mal de Giglio sì m'agrava;
la disenteria sia piaga
e le morroite a me se dia.
A me venga el mal de l'asmo,
iongasece quel del pasmo,
como al can me venga el rasmo
ed en bocca la grancìa.
A me lo morbo caduco
de cadere en acqua e 'n fuoco,
e ià mai non trovi luoco
che io affritto non ce sia.
A me venga cechetate,
mutezza e sordetate,
la miseria e povertate,
e d'onne tempo en trapparia.
Tanto sia el fetor fetente,
che non sia null'om vivente
che non fugga da me dolente,
posto 'n tanta ipocondria.
En terrebele fossato,
ca Riguerci è nomenato,
loco sia abandonato
da onne bona compagnia.
Gelo, granden, tempestate,
fulgur, troni, oscuritate,
e non sia nulla avversitate
che me non aia en sua bailia.
Le demonia enfernali
sì me sian dati a ministrali,
che m'essercitin li mali
c'aio guardagnati a mia follia.
Enfin del mondo a la finita
sì me duri questa vita,
poi, a la scivirita,
dura morte me se dia.
Aleggome en sepoltura
un ventre de lupo en voratura,
l'arliquie en cacatura
en espineta e rogaria.
Li miracul' po' la morte:
chi ce viene aia le scorte
e le vessazione forte
con terrebel fantasia.
Onn'om che m'ode mentovare
si se deia stupefare
e co la croce signare,
che rio scuntro no i sia en via.
Signor mio, non è vendetta
tutta la pena ch'ho ditta:
ché me creasti en tua diletta
e io t'ho morto a villania.
XII
O papa Bonifazio, molt'hai iocato al monno:
penso che ioconno — non te porrai partire!
Lo monno non ha usato lasciar li suoi serventi
che a la sceverita se partano gaudenti:
non farà legge nova de farnete esente,
che non te dia i presenti — che dona al suo servire.
Bene lo me pensai che fossi satollato
d'esto malvascio ioco ch'al monno hai conversato;
ma poi che tu salisti en offizio papato,
non s'aconfé a lo stato — d'essere en tal desire.
Vizio enveterato convertese en natura:
de congregar le cose grande n'ha' avuta cura.
Or non ce baste 'l leceto a la tua fame dura,
messo t'ei a robbatura, — come ascaran rapire.
Pare che la vergogna dereto aggi iettata,
l'alma e lo corpo hai posto a•llevar tua casata:
omo che 'n rena mobele fa granne edificata,
subito è ruinata, — e non gli pò fallire.
Como la salamandra sempre vive nel fuoco,
così par che lo scandalo te sia sollazzo e gioco;
dell'aneme redente par che te curi poco:
ove t'acconci loco, — saperailo al partire.
S'alcuno ovescovello pò chevelle pagare,
mettigli lo flagello che lo vol' degradare;
poi 'l mandi al camorlengo che se degga acordare,
e tanto porrà dare — che 'l lassarai redire.
Quando nella contrata t'aiace alcun castello,
'n estante mitti screzio entra frate e fratello:
all'un getti el braccio en collo all'altro mustri el coltello:
si no assente al tuo appello — menaccigli de ferire.
Pense per astuzia lo monno dominare:
ciò ch'ordene l'un anno, l'altro el vidi guastare.
El monno no è cavallo che se lassi enfrenare,
che 'l possi cavalcare — secondo el tuo volere.
Quanno la prima messa da te fo celebrata,
venne una tenebria per tutta la contrata;
en santo non remise luminera appicciata:
tal tempests levata — la 've tu stavi a dire.
Quanno fo celebrata la coronazione,
non fo celato al monno quello che ce scuntròne:
quaranta omin fuor morti all'oscir de la mascione:
miracol Dio mustròne — quanto gli eri en piacere.
Reputavi te essere lo più sufficïente
ad essere en papato sopre onn'omo vivente:
clamavi santo Petro che fosse respondente
si esso sapea niente — respetto al tuo savere.
Ponisti la tua sedia da parte d'aquilone:
contra Dëo altissimo fo la tua entenzione;
per sùbita ruina pres'ei en tua mascione,
e nullo se trovòne — a poterte guarire.
Lucifero novello a sedere en papato,
lengua de blasfemia che 'l mondo hai venenato,
che non se trova spezia bruttura de peccato,
là 've tu si' enfamato, — vergogna è a proferire.
Ponisti la tua lengua contra la relïone,
a dicer blasfemìa senza nulla rascione,
e Deo sì t'ha sommerso en tanta confusione,
che onn'om ne fa canzone — tuo nome a maledire.
O lengua macellara a dicer villania
remproperar vergogne con granne blasfemia,
né emperator né rege, chivelle altro che sia,
da te non se partia — senza crudel ferire.
O pessima avarizia, sete enduplicata,
bever tanta pecunia, non esser sazïata!
Non ce pensave, misero a cui l'hai congregata?
ché tal la t'ha robbata — che non eri en pensieri!
La settimana santa, ch'onn'omo stava 'n pianto,
mandasti tua famiglia per Roma andare al salto:
lance giero rompenno, facenno danz' e canto;
penso che [ 'n] molto affranto — Deo te deia ponire.
Intro per Santo Petro e per Santa Santoro
mandasti tua fameglia facenno danza e coro:
li pelegrini tutti scandalizzati fuoro,
maledicenno tuo oro — e te e tuo cavalieri.
Pensavi per augurio la vita perlongare:
anno, dì né ora omo non pò sperare;
vedem per lo peccato la vita stermenare,
la morte appropinquare — quann'om pensa gaudere.
Non trovo chi recordi nullo papa passato
che 'n tanta vanagloria se sïa delettato;
par che 'l terror de Deo dereto aggi gettato:
segno è de desperato — o de falso sentire.
[1] Il testo prescelto è quello fermato da G. CONTINI, Poeti del Duecento, t. II, Milano-Napoli, 1960, pp. 75-88, 95-124, 135-143.
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