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Scrittori religiosi del Trecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


Testi

3. Iacopo Passavanti

Iacopo Passavanti nacque a Firenze verso il 1300, ed entrò giovanissimo (1317 circa) nell'Ordine domenicano, compiendo studi teologici a Parigi (1330-1333 circa) e leggendo filosofia nello studio di Pisa, poi teologia in quelli di Siena e di Roma; fu infine (1341-1345) priore del convento di Santa Maria Novella, e infine vicario vescovile (1350-1352) nella diocesi di Firenze, ove venne a morte nel 1357. Il suo Specchio di vera penitenza è il frutto di varie prediche tenute in Firenze, soprattutto d'un quaresimale del 1354.


Dallo «Specchio di vera penitenza» [1]

DOVE SI DIMOSTRA COME LA PAURA RITRAE DALLA PENITENZIA [II]

II secondo impedimento della penitenzia si è il timore, cioè la paura d'afflizione o di pena temporale o corporale; chè gli uomini che sono avvezzi agli agi, alle delizie e diletti della carne, e a seguire la propria volontade, temono di partirsi o in tutto o in parte dagli usati e amati diletti. La qual cosa si conviene pur fare da coloro che imprendono a fare penitenzia; a' quali ancora conviene patire alcuna pena e malagevolezza nelle loro carni e nelle loro menti, per soddisfare a quello che male si dilettarono, seguendo la volontà propria, e nelle nequizie e nelle malizie della mente e ne' desiderii della carne e nei pessimi e mali costumi. Il rimedio contro a questa vana paura si è considerare che niuno peccato puote rimanere che non sia punito; o e' si punisce in questa vita o nell'altra. In questa vita si punisce per la penitenzia; nell'altra per la divina iustizia. E con ciò sia cosa che la pena della penitenzia sia brieve e lieve e particulare; e quella dell'altra vita cioè dello inferno sia eterna e sanza fine, sia grave, anzi gravissima sopra ogni altra pena sia generale e universale; non fanno saviamente coloro che questa brieve pena ischifano, e vanno alla eterna sanza fine. E che la pena dello inferno sia gravissima, si dimostra non solamente per la scrittura del santo Evangelio e de' Profeti, che in molti luoghi ne parlano, dicendo com'ella è gravissima e sanza fine, ma eziandio per certi essempli di cose vedute e udite.

Leggesi nella vita de' Santi Padri, che andando una volta santo Macario per lo deserto, trovò uno capo d'uno uomo morto; e, toccandolo col bastone, ch'e' portava in mano per appoggiarsi, e scongiurandolo disse: – Dimmi, di cui capo fusti tu? – Rispuose il teschio e disse che era stato d'uno sacerdote de' Pagani, il quale era ito a dannazione. E domandandolo che pena egli avesse, rispuose che per più ispazio che non ha da terra insino al cielo, era fuoco ardente che mai non si spegnea, né scemava, sopra il capo suo e degli altri pagani dannati, e altrettanto n'era di sotto a' loro piedi; e che i mali cristiani erano ancora più profondati nel fuoco ardente, e con maggiori pene di loro. A questo medesimo provare fa quello che intervenne a Parigi, dove si diede il saggio delle pene dello inferno.

Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava Serio, il quale insegnava loica e filosofia, e avea molti scolari. Intervenne che uno de' suoi scolari, tra gli altri arguto e sottile in disputare, ma superbio e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolaro morto gli apparì; il quale il maestro riconoscendo, non sanza paura, il domandò quello che di lui era. Rispuose che era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello inferno erano gravi, come si dicea, rispuose che infinitamente maggiori, e che con la lingua non si potrebbono contare, ma che gliene mostrerebbe alcuno segno. – Vedi tu, diss'egli, questa cappa piena di sofismi, della quale io paio vestito? questa mi pesa e grava più che se io avessi la maggior torre di Parigi, o la maggior montagna del mondo in su le spalle, e mai non la potrò porre giù. E questa pena m'è data dalla divina iustizia per la vanagloria ch'io ebbi del parermi sapere più che gli altri, e ispezialmente di saper fare sottili sofismi, cioè argomenti da vincere altrui disputando. E però questa cappa, della mia pena n'è tutta piena, però che sempre mi stanno dinanzi agli occhi, a mia confusione. – E levando alta la cappa, ch'era aperta dinanzi, disse: – Vedi, tu, il fodero di questa cappa? tutto è bracia e fiamma d'ardente fuoco penace, il quale, sanza veruna lena, mi divampa e arde. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuailo insino alla morte, sanza pentimento e proponimento di rimanermene. Onde, con ciò sia cosa che io perseverassi nello peccato sanza termine e sanza fine e arei voluto più vivere per più potere peccare, degnamente la divina iustizia m'ha dannato, e tormentando mi punisce sanza termine e sanza fine. Oimè lasso! che ora intendo quello che, occupato nel piacere del peccato, e inteso a' sottili sofismi della loica, non intesi, mentre ch'io vivetti nella carne! cioè per che ragioni si dia dalla divina iustizia la pena dello inferno sanza fine, all'uomo per lo peccato mortale. E a ciò che la mia venuta a te, sia d'alcuno utile ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro. – La quale il maestro porgendo, lo scolaro scosse il dito della sua mano che ardea, in su la palma del maestro, dove cadde una piccola goccia di sudore, e forò la mano dall'uno lato all'altro, con molto duolo e pena, come fusse stata una saetta focosa e aguta.

– Ora, hai il saggio delle pene dello inferno, disse lo scolare, e urlando con dolorosi guai isparì. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata e arsa, né mai si trovò medicina che quella piaga curasse, ma insino alla morte rimase così forata: donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro, compunto per la paurosa visione e per lo duolo, temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, diliberò d'abbandonare la scuola e il mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali, entrando la mattina vegnente in iscuola, dinanzi a' suoi scolari, dicendo la visione e mostrando la mano forata e arsa, ispuose e disse:

Linguo, coax ranis, era corvis, vanaque vanis;

Ad loycam pergo, quae mortis non timet ergo.


Io lascio alle rane il gracidare, e a' corvi il crocidare, le cose vane del mondo agli uomini vani; e io me ne vado a tale loica che non teme la conclusione della morte: cioè alla santa Religione.

E così, abbandonando ogni cosa, si fece religioso, santamente vivendo insino alla morte.

E se si trovasse alcuno che dicesse: Io non farò penitenzia nella vita mia, ma alla fine io mi pentirò e andrò a fare penitenzia nel purgatorio, stolto sarebbe questo detto: che come è detto di sopra, non ogni persona che crede fare buona fine la fa; anzi molti ne rimangono ingannati, però che comunemente il più delle volte, come l'uomo vive, così muore. Come dice santo Gregorio, che per iusto iudicio di Dio, l'uomo peccatore morendo dimentica sé medesimo, il quale vivendo dimenticò Iddio. Ma pogniamo che l'uomo fusse certo di pentersi alla fine; che sciocchezza sarebbe di volere anzi andare alle pene del purgatorio, delle quali dice santo Agustino che avanzano ogni pena che sostenere si possa in questa vita, che volere sostenere qui un poco di penitenzia? la quale, perché si prende volontariamente, soddisfa più per lo peccato, avvegna che piccola, che non fa quella del purgatorio che si sostiene per necessitade, avvegna che grandissima: imperò che ivi non è né luogo né tempo da meritare. E che la pena del purgatorio sia grandissima dicono i Santi, che in qualunque modo si prenda il purgatorio, o per quello luogo che è inverso il centro della terra, dove è l'inferno, dove l'anime si purgano in quello medesimo fuoco ch'è nello inferno, o vero per alcuno altro luogo sopra terra, come si truova che in diversi luoghi l'anime sostengono pene purgatorie, secondo il giusto iudicio di Dio, in qualunque modo si prenda, le pene sono gravissime. E se s'intende il purgatorio ch'è fra la terra, dove è il fuoco dello inferno, non è dubbio che la pena che dà quel fuoco all'anime, in quanto è istrumento della divina iustizia, è gravissima. Se si prende il purgatorio per altri luoghi sopra terra a' quali la divina iustizia ha diputate certe anime, o perché in quei luoghi commisono, quando vivevano in carne, alcuno peccato, o per domandare in quei luoghi aiuto da' parenti, o da' amici, o per ammaestramento di coloro che vivono, o per altro iudicio occulto di Dio, certa cosa è che le pene sono gravissime, secondo che le determina la divina iustizia, più e meno secondo la quantità e la qualità delle colpe che s'hanno a purgare. E di ciò troviamo molti esempli, de' quali solo uno, per non iscrivere troppo lungo, ne porrò.

Leggesi scritto da Elinando, che nel contado di Niversa fu uno povero uomo il quale era buono, e temeva Iddio; ed era carbonaio, e di quell'arte si viveva. E avendo egli accesa la fossa de' carboni, una volta, istando la notte in una sua capanetta a guardia dell'accesa fossa, sentì in su l'ora della mezzanotte, grandi strida. Uscì fuori per vedere che fusse, e vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo in mano; e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente la ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra, con molto spargimento di sangue, sì la riprese per li insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de' carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse; e ponendolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto. E così la seconda e la terza notte vide il carbonaio simile visione. Onde, essendo egli dimestico del conte di Niversa, tra per l'arte sua de' carboni e per la bontà sua la quale il conte, che era uomo d'anima, gradiva, venne al conte, e diss'egli la visione che tre notti avea veduta. Venne il conte col carbonaio al luogo della fossa. E vegghiando il conte e il carbonaio insieme nella capannetta, nell'ora usata venne la femmina stridendo, e il cavaliere dietro, e feciono tutto ciò che il carbonaio aveva veduto. Il conte, avvegna chè per l'orribile fatto che aveva veduto fosse molto spaventato prese ardire. E partendosi il cavaliere ispietato con la donna arsa, attraversata in su 'l nero cavallo, gridò iscongiurandolo che dovesse ristare, e isporre la mostrata visione. Volse il cavaliere il cavallo e, fortemente piangendo rispuose e disse: Da poi, conte, che tu vuoi sapere i nostri martiri i quali Dio t'ha voluto mostrare, sappi ch'io fui Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nutrito. Questa femmina contro alla quale io sono tanto crudele e fiero, è dama Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore l'uno dell'altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il quale a tanto condusse lei che, per potere più liberamente fare il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino alla infermitade della morte; ma nella infermitade della morte, in prima ella e poi io tornammo a penitenzia; e, confessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna dello inferno in pena temporale di purgatorio. Onde sappi che non siamo dannati, ma facciamo in cotale guisa come hai veduto, nostro purgatorio, e averanno fine, quando che sia, i nostri gravi tormenti. E domandando il conte che gli desse ad intendere le loro pene più specificatamente, rispuose con lacrime e con sospiri, e disse: Imperò che questa donna per amore di me uccise il marito suo, le è data questa penitenzia, che, ogni notte tanto quanto ha istanziato la divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello, e imperò ch'ella ebbe in verso di me ardente amore di carnale concupiscienzia, per le mie mani ogni notte, è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con grande odio, e ci perseguitamo con grande sdegno. E come l'uno fu cagione all'altro d'accendimento di disonesto amore, così l'uno è cagione all'altro di crudele tormento: che ogni pena ch'io fo patire a lei, sostengo io, che il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traendonela e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio al quale noi siamo dati, che ci ha a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi, e fate limosine e dire messe, acciò che Dio alleggeri i nostri martirii. E, detto questo, sparirono come fussero una saetta.

Non ci incresca, adunque, dilettissimi miei, soffrire alquanto di pena qui, a ciò che possiamo scampare da quelle orribili pene e dolorosi tormenti dell'altra vita, alla quale, o vogliamo noi o no, pure ci conviene andare.

[1] Dall'ed. a cura e con introduzione di M. LENARDON, Firenze, 1925, pp. 52-60.

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UpUltimo aggiornamento: 10/12/06