Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright

Didattica > Strumenti > Scrittori religiosi del Trecento > Testi, 2

Strumenti

Scrittori religiosi del Trecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


Testi

2. Domenico Cavalca

Domenico Cavalca nacque a Vico Pisano intorno al 1270, ed entrò ancor giovane nell'Ordine domenicano, dedicandosi all'educazione morale delle donne, e fondando il monastero di Santa Maria in Pisa, nel 1342. Scrisse varie opere spirituali, la Disciplina degli spirituali, il Trattato delle trenta stoltizie, il Trattato della mondizia del cuore, lo Specchio di croce (alcune di queste opere vennero però attribuite, ad opera del Volpi, all’agostiniano Simone Fidati da Cascia), e provvide a volgarizzare la Somma dei vizi di fra Guglielmo nel Pungilingua, e le Vitae SS. Patrum; gli è stata anche attribuita, ma senza basi solide, la Bibbia volgare.


Dalla «Vita di Santa Eufrosina» [1]


Fu un conte molto ricco maravigliosamente, il quale era di grande legnaggio ed era di schiatta di re, e avea città e castella e ville e province sotto sé, ed era sì possente, che sempremai teneva mille cavalieri di battaglia in sua corte, e avea nome il conte Savillo di Babilonia, ed avea una molto bellissima donna di moglie, e non ne aveva figliuolo né maschio, né femmina. E questo conte udì dire che nel diserto di Babilonia avea un monistero, nel quale avea molti santissimi monaci, e grandi amici di Dio, i quali facevano santa e vangelica vita. L'abate di questo monistero era un santissimo abate, e molte volte l'Angelo gli venne a parlare, ed ei parlava a lui per la sua santità. Disse questo conte: Io voglio andare al diserto a quel santo abate, e il voglio pregare che preghi Iddio per li suoi santissimi preghi e per li suoi santissimi meriti mi dia un figliuolo. E incontanente che egli ebbe questo pensamento, si fu mosso con gran parte della sua gente, e cavalcò a questo monistero; e incontanente andò all'altare maggiore, e fuvvisi inginocchiato, e molto divotamente pregava Iddio che gli desse erede; e poiché ebbe compiuta la sua orazione, parlò all'abate, in segreto lo chiamò, e molto dolcemente lo pregò che pregasse Iddio, che gli desse frutto della sua compagnia. Questo santo abate disse a questo conte: Voi ve ne andrete colla pace di Dio, e io ne pregherò Iddio creatore e salvatore del mondo, che vi dia quel frutto, che sia a suo piacere, e che sia a salute dell'anima vostra. E il conte rispose: Io prego Iddio che vi dia a salvare l'anima. E poi ritornò a casa sua molto consolato. E appresso certo tempo la donna partorì una fanciulla femmina, in somma la più bella creatura, che giammai fosse veduta. Il conte quando l'udì dire, fu il più allegro uomo del mondo, e il più contento, e fecesi arrecare la fanciulla, e levollasi in collo, e più di cento volte la baciò. Quando venne il terzo giorno, il conte fece arrecare la fanciulla al monistero, e egli con tutta la sua gente vi cavalcò, e quando vide l'abate, si gittò ai piedi, e disse: Santo Padre, io vi reco buone novelle: che Iddio m'ha dato una fanciulla la più bella, che giammai fosse veduta; a voi rendo grazie e mercede e onore. E questo santo abate fece cristiana questa fanciulla, e posele nome Eufrosina, perché la madre del conte ebbe così nome. E poi questo santo abate adorò a Dio Padre, e pregollo che le desse buona e santa vita, e che le desse della sua santa grazia e della sua virtù. Ecco questa fanciulla avere sette anni. Posela a leggere, ed ebbe sì buono ingegno, che tostamente apparò grammatica, e di lettera, e poi ella volle studiare in divinità per voler sapere e conoscere della città di Dio. Ecco questa fanciulla avere quindici anni, e sapere tre scienze, ed era in somma la più bella cristiana, che giammai fosse veduta, e ogni persona parlava di quella donzella, tanto era bella e piacente a vedere. Ed ecco venire ambasciadori del re di Grecia, e dimandavano Eufrosina per moglie, e il suo padre era pieno di gaudio, e di letizia, e facevane grande allegrezza di questa ambasceria, e di questa addomandagione, e disse a loro che tosto risponderebbe loro. E incontanente cavalcò al monastero all'abate suo compare, e disse: Compare mio, la maggiore e la più bella ambasceria, che mai fosse veduta, sono venuti a me a casa mia, e dimandano Eufrosina per moglie, la figlioccia vostra, e sono re incoronati coloro che la dimandano; onde io vi prego, Padre mio santissimo, che voi ne preghiate Iddio di Paradiso che le dia della sua grazia, e che a me mi dia ammaestramento e senno, che io la dia al miglior marito. Rispose il santo abate: Compare mio, andate colla grazia di Dio, che io ho speranza nel Creatore, che la creò, ch'ella avrà il migliore marito, che niuna, che sia in terra, e che la vostra figliuola avrà corona sempiterna, ed io ne farò per lei speziali orazioni a Dio. Rispose il conte: Compare mio, come ho io a rispondere al Soldano e agli altri ambasciatori? Disse l'abate: Rispondete loro che voi volete termine sei mesi a rispondere, imperciocché la donzella non vuole marito, e che in questo mezzo voi la convertirete. Ritornò il conte molto consolato e allegro, e fece loro l'ambasciata, secondamente che l'abate lo consigliò. E quando gli ambasciadori intesero il detto del conte, e sì ne furono andati, ed egli manifestò ogni cosa e narrò a Eufrosina, ed ella quando udì dire siccome il padre la voleva maritare, sì sospirò fortemente e disse: Padre mio, or bene veggio io che voi mi volete dipartire da voi, e non volete che io viva, né che io regni con esso voi; ma se voi mi desideraste e amastemi, voi non mi dipartireste da voi. E sappiate che se voi mi maritarete, forse che giammai non mi rivedrete più, e poi vi rimarrete sconsolato e solo. Allora il Padre cominciò forte a piangere, e gittolle il braccio in collo e trasmortì. E poiché egli fu risentito, disse: Figliuola mia dolcissima, e amabile, io ti prego che tu ti piaccia di volere marito, e di appagare l'animo mio. Rispose la donzella, che è fornita di senno e di conoscenza spirituale, e disse: Padre mio, poiché a voi piace, io voglio torre sposo a mio senno, dappoiché voi pur volete. Rispose il padre: Figliuola mia, lo sposo, che tu ti avrai, voglio che sia di schiatta di re incoronato. Rispose la figliuola: Io torrò per isposo mio il maggiore e il più potente di questo mondo; e dicovi, dolce padre mio, che tutti gli altri re del mondo hanno spavento di quel re, ch'io spero di torre. E il padre fu pieno di gaudio e di letizia e di consolazione, che egli non la intendea; ma ella diceva del re di vita eterna. E il padre disse: Dolce anima mia, quando sarà questo matrimonio? non vorrei che tu indugiassi troppo: imperocché il tempo passa a giornate, e io sono oggimai vecchio, e tu se' nella grande età e fiorita: di età tu hai quindici anni; io vorrei vedere i tuoi figliuoli innanzi che io mi morissi, che io gli farei re del mio patrimonio. Rispose Eufrosina, quella, ch'è tutta savia di senno e di conoscimento spirituale, e disse: O dolce padre mio, innanzi che sia due mesi, io avrò preso il mio sposo. E il padre disse: Figliuola mia, or ti ricordi del termine di due mesi? Rispose Eufrosina: Io vi prometto che innanzi che sieno passati quaranta giorni, io avrò preso quello sposo, che ho fidanza di torre. Allora il padre si partì tutto racconsolato, e innanzi che fosse passato otto giorni, una mattina in sul mattino, Eufrosina si levò vestita a modo d'uomo, e misesi alle guance un cappuccio e tinsesi la faccia sua e le mani, e nascose tutta la sua bellezza, e fu sulla piazza della città e tolse mille bisanti d'oro, e misesegli a lato, e trovò messi e fanti, che la guidarono al monistero dell'abate suo nonno, e quando fu giunta al monistero, si lavò la faccia sua, cacciò via tutta la sozzura, ch'avea posto al viso e alle mani, e rimase chiara e netta e lucente come il sole, e poi diede commiato ai fanti, che avea menato seco, e pagogli bene e allegramente (e avea parlato con loro in lingua greca, acciocché non potessero affigurare di lei alcuna cosa), e poi se ne andò a piè dell'altare maggiore del monistero, e grande ora stette inginocchiata, pregava Iddio divotamente che guardasse l'anima e 'l corpo suo dal peccato della lussuria, e che le desse dono di tenere e mantenere verginità, e che le desse grazia ch'ella potesse entrare in quel monistero; e molto celatamente s'aveva fatto tosare i suoi capelli a guisa d'un giovane. Innanzi ch'ella si partisse dal suo palagio, ella era vestita in forma ed in figura d'uomo. E poi si partì dall'orazione, e guarda e vede tutto il coro pieno di monaci tutti santi, e grandi amici di Dio, e dimandò qual fosse l'abate. E l'abate venne a lui, e disse: Sono l'abate, figliuolo benedetto, che ti piace? E incontanente sì gli si gittò a' piedi quel giovane, e l'abate disse: Dimanda sicuramente ciò che ti piace. Allora disse: Io vi prego, santissimo padre, che voi mi riceviate in questa vostra santa religione, ch'io voglio salvare l'anima, e voglio fuggire il mondo: e perciocché il mondo mi va cacciando, e io lo vo pur fuggendo: mercé per Iddio, padre santissimo, non mi abbandonate. Allora l'abate fu a capitolo cogli altri frati, e tutti quanti di concordia dissero: Sia ricevuto. Allora l'abate mandò per lui, e fecelo venire in capitolo, e disse a lui: Or vedi, figliuolo mio benedetto, noi siamo tutti contenti di farti piacere; ma noi dubitiamo fortemente che tu non possi sofferire, né sostenere questa nostra regola, imperciocché ella è molto aspra, e molto agreste e forte. Imperciò io la ti voglio dire, e poi tu potrai pensare e deliberare quello che ti piacerà di fare, e noi siamo contenti di compiacere ai tuoi prieghi. Primieramente noi non mangiamo mai carne, né cacio, né uova, e mai non beviamo vino, giammai non mangiamo cucina, e giammai non giacciamo in letto, e' nostri letti sono di fieno e di paglia, e poi tenghiamo silenzio cinque dì della settimana. Or vedi, figliuolo benedetto, la nostra vita e la nostra regola; tu se' sì tenero, e sei sì gioioso, e sì delicato, e di tante bellezze adorno e composto; non credo che tu potessi sostenere questa vita così regolata. Rispose il giovane: Signor mio, questa è la vita che io andava cercando; mercé per Iddio, non mi abbandonate; ricevetemi, che il mondo mi va cacciando e io lo vo fuggendo. Allora lo menarono a piè dell'altare, e misesi l'abito monacale, e rasarongli il capo, e fecergli la cherica, e poi gli assegnò una cella colla lettiera del fieno. E l'abate gli pose nome Ismiraldo: imperocché il viso suo era come smeraldo, ed era chiamato D. Ismiraldo. Disse Ismiraldo: io vi prego di grazia che voi mi concediate che io mi stia solitario rinchiuso in cella e serrato, imperocché niuna persona non veggia giammai mia faccia. Quando l'abate udì queste parole, e avere questo giovane tanta contrizione e volontà di penitenza fare, ebbe nel suo cuore grande allegrezza. Allora lo fece entrare nella cella sua, e fece conficcare l'uscio della cella, e poi fece fare una fenestruzza bassa, onde se gli porgesse da mangiare e da bere, e non poteva essere veduto da persona. Ritorniamo la storia al conte suo padre, che non poteva avere novelle della figliuola sua: faceva sì ammirabile pianto, che mai facesse uomo nato, e volevasi dare la morte di notte, e strideva e gittavasi, e la madre tanto dolore se ne pose al cuore, che se ne morì. E il conte andava stridendo e urlando per lo palagio, come uomo che fosse uscito fuori di sé; e andava chiamando: Eufrosina, amore mio, dove sei tu ita? se' tu in terra, o in mare, o se' tu ita in cielo? favellami. E così andava facendo il dì, come la notte; e non trovava né pace né riposo; e non era persona, che lo potesse confortare. E quando venne l'altro giorno, ei si levò la mattina molto per tempo come pazzo tutto solo, e cavalcò al monastero dell'abate suo compare, facendo grande pianto e grande lamento, e gittoglisi a' piedi, e disse: Compare il frutto delle vostre orazioni ho perduto, e non so ove si sia la vostra figlioccia, e figliuola mia, l'anima mia, e gli occhi del capo mio. Veggendo lo abate, questo suo compare così tribulato, ebbene compassione, e cominciò a lagrimare e disse: Compare mio, non vi conturbate, e abbiate speranza in Dio, che la vi diede, ché egli la vi renderà. E questo conte faceva piangere l'abate e tutt'i monaci: e quando ebbe pianto e dolorato tutto quel dì, ed egli montò a cavallo, e tutto solo se ne venne al suo albergo; e quando fu giunto, sì cominciava a piangere, e gittavasi per lo spazzo, e a grandi voci piangeva: Eufrosina, figliuola mia, or dove sei tu? se' tu in terra, o in mare? se' tu itane in cielo? or dove se' tu non mi fai motto? E battevasi il petto e le guancie, e pelavasi la barba, e volevasi dare la morte, e non era persona che lui potesse consolare. E veggendo i suoi baroni e cavalieri che questo conte si voleva dare la morte, sì gli dissero: O signore, mercé per Iddio, non vogliate morire in tal maniera; onde a noi pare che cerchi per lei ne' monisteri delle sante donne religiose, e per le città e per le castella e per le ville, tanto ch'ella si ritrovi. Allora il conte fu tutto confortato, e allora furono eletti certi buoni cavalieri e pedoni della corte, che andassero cercando per lei; e andarono per tutte le provincie, e non la trovarono. Allora il conte cominciò a piangere da capo, e diceva: Non voglio più vivere in questo mondo, e così piangendo e lamentando, montò a cavallo tutto solo, e andonne al monastero all'abate suo compare, e molto forte piangeva, e raccontogli siccome egli avea fatto cercare per lei nei monisteri delle sante donne, e per le città e per le castella, e non si può ritrovare; onde io non so più che mi fare; se non che io voglio qui morire, e qui mi voglio stare, imperciocché io non trovo in niun'altra parte tanto di consolazione, quanto qui dentro. E tutto il dì e la notte andava come pazzo gridando e piangendo per lo monistero. Udendo Ismeraldo così piangere il dì e la notte questo conte, non sapendo che fosse suo padre, presenegli pietà, e dimandò il fante, che gli portava da mangiare: Colui, che io odo così piangere e così lamentarsi il dì e la notte, chi è? Rispose il valletto: Egli è un gentile conte di Babilonia, che fe' la maggiore perdita, che facesse uomo nato, che dice che ha perduto una sua figliuola, la quale avea nome Eufrosina, e non ne puote sapere novella niuna; credo veracemente che egli se ne darà la morte, tanto dolore se ne dà al cuore. Veggendo Ismiraldo che il suo padre era così tribulato per il suo partire, ebbene compassione e vollelo consolare; e disse a questo suo servo: Va a lui, e di' che venga a me. E il valletto andò a lui, e disse: Signore, venite meco a un santo monaco, il quale sta rinchiuso in cella, e dice che vuol parlare con voi, imperciocché dice che molto gl'incresce, e duole molto del lamento, ch'egli vi avea udito fare. Allora questo conte andò con questo servo alla cella d'Ismiraldo, e posesi a sedere a piè della finestrella, e disse: Servo di Dio, Dio vi dia pace. Ismiraldo rispose: Dio empia ogni vostro desiderio, acciocché voi abbiate il Paradiso. E disse Ismiraldo: So che voi siete molto tribulato per una vostra figliuola. Io voglio che voi vi ricordiate di Giobbe, il quale ebbe così bella famiglia, tra quali v'ebbe cavalieri, e avea così bellissima donna di moglie, e tutti gli perde in un dì, e Giobbe non si crucciò niuna volta con Dio, ma sempre lodava e ringraziava il suo nome. E voi, che avete una figliuola, perché Iddio ve l'ha ritolta nel suo piacere, sì vi volete dare la morte? Or pensate che Iddio ve la diede, ed egli medesimo ve l'ha ritolta; onde io vi prego per rimedio della vostra anima, che voi non vi diate più lamento, ma lodate e ringraziate Iddio, che l'ha chiamata a sé nel suo piacere. Rispose il conte: Io non posso sapere ove ella si sia, e quando io penso della sua venerabile figura, il cuore mi schianta entro il corpo. Rispose Ismiraldo: Andate sicuramente, e non ne dubitate, che io so per divina grazia, che Iddio l'ha chiamata a sé nel suo piacere, ed è in luogo santo e onesto nel suo servigio, e avrà corona beata nel santo Paradiso. Rispose il conte: Come lo sapete voi, che voi mi favellate così di fermo? Perch'io ho veduta la vostra figliuola per grazia divina, ed è in luogo sicuro, e forte, e onesto. Allora il conte, padre suo, non la conosceva, ma ella conosceva bene lui. Allora si partì da lui molto consolato e tutto allegro e gaudioso, e incontanente se n'andò all'abate suo compare, e disse: O compare mio, quel vostro monaco, che sta rinchiuso in cella, m'ha fatto tutto allegro e confortato. Rispose l'abate: Io credo veramente ch'egli sia santo uomo e grande amico di Dio. E poi il conte tornò a casa sua molto confortato e allegro nell'animo suo, e tornando a casa sua, entrò nella camera, là dove Eufrosina soleva dormire. Allora comincia a chiamare Eufrosina, e diceva: Amore mio, io non ti veggo, siccome io ti soleva vedere in questa camera giacere, e dimorarvi in grandissimo tempo. E veggendo che il suo cuore non puote rappacificare, se n'andò a quel santo luogo al monistero, montò a cavallo tutto solo, e venne al monistero, e disse all'abate: Compare, io non trovo pace, né tranquillità, se non qui in questo santo e venerabile luogo, né niuno mi dà tanta consolazione, quanto il vostro monaco Ismiraldo, il quale sta rinchiuso in cella; onde io vi prego, compare mio, che voi mi facciate tanto di grazia, che io mi possa oggi stare con lui; imperocché mi danno grande consolazione i suoi santi ammonimenti e le sue sante parole. Allora l'abate chiamò il fante, il quale portava mangiare a Ismiraldo, e disse a lui: Va a Ismiraldo col mio compare, e digli da mia parte che io gli raccomando questo mio compare, e che non guardi all'ubbidienza, e che dica e faccia tutta la sua consolazione. E il conte fu allora molto allegro, e andò col fante d'Ismiraldo alla sua cella, e il servo gli disse quelle parole, che l'abate gli avea dette, e il conte si pose a sedere allato alla finestrella. Allora Ismiraldo cominciò a parlare a lui, dicendogli: Or come vi siete voi confortato, poscia che voi vi partiste da me? Rispose il conte: Voi me ne mandaste tutto consolato; così ve ne meriti Iddio per me; e disse il conte: Io sono ritornato qui a voi, imperocché io non trovo pace, né riposo, né tranquillità, se non qui con esso voi pe' vostri santi ammonimenti, che mi danno grande consolazione; e imperciò io voglio che il mio compare mi dia licenza che io mi stia in questo santo e venerabile luogo; e qua entro voglio offrire tutte le mie ricchezze; e di questo santo luogo non mi voglio partire giammai. E stando con Ismiraldo molto si dilettava di stare con lui per li suoi santi ammonimenti: e siccome fu piacere di Dio, Ismiraldo infermò e non potè stare più a parlare con lui alla finestrella; e veggendo il conte che Ismeraldo era infermato, incominciò forte a sospirare, e sospirando diceva: Se Iddio mi toglie questo santo monaco, la mia vita sarà poco, imperciocché non ho trovato più consolazione, che la sua; che, quando io sono con lui, veracemente e' mi par essere con Eufrosina mia figliuola: onde io mi voglio stare, e non abbandonarlo in questa infermità, tanto ch'egli sia guarito, e imperocché dice che visibilmente ha veduta la mia dolcissima figliuola. Di grazia l'addomandò all'abate, e l'abate gli diè licenza; e l'abate con tutti i monaci andarono col conte alla cella d'Ismeraldo, e ruppero l'uscio ed entrarono dentro; e Ismeraldo giaceva in su la lettiera del fieno molto forte ammalato. E veggendo il conte suo padre, molto se ne confortò, e molto ne fu consolata; ma non si volle appalesare; anzi si recò il cappuccio in sul volto, acciocché ella non fosse conosciuta, e poi prese il conte per la mano, e disse: Voi starete qui in questa notte con esso meco, e saprete novelle della vostra figliuola. Allora il conte incominciò forte a piangere, e disse: O verace Iddio non mi desolare e mi abbandonare, e piacciati di non tormi questa mia consolazione di questo santissimo monaco, che in questo mondo non m'è rimasa più consolazione, che la sua. Allora disse Ismeraldo: Voi vi starete stanotte con esso meco, e Dio vi consolerà. Udendo l'abate queste parole, fu molto contento per amore del suo compare il conte. Allora l'abate segnò e benedisse Ismeraldo, e poi l'abate si partì co' monaci suoi molto forte lagrimando, vedendo così forte ammalato Ismeraldo, e il suo padre il conte rimase con esso lui. Parlando il conte con esso lui, disse il conte: O dolce mia consolazione e mia tranquillità, io vi prego che voi non m'indugiate più di darmi consolazione della mia figliuola. Rispose Ismeraldo: Tosto avrete consolazione della vostra figliuola. E così parlando quasi nella mezza notte Ismeraldo venne affinando. Allora non si volle più indugiare, e sì disse al padre: Perché Iddio onnipotente mi dispose della mia miseria, ed hammi empiuto il mio desiderio insino alla fine, e forte combattendo m'ha ridotto a buon porto e buon fine, non per mia virtù, ma per aiuto di quel Signore, che m'ha guardata da' miei nemici, ed ho compiuto il mio corso, ed hammi data corona di giustizia, non voglio che voi abbiate più tribulazione della vostra figliuola Eufrosina; che io sono dessa, e voi siete il padre; e imperciò io vi prego che voi vi dobbiate confortare che io ho fuggite le battaglie di questo mondo per andare a vita durabile. Onde io vi prego, padre mio, che voi non lasciate toccare il corpo mio a persona, se non a voi; e voi medesimo colle vostre mani, lo laviate; e ancora vi prego, padre mio, che delle vostre ricchezze voi ne offeriate a questo santo e venerabile luogo, acciocché questi santi monaci abbiano rimembranza di pregare Iddio per voi, e per la mia madre, e per me. E dette ch'ebbe queste parole, sì si fece benedire al padre, e nelle sue mani morì, e passò di questa vita in santa pace. E udendo il padre cotali parole, e vedendo che ella era morta, dal grande dolore cadde tramortito sopra il corpo suo, e risentito ch'egli fu, trasse sì grande strido, che vi trasse l'abate con tutt'i monaci; e quando videro il conte piangere sopra il corpo d'Ismeraldo così fortemente, cominciaronlo a confortare co' loro santi ammonimenti. Allora disse il conte all'abate e a' monaci: Deh lasciatemi qui morire, che ho vedute le più meravigliose cose, che mai in questo mondo fossero vedute. E molto forte piangendo diceva: O figliuola mia dolcissima, ch'è ventinove anni, che io non ti ho veduta, se non di piccolo tempo in qua, e perché non ti se' appalesata, che io mi sarei stato con teco a salvare l'anima mia? O figliuola mia, come hai potuto passare le insidie e le iniquità di questo mondo e le tenebre, e se' partita di questa misera vita, e ita se' a vita durabile? E vedendo l'abate che Ismeraldo era morto e passato di questa vita, sì disse lagrimando: O Eufrosina figliuola di Cristo, non dimenticare i servi tuoi di questo monastero, ôra per noi a Gesù Cristo che ci faccia venire alla sua gloria, e che ci faccia avere la tua compagnia e cogli altri santi in Paradiso. E uno di questi monaci, che non vedea lume, andò con divozione a baciare i piedi, e incontanente vide lume. E poi l'abate fece seppellire il corpo suo a veggente di tutti i monaci, e tutti lodavano il Signore, quando così fragile femmina senza senso avea operato tanta grazia in questo mondo. E veggendo l'abate e tutti i monaci i grandi miracoli che questo benedetto corpo facea, lodavano e benedicevano Iddio e la sua potenza. E veggendo il conte suo padre tanti miracoli della sua benedetta figliuola, offerse a questo santo e venerabile luogo ciò ch'egli possedeva; e volle fare penitenza in quella medesima cella, ove stette Eufrosina sua benedetta figliuola, e in quel medesimo letto dormìa, e ivi stette dieci anni, e fece santa vita in santa pace; e l'abate il fece seppellire in quel luogo, ove seppellì Eufrosina sua benedetta figliuola; e in quel dì che fu il loro trapassamento, se ne fa gran festa e grande solennità a onore e riverenza di Dio, a cui sia onore e gloria.

[1] Da Vite de' Santi Padri volgarizzate per frate D. C., Parma, 1874, pp. 339-351.

© 2000
Reti Medievali
UpUltimo aggiornamento: 10/12/06