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Scrittori religiosi del Trecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


2. Gli autori domenicani. Santa Caterina da Siena

La letteratura religiosa trecentesca consegue i suoi risultati poetici più alti nell'ambiente domenicano. I domenicani, mostrando una più aperta popolarità nella divulgazione dei problemi dottrinari, conquistano quelle piazze e quei borghi che erano stati retaggio esclusivo dei predicatori minoritici, ed entrano nel vivo della problematica etico-sociale del tempo col Passavanti, col Cavalca e soprattutto con santa Caterina. V'è negli scrittori domenicani una notevolissima capacità di rendere i fatti religiosi materia quotidiana d'esperienza e di vita, pur senza allontanarsi da quella solidità dottrinaria che li aveva distinti nell'ambito della cultura filosofica e teologica del secolo precedente.

Un esempio cospicuo è offerto dalla personalità di Domenico Cavalca, la cui magica maestria di stile ha forse messo in ombra l'autenticità dell'ispirazione ascetica e le qualità del temperamento spirituale. Non si dovrà certo giungere alla tesi opposta, e cioè che l'esperienza stilistica fosse secondaria negli intenti del Domenicano, ma il modo della scrittura deve essere valutato in funzione del preciso programma ascetico e devozionale. Ma perché la norma ascetica possa essere intesa, il Cavalca ricorre all'esemplificazione tratta dai fatti della vita evangelica o della vita quotidiana, cioè all'«assempro». Lo scrittore non dimentica lo scopo della sua ricerca spirituale, però è tanto il diletto di raccontare che il fatto narrativo assume ben presto una sua ammirevole autonomia stilistica. Aleggia sulla pagina del Cavalca un candore che è quello di un'anima semplice, non ingenua, chè al fondo della parabola s'accentua l'affettuosa scaltrezza del bravo predicatore, pronto a sfruttare tutti gli effetti e della favola e del fatto reale. Il gusto del volgarizzatore, sensibile al ritocco più che alla vasta creazione, si incontra con un indubbio talento stilistico, nativamente portato a utilizzare in perfetto equilibrio le risorse della favella popolare e l'esperienza della prosa classica; in tal senso il suo capolavoro resta proprio le Vite dei Santi Padri. Non v'è episodio in quelle leggende che non appaia trasfigurato dall'abile stilista in un gioco pittoresco, trasportato in un'aura di ancor più fiabesca coloritura. Tuttavia il Cavalca resta sempre al di qua della poesia, nel territorio piacevole ma ben spesso inconsistente della leggenda popolare riscritta da una mano sapiente. Anche quando descrive torbidi peccati o spasimi di tentazioni c'è nel suo racconto un che di queto, di sereno, di dimesso che toglie colore alle scene più accese; lo stile diventa ancor più morbido, pur conservando sempre quel fare semplice ed elegante che è il suo merito peculiare.

L'unica opera volgare di lacopo Passavanti, lo Specchio di vera penitenza, mostra una ragguardevole capacità di assorbimento degli schemi ascetici medievali mercé uno spirito moderno; la trattazione è intramezzata da una serie di «esempi», fatterelli, parabole, aneddoti, tratti da fonti scritte o dalla tradizione orale del popolo. Lo Specchio appare un'opera varia propriamente di energia didascalica e di gusto rappresentativo, intenta a cogliere il frutto dell'espe­rienza narrativa profana e a volgerlo al servizio di un'opera di religione; ricca anche di interessi psicologici in senso umano, e quindi non soltanto impegnata ad approfondire i vari stati della meditazione morale ma anche a cogliere le contraddizioni dell'indole umana. Quando supera, perché ciò non sempre avviene, lo schematismo tipicamente medievale, Iacopo Passavanti rileva con notevole finezza i casi descritti, le battaglie combattute contro il demonio, l'onnipresenza del soprannaturale, il gusto del prodigioso. E finisce col conseguire i migliori risultati letterari quando si sofferma ad analizzare le pene e i tormenti delle tentazioni, la paura della dannazione, i sogni colmi d'incubi angosciosi. Sono inoltre da ricordare, per verità psicologica, alcuni ritratti di personaggi, i quali usufruiscono d'una rapida ma intensa notazione e si distinguono per i loro caratteri e figure. Il Passavanti seppe egregiamente utilizzare le risorse della novellistica borghese ai fini della prosa morale, cogliendo nuove linee di sviluppo del linguaggio trecentesco, promuovendo una serie d'innovazioni d'ordine sintattico e lessicale che faranno di lui, accanto al Cavalca e a santa Caterina, uno dei modelli di lingua cari al Purismo ottocentesco.

Nelle Lettere di santa Caterina da Siena s'attinge il vertice della prosa mistica e ascetica del Trecento. Tutto in Caterina avviene in forma d'esperienza religiosa: lo stile, la struttura epistolare, il racconto autobiografico, l'invettiva politica, il ragionamento concettuale. L'epistolario cateriniano è stracolmo di sperimentazioni formali e di assimilazioni culturali, di cui è sovente impossibile stabilire la genesi se non si tenga conto della vivace partecipazione della Santa senese alla vita religiosa italiana, oltre che della propria città, e alla pubblicistica politico-spirituale. Vari appaiono i toni delle Lettere subordinatamente quelli dell'altra opera cateriniana, il Dialogo della Divina Provvidenza: s'alternano pagine d'infuocata energia spirituale a pagine intese a rappresentare in modo serenamente affettuoso le piccole cose della vita quotidiana. La trattazione trascorre da momenti d'ardore a momenti di quiete, da un ricorso tumultuoso a similitudini e metafore ardite del linguaggio biblico a un pacato intercalare di termini del parlare domestico, sostenuto da frequenti interiezioni, da locuzioni di grande tenerezza umana, talvolta anche dal guizzo d'un sorriso trepido.

La battaglia cateriniana contro il secolo, incentrata in tre direzioni particolari (il ritorno della sede papale da Avignone a Roma, la riforma delle strutture della Chiesa, l'indizione d'una nuova Crociata) è espressa nelle Lettere in tutta l'amplissima gamma della tematica politico-sociale, mostrando l'eccezionale vitalità della Santa in ogni momento della sua breve vita, l'impressionante forza con cui essa sa rivolgere la parola a re, papi, cardinali, come anche a umili personaggi, ai peccatori, ai dubbiosi, ai poveri, alle amate consorelle. Ma i temi sono presupposti da una profonda e originale visione mistica, che scaturisce dalla conoscenza di Dio connaturata al sentimento del rapporto che l'uomo istituisce con Dio, al sentimento dell'abisso che separa la perfezione di Dio con l'infinita imperfezione dell'uomo, il quale avverte la necessità di chiudersi tutto nella cellula spirituale della conoscenza e di nutrirsi dell'ardore della carità divina. La conoscenza dell'essenza della Divinità (conoscenza tanto metafisica che morale) sollecita e alimenta la contrizione, unita all'umiltà. Soltanto nel processo conoscitivo di Dio è possibile attuare quella totale comprensione dei propri peccati che non è umano rammarico, ma sublime consapevolezza della carità divina, la quale opera sugli uomini coi mezzi del disgusto delle colpe e del pentimento. La presenza della carità è visibile nella fiamma inestinguibile che riscalda il cuore: «Debbe essere [il cuore] siccome la lampana, ch'è stretta da piedi e larga da capo; cioè che 'l desiderio e affetto suo sia ristretto al mondo e largo di sopra; cioè dilargare il cuore e l'affetto suo in Cristo crocifisso, amandolo e temendolo con vera e santa sollecitudine. E allora empirà questa lampana al costato di Cristo crocifisso. Il costato ti mostra il segreto del cuore».

Capovolgendo le posizioni della teologia tomistica, Caterina afferma che Iddio, colui che è, è presente entro l'uomo, il quale «non è» fuori di questo rapporto amoroso. Quel che Iddio fa esistere, non è l'uomo in generale, ma quel certo particolare uomo che Dio ha veduto in se stesso e della cui bellezza Egli s'è innamorato: «Tu, Dio eterno, vedesti e cognoscesti me in Te, e perché Tu mi vedesti nel lume tuo, però innamorato de la tua creatura, la traesti da Te, creandola alla immagine e similitudine tua». Le rivelazioni mistiche e le riflessioni ascetiche s'originano sempre dal concetto centrale della presenza, in tutti gli uomini, del Dio-amore, e aprono la strada a una serie di immagini di timbro affettuoso e di significato caritativo, le quali a loro volta pervengono alla dottrina del corpo mistico di Cristo. Da questa impostazione dottrinaria è agevole il passaggio a un vero e proprio programma di riforma del governo della Chiesa. A tal fine Caterina rimprovera aspramente Gregorio XI e Urbano VI, ponendoli di fronte alle loro gravi responsabilità e censura il clero per il troppo amore ch'esso rivela per le cose temporali. Ai pontefici rivolge la forte esortazione a «lavare il ventre» della Chiesa, cioè a togliere ogni macchia dal corpo mistico di Cristo.

La scrittura immaginosa di santa Caterina tradisce due ascendenze fondamentali: da un lato la tradizione biblica, innografica e apologetica degli scritti sacri ch'ella era solita farsi leggere, e d'altro canto il linguaggio del popolo in mezzo al quale era cresciuta e viveva; non si può dire quale influsso predomini (forse quello scritturale ed ecclesiale nel Dialogo e nelle epistole rivelatorie d'un raptus mistico; lo stile demotico nella corrispondenza ai familiari e alle consorelle), ma nel complesso si può affermare che il linguaggio cateriniano risulti ben omogeneo, in virtù anche della compattezza dell'ispirazione interiore, e per merito anche della precisa struttura quadripartita dell'epistola, fornita d'un protocollo iniziale cui tengono dietro una parte relativa al racconto personale d'un'esperienza e un'altra zona in cui si da motivo dell'occasione che ha dettato il testo, per finire con un protocollo finale. Questo equilibrio espressivo contribuisce a donare agli scritti cateriniani una singolare importanza nella storia letteraria del Trecento, così come Caterina, nella storia civile e religiosa del secolo, fu tra i personaggi più alti ed emblematici dell'epoca.

Personalità di notevole rilievo nell'ambiente domenicano è, infine, Giordano da Pisa, al quale studi recenti (di C. Del Corno) hanno restituito maggiore ampiezza di cultura e ricchezza di vita spirituale, oltre a più complesse forme d'educazione culturale, specie in quegli exempla di cui un tempo si additava la scarsezza e sono invece numerosi, estremamente significanti e sotto il profilo morale e sotto quello letterario. Giordano fu scrittore nobile e austero, dotato d'intelletto lucido, sereno, equilibrato, sia quando costruisce un discorso di meditazioni ascetiche, sia quando si volge a fustigare i costumi della società contemporanea. Tra i Domenicani del Trecento è forse quello che ha fruito di minore fortuna presso i puristi, esaltatori delle qualità di lingua e di stile della prosa religiosa del secolo XIV; ma oggi la qualità asciutta e nervosa della sua eloquenza sacra appare non meno pregevole delle fastosità della parola d'un Cavalca.

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UpUltimo aggiornamento: 10/12/06